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Quella pittura italiana che illumina l’Europa di Alfredo Saccoccio

Posted by on Lug 17, 2018

Quella pittura italiana che illumina l’Europa di Alfredo Saccoccio

Anche quando l’Italia e la pittura italiana costituiscono, singolarmente nel Rinascimento, il più formidabile dei crogioli, in cui l’arte di tutto un continente va ad elaborarsi per irradiarsi poi sull’Europa intera, certi artisti vi hanno recitato un ruolo più particolarmente privilegiato di “traghettatori”, che gettano passerelle essenziali tra il focolare accertato italiano e il resto del mondo. E’ per eccellenza il caso del primo dei quattro artisti italiani, a cui sono stati consacrat studi recenti. Nato attorno al 1430, Antonello da Messina è stato allievo del napoletano Colantonio, che gli trasmette una duplice eredità iberico-napoletana, ma soprattutto fiamminga, nella scia di un Van Eyck che l’Italia meridionale scopriva infine. Ed è quest’arte, dalle solide plasticità, tutte penetrate tuttavia da silenzio e da riflessione, che un Antonello ispano-siciliano andrà, volta a volta, ad attaccarsi alle ieratiche figure di un Piero della Francesca, ad Arezzo e ad Urbino, poi a tutti i luministi veneziani della cerchia di Giovanni Bellini. Tutto questo cammino, così ben descritto da Gioacchino Barbera nella sua breve e solida opera, “Antonello de Messine”, è una maniera di viaggio verso l’ineffabile, dalle prime e rugose, solide, “Madonna che legge” o “Madonna Starling”, degli anni 1450, alla “Vergine dell’Annunciazione” di Monaco o di Palermo, nella scia di un Bellini trasceso, che costituiscono le più sconcertanti immagini che si possono concepire della bellezza grave, riflessa e tuttavia sensuale. Lo sguardo de “L’Annunziata”, del Museo Nazionale di Palermo, sotto il suo velo azzurro è già un invito a tutti i viaggi interiori ed è a questo viaggio da traghettatore che il professore Barbera ci invita, seriamente. Si è accennato alla tappa di Arezzo. Essa è fondamentale per Antonello come per ciascuno di noi. Ci si immagina il lento cammino che era quello, regolare, di un Piero della Francesca che va da Borgo San Sepolcro, dove ammiriamo ancora la sua “Resurrezione del Cristo” nella basilica di San Francesco d’Arezzo, in cui il corteo della regina di Saba ci sembra di essersi fermato da un’eternità. Da qualche parte, in cammino dopo Anghiari, dove rumoreggiano ancora i fracassi di battaglie, si inscrive nel colle della Scheggia il paesaggio ideale e sereno che si ritrova dietro il Cristo risuscitato. Si è abbastanza scritto su Piero, dopo la prima, vera monografia che gli sia stata consacrata, nel 1892, precisamente a San Sepolcro. Da Berenson a Kenneth Clarck, da Pope-Hennessy a R. Lightbown, l’edificio di Piero della Francesca non ha cessato di arricchirsi nello stesso tempo che la letteratura provvedeva a darci la sua opinione sul pittore. E’ vero che poche opere ispirano lo stesso rispetto altero, lontano, perfettamente estraneo che ci impongono le serve della regina inginocchiata dinanzi a Salomone, ad Arezzo. Come quella della piccola Madonna di Palermo, questi volti superbamente chiusi, serrati sulla loro bellezza misteriosa, provocano in noi, nel senso più preciso della parola, una maniera di commozione forte ed improvvisa.

Tutto pare, dunque, di essere stato scritto, in questi ultimi anni, su Piero: ed ecco che Maurizio Calvesi, che propose già, alcuni anni fa, ai suoi studenti della Sapienza di Roma un corso magistrale su “Piero della Francesca nel XV e nel XX secolo”, ci portò le ultime novità, partendo particolarmente da fonti pubblicate sulla gioventù del pittore, nello stesso tempo che la sua riflessione sul simbolismo che attraversa, di parte in parte, quest’opera senza pari. Che si aggiungano i nuovi restauri di Arezzo, la cui illustrazione ci fa da testimoni meravigliati, ed ecco che il “Piero della Francesca” di Calvesi diviene il libro che si attendeva su quello che dipinge per un cimitero di campagna la più commovente delle Vergini Marie, gravata dal bambino, di là da venire.

