Alta Terra di Lavoro

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Quella Tangente di Mazzini

Posted by on Apr 4, 2017

Quella Tangente di Mazzini

La sollecitazione del maestro del “pensiero e azione” si riferiva agli interessi di Adriano Lemmi, che partecipava alle manovre per l’assegnazione dello sviluppo delle ferrovie del Sud e servi per finanziare “Il popolo d’Italia”, un giornale napoletano di tendenza filo-repubblicana.

«lo soltanto vi dico che mentre altri farebbe suo prò di ogni impresa, egli mira a fondare la Cassa del partito e non la sua».

Nero su bianco, scritto su lettera intestata e autografato con la firma di Giuseppe Mazzini il quale, ricercato dalla polizia come rivoluzionario aveva difficoltà a partecipare personalmente alle riunioni ma poteva “indirizzare” la discussione affidandosi a una quantità di amici che non gli mancavano. Giuseppe Garibaldi e Francesco Crispi erano i destinatari e si affrettarono ad accontentare l’amico in esilio.

Difficile sostenere con certezza che questa fu la prima tangente dell’Italia finalmente unita. Allora -come oggi – la corruzione non veniva certificata con timbri e marche da bollo. Tuttavia, in questo caso, il documento c’è ed è inequivoco. Accettando qualche margine di approssimazione, non è impossibile sostenere che gli affari sporchi sono cominciati con quella lettera di raccomandazione.

I FINANZIERI D’ASSALTO

I militari stavano ancora concludendo l’occupazione del Sud Italia, sventrando a cannonate le residue resistenze borboniche, e i finanzieri d’assalto già si preoccupavano dei guadagni della “ricostruzione”.

Le nuove lire del Regno cominciavano a circolare ed era necessario darsi da fare per incrementare il proprio patrimonio personale. La nuova classe dirigente non era stata educata agli scrupoli di coscienza.

Dunque, si trattava di realizzare un progetto di ferrovia. Il nuovo paese, così allungato per un migliaio di chilometri, aveva urgenti necessità di collegamenti che, all’epoca, potevano essere assicurati soltanto dal treno.

Gli storici dedicarono al problema poche riflessioni. E quelle poche furono utilizzate, soprattutto, per sbeffeggiare i Borbone. Il Governo del Regno delle Due Sicilie, nel 1839, aveva inaugurato l’era della locomotiva facendo costruire – novità assoluta – il tratto ferroviario fra Napoli e Portici: ma i commentatori presentarono l’evento come se si fosse trattato di una specie di Luna Park principesco.E, infatti, chi con maggiore, chi con minore ironia, evidenziarono il divertimento della famiglia reale che scorrazzava, in treno, sulle rotaie.

Al contrario, Cavour, lungimirante come sempre, aveva investito una percentuale consistente del bilancio dello Stato per dotare il Piemonte di una efficiente rete ferroviaria, utile, soprattutto, per il trasporto delle merci.

LE DUE DORSALI FERROVIARIE

In realtà, i treni, in Settentrione, correvano soprattutto per iniziativa dei governi austriaci mentre il Sud stava realizzando il progetto per la creazione di due dorsali: una, partendo da Brindisi, sarebbe arrivata a Pescara per spingersi verso Ancona e Bologna, mentre l’altra dalla Calabria avrebbe dovuto raggiungere Roma e, seguendo la costa tirrenica, Genova e Torino.

Alcuni tratti erano già stati realizzati e alcune città già in collegamento fra loro: Torre del Greco, Castellammare di Stabia, Capua,Sparanise. Si poteva arrivare fino a Salerno e Caserta. Tuttavia, procedendo con quel ritmo, si sarebbe impiegato troppo tempo. Per questo i Borbone lanciarono un bando internazionale per affidare i lavori alle imprese più attrezzate e assicurarsi un risultato più rapido. Prima dell’invasione dei garibaldini, gli appalti erano stati assegnati a una famiglia di banchieri francesi, i Talabot, i quali avevano trasmesso i piani definitivi per l’intervento e comunicato di essere nelle condizioni di avviare la realizzazione degli impianti.La guerra impedì che si entrasse nella fase esecutiva con quei progetti e quelle soluzioni ma il problema delle ferrovie doveva essere risolto.

L’affare delle strade ferrate faceva gola a molti banchieri e imprenditori, non solo italiani: un’offerta in proposito giunse anche dal ricchissimo James Rothschild

Si trattava di un impegno colossale che, tradotto in moneta, significava una montagna di denaro da spendere e da guadagnare.