Se le parole mistero e ambiguità, domande senza risposta, possono porsi a proposito di un altro artista italiamo del Rinascimento, questi sarebbe ben Lorenzo Lotto. Rammentiamo che la mostra alle gallerie nazionali del Grand Palais, a Parigi, diede, alcuni anni fa, la giusta misura di un artista stretto tra i due giganti che furono, a quel tempo, Raffaello In Italia centrale e Tiziano a Venezia. Occorre dire che, anche lì, ha giocato un’influenza esterna, specialmente quella della pittura fiamminga e di Durer, che ha un tantino turbato l’immagine talvolta semplicistica che si ha di un’evoluzione senza incrinatura apparente di una grande pittura veneziana, partendo, diciamo, da un Carpaccio fino a Tiepolo. In Lotto, il bizzarro, un manierismo sempre in spostamento in rapporto ai suoi maestri, un gusto del particolare insolito si aggiungono talvolta a un’opulenza della rappresentazione, che, tra l’ “ Annunciazione” quasi assurdamente in movimento di Recanati, dalla sciolta naturalezza, e la superba grandezza del ritratto di Andrea Odoni, vi è apparentemente un’incalcolabile distanza. Ecco perché il volume di Carlo Pirovano, Peter Humfrey e Mauro Lucco sugli affreschi che Lotto dipinse, attorno al 1523, per un piccolo oratorio familiare vicino Bergamo, ci ha sorpreso per la semplicità e per la freschezza del suo intendimento. Qui si è agli antipodi dei misteri sapientemente calcolati dell’ultimo capolavoro di Lotto, la sua “Presentazione al Tempio” di Loreto, giudicata dal Berenson “forse la più moderna pittura dipinta da un antico maestro italiano”. Siamo, al contrario, in una casa di campagna, dove un affresco rustico racconta la vita di alcuni santi patroni della famiglia, nello stesso tempo che una quasi troppo schietta rappresentazione del Cristo, assieme fonte di vita, di vigne e di tutti i profeti, con una dilettevole rusticità: i lavori dei campi illustrati qui, i volti dei contadini, una Maria Maddalena gentilmente penitente o un vignaiolo vittima di un incidente del lavoro contrastano singolarmente con

tutto quello che credevamo aver appreso da Lorenzo Lotto. Ecco perché, in una collezione illustrata da affreschi altrimenti celebri, questo libro apporta, in un tempo di gloria mediatica di Lorenzo Lotto, una luce tutta nuova.

E’ molto serio che, a proposito di Lorenzo Lotto, un grande critico parigino ha potuto evocare una forma di surrealismo. E’, dunque, molto naturale che questa veduta spigliata di quattro artisti italiani particolarmente singolari si concluderà con un altro “traghettatore”. All’occorrenza uno dei precursori del surrealismo, Giorgio De Chirico, naturalmente. Egli è nato in Grecia, nel 1888, ma è un viaggio a Monaco, tra il 1906 e il 1909, che lo spingerà, molto presto, a legarsi ad alcuni simbolisti e pittori tedeschi dello strano, Carl von Marr o, soprattutto, il grande Bocklin. Le prime tele furono quasi elegiache, a fianco di Maurice Denis, per non parlare di Puvis de Chavannes. Però molto presto, nel quadro di una città ideale del Rinascimento, Firenze, o del XIX secolo, Torino, e, prima di approdare ai misteri di Ferrara, Giorgio De Chirico si impegnerà, con suo fratello Alberto Savinio, in una via senza ritorno, che è , bella e buona, quella di un surrealismo ante litteram.

Pochi artisti italiani di questo secolo hanno avuto da allora in poi un’influenza tanto radicale sul resto della pittura europea quanto De Chirico. Interessante l’opera che Paolo Baldacci consacra al periodo “metafisico” del pittore, cioè a quello che si conchiude nel 1919. E’ in quest’epoca che si elabora definitivamente una retorica oggi talmente familiare che fa parte dei nostri paesaggi letterarii urbani. Rivelazioni, enigmi, architetture, solitudine dei segni: ciascuno dei capitoli di Paolo Baldacci conduce all’elaborazione di una dottrina e alla sua messa in opera in alcune tele principali. Nell’ora in cui un caffè di Zurigo vede nascere il Dada, l’intrigo culmina per noi in un ospedale militare di Ferrara, dove i due fratelli incontrano, in piena guerra, De Pisis e Carrà: è nata un’arte, in cui sogni e metafore si coniugano per rimuovere la realtà in un ambito che rifiuta ogni logica. E’ la “metafisica”. Le sue immagini, fin da allora, sono grandiose.

 

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