Il più lesto di tutti fu il banchiere toscano Augusto Adami che chiese udienza al generale Garibaldi (appena entrato a Napoli con le camicie rosse e con la camorra). Vantò i finanziamenti che aveva assicurato all’impresa dei Mille e, con quel titolo di credito, passò subito all’incasso, accaparrandosi l’incarico di costruire le strade ferrate.

Analoghi interessi coltivava anche Adriano Lemmi, ma pensava di raggiungere l’obiettivo attraverso l’amicizia di Francesco Crispi, egualmente potente ed egualmente amico. Dovette fare la consueta anticamera davanti alla porta del suo ufficio ma, quando gli riuscì di incontrarlo a quattr’occhi, non ebbe tentennamenti ne reticenze. Rivendicò che il nuovo Governo – ancorché provvisorio – doveva affidare a lui lo sviluppo dei treni del Sud.

Non gli mancavano gli argomenti per convincere gli amici. Aveva in tasca una lettera di accredito che, da sola, valeva un tesoro. Giuseppe Mazzini, l’asceta incorruttibile – tutto casa, massoneria e agitazioni da provocare per tutta la Giovane Europa – gli aveva affidato un messaggio importante.

LA RACCOMANDAZIONE DELL’“APOSTOLO”

«Fratello – scriveva l’apostolo tricolore – il portatore della presente, Adriano Lemmi, è nostro buonissimo amico da vent’anni e fece considerevoli sacrifici per la Causa».

Causa con la “C”maiuscola per nobilitare con un fine ideale la volgarità che doveva patrocinare.

Ei viene per trattare cosa importante concernente la concessione fatta di recente all’Adami per le vie ferrate. , vi prego,spiegherà, egli, ogni cosa».

Ed ecco le poche righe vergate amano con calligrafia spigolosa che, senza giri di parole e, anzi con una schiettezza persino ingenua, proposero il patto scellerato fra politica ed economia.

«lo soltanto vi dico che dove altri farebbe suo prò di ogni impresa, egli mira a fondare la Cassa del partito e non la sua».

Cassa con la “C” maiuscola per conferire dignità al «finanziamento illecito»sotto il peso del quale precipitarono tutti i partiti della prima Repubblica.

In quel 1860 non c’era problema. Come ignorare un appello del maestro del “pensiero e azione”?

In poche ore Garibaldi e Crispi si incontrarono e decisero con la rapidità dei generali in assetto di guerra. Non si conoscono i dettagli della discussione ne l’ardore con cui sostennero le ragioni delle rispettive clientele. Il risultato, però, fu equo: metà per Adami e metà per Lemmi.Del resto, i due erano anche cognati e, in passato, non avevano avuto problemi per accordarsi in società.

TANGENTE PER UN GIORNALE

La tangente, almeno in parte, fu anticipata e servì per finanziare “Il popolo d’Italia”, un giornale da stampare a Napoli che si segnalò per la sua impronta filo-repubblicana ma senza i toni esasperati della polemica contro la monarchia regnante.

Il progetto per le nuove ferrovie comportava un impegno finanziario di tutto rispetto. Era necessario tracciare un reticolato di 6mila chilometri di rotaie. Si dovevano sborsare 210 milioni di lire per l’acquisto dei terreni, la sistemazione della base stradale e gli impianti fissi. Altri 30 milioni sarebbero stati utilizzati per il materiale mobile, le stazioni e i caselli. Poi il personale dirigente, gli operai, i manovali, i tecnici e gli ingegneri. In tutto si trattava di un bilancio prossimo al miliardo e mezzo: valuta 1861.

Per realizzare l’impresa, occorrevano cantieri e strutture che i due banchieri, in società, non possedevano e che non riuscirono a procurarsi. L’accoppiata toscana, alla fine, fu costretta a rinunciare all’incarico. La nuova Italia consumò qualche milione in consulenze e sopralluoghi, anticipi e preventivi, rilievi topografici e analisi geologiche ma non si arricchì nemmeno di un metro di strada ferrata. Che fare?Il Governo, utilizzando il viatico delle scuse postume e la diplomazia delle mille promesse, tentò di recuperare i francesi Talabot che, però, non accettarono di rientrare nel gioco.

L’OFFERTA DI ROTHSCHILD

La soluzione sembrò a portata di mano quando, nella primavera del 1862, i responsabili dei lavori Pubblici ricevettero un’offerta per le concessioni delle ferrovie del Sud.

Interessavano a James Rothschild, uno degli uomini più ricchi al mondo, rampollo di una famiglia che, da generazioni. faceva parte dell’Alta Società, al di qua e al di là degli Oceani. La proposta sembrava vantaggiosa e,dopo tutto il tempo perduto, non sembrava il caso di aggiungere ulteriori ritardi.

Fu il toscano Pietro Bastogi ad assicurarsi la concessione ferroviaria con la creazione di una società dal capitale di 100 milioni

La proposta avrebbe dovuto essere illustrata in Parlamento per l’approvazione definitiva ma all’ultimo momento venne tolta dall’ordine del giorno e venne accantonata senza spiegazioni.

Che cos’era successo? Che c’erano in ballo cifre rilevanti che lasciavano immaginare guadagni superbi. Perché favorire un capitalista straniero?

Ci pensò Pietro Bastogi, imprenditore di fiuto. In una manciata di giorni, senza andare troppo per il sottile con il“conflitto di interessi”,riuscì a costituire una società che potesse proporsi per la realizzazione delle ferrovie meridionali.Venne depositato un capitale di 100 milioni che, in ultima analisi, vennero coperti dalle tasse degli italiani.

Quanto ai progetti veri e propri si pensò di procedere con il sistema del subappalto da dividere in tre gruppi: il Credito Mobiliare, i signori Brassery e un manipolo di imprenditori lombardi riuniti in una specie di cooperativa. Bastogi avrebbe ottenuto 210.000 lire per chilometro come previsto dai capitolati d’appalto ma ne avrebbe pagate soltanto 198mila.

L’utile doveva essere diviso in due parti: metà a Bastogi e l’altra metà da utilizzare fra i subappaltatori e tutto quel groviglio di interessi che gravitava intorno. In fondo, si trattava di un’idea da nulla ma chi la inventò fu in grado di guadagnare senza fatica e di assicurare un reddito a tutti coloro che svolgevano le opere del tutto parassitarie della mediazione.

I Bastogi, una famiglia di commercianti originari di Civitavecchia ma trapiantati da tempo a Livorno,iscritti d’ufficio negli albi della nobiltà a diciotto carati, erano quelli che, senza rischiare nulla, avrebbero ottenuto i maggiori vantaggi. Anche in passato, proprio l’opportunismo aveva consentito loro di accumulare ricchezze, facendoli traghettare, indenni, fra i ribaltoni della politica.

PIETRO BASTOGI DOPPIOGIOCHISTA

Un esempio soltanto. Al momento della costituzione dello Stato italiano, proprio a Pietro Bastogi venne affidato il dicastero delle Finanze. Svolgendo quell’incarico dovette predisporre il “Gran Libro del debito pubblico” nel quale confluirono tutte le voci in passivo dei bilanci dei vari regni prima dell’unificazione. Nel documento comparvero anche gli obblighi contratti dall’ex Granduca di Toscana e, fra tante cifre di debiti, anche un prestito contratto per finanziare la repressione dei moti carbonari e patrioti del 1849. I quattrini gli erano venuti proprio dai Bastogi che avevano garantito il prestito con le loro fideiussioni.

Come non rilevare la spaventosa contraddizione del nuovo Stato?L’Italia, frutto di una rivoluzione, accettava di rimborsare una cospicua somma di denaro che era stata utilizzata proprio per contrastare i primi sussulti di quel processo innovatore.

Come non sottolineare la disinvoltura dell’intellighenzia politica di allora?Il Bastogi, uomo di Governo, firmò gli atti che assicurarono al Bastogi, finanziatore della repressione, di recuperare il denaro che aveva speso in attività anti-governativa.

Due deputati Francesco Guerrazzi e Nino Bixio – si opposero al riconoscimento, trascinarono al voto contrario tutti i colleghi della Sinistra radicale del tempo ma restarono in minoranza perché gli uomini della Destra, largamente più numerosi, si espressero favorevolmente. Certo, Bastogi non fece bella figura e quando, alla morte di Cavour (1861), si trattò di realizzare un rimpasto di Governo, si trovò senza ministero.

Questi episodi, avvenuti nell’arco di pochi mesi, avrebbero dovuto produrre qualche sospetto sulla trasparenza delle operazioni che portavano alla costituzione di una società per i lavori nel Meridione d’Italia. Ma la politica dimentica in fretta.

Il Parlamento, senza troppo cavillarci sopra, e anzi con valutazioni di genuino entusiasmo, approvò la proposta del banchiere di Livorno. Non si preoccuparono nemmeno di salvare le apparenze. Nessuno volle notare che, nell’elenco dei sottoscrittori, c’erano ripetizioni e una quantità di imprecisioni tali da meritare almeno qualche riflessione sulla precipitazione con cui era stata concepita l’impresa.

Non vennero fatte obiezioni tecniche ne si pretese correttezza nelle procedure. Non si accorsero (o probabilmente non si ritenne utile eccepire) che il domicilio provvisorio della neonata società era indicato presso l’abitazione torinese del deputato Bartolomeo Feltrami.

di Giorgio da Batiorco

 

fonte……

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