Raffaele De Cesare, Mezzo secolo di storia italiana (1861-1910)
BRIGANTAGGIO, UN’ALTRA CITAZIONE POCO NOTA RISPETTO A QUELLE RICORRENTI
Le condizioni interne della Penisola, e singolarmente del Mezzogiorno, erano tanto gravi, da rendere verosimile il pericolo che l’unità potesse disfarsi. Pericolo maggiore era il brigantaggio, che aveva apparenza politica, ma in realtà era lotta di classe, ed effetto dell’indigenza dei lavoratori di campagna.
(Raffaele De Cesare, Mezzo secolo di storia italiana (1861-1910), anno 1912, p. 6.)
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SOMMARIO DI STORIA POLITICA E AMMINISTRATIVA D’ITALIA
(1861-1910)
Regno di Vittorio Emanuele II.
Il giorno 18 febbraio 1861, in Torino, nella nuova sala del palazzo Carignano, destinata a raccogliere in ottava legislatura i rappresentanti del primo Parlamento Nazionale, il Re Vittorio Emanuele pronunziò il memorabile discorso, che, dopo mezzo secolo, non si rilegge senza commozione. Quel discorso, che eccitò salve ripetute di applausi e grida entusiastiche, dopo aver enumerate le nuove fortune politiche o militari d’Italia, e ricordato il Capitano ” che riempì del suo nome le più lontane contrade “, si chiuse con le parole: “questi fatti banno ispirato alla Nazione una grande confidenza nei propri destini. Mi compiaccio di manifestare al primo Parlamento d’Italia la gioia, che ne sente il mio animo di Re e di soldato “. Le parole di Vittorio Emanuele contenevano una fede ed un augurio. L’ Italia, nei momenti più difficili degli ultimi cinquant’anni, non disperò,anzi trasse dalle sventure e dagli insuccessi nuova forza per compiere la sua unità politica, per rifarsi via via nel campo economico, amministrativo e militare, e divenire, secondo l’augurio di Vittorio Emanuele, guarentigia di ordine e di pace, ed efficace istrumento della civiltà universale. In quel febbraio del 1861, e proprio cinque giomi prima della seduta reale, la fortezza di Gaeta capitolò; e i Sovrani di Napoli, che vi si erano chiusi, sostenendo un lungo e coraggioso assedio, trovarono rifugio a Roma., ospiti del Pontefice Pio IX, fino al 1870. Non rimaneva che la cittadella di Messina, la quale si arrese il 18 marzo, vigilia dell’altra storica seduta, nella quale Vittorio Emanuele II fu proclamato Re d’ Italia. Relatore di quel disegno di legge fu il deputato Giambattista Giorgini, che scrisse una delle più magnifiche Pagine del nostro Risorgimento. Se della resa di Gaeta die’ l’annunzio Vittorio Emanuele ai Senatori e ai Deputati, esprimendo l’augurio che, con la espugnazione di quella fortezza, si chiudeva per sempre la serie dolorosa dei nostri conflitti civili, l’annunzio della capitolazione di Messina fu inviato al Governo dal generale Cialdini, espugnatore dei due ultimi baluardi della potenza borbonica nell’antico Regno di Napoli. Delle varie Signorie della Penisola non rimaneva che Roma oon le quattro provincie rimaste al Papa ; e Venezia con quelle di sua più antica dominazione.
Nel febbraio del 1861 il ministero italiano era formato così: Cavour, presidente del Consiglio e ministro degli esteri e della marina; Marco Minghetti, dell’interno; Giambattista Cassinis, di grazia e giustizia; Saverio Vegezzi, delle finanze; il generale Manfredo Fanti, della guerra; il conte Terenzio Mamiani,dell’istruzione, Ubaldino Per uzzi, dei lavori pubblici; Tommaso Corsi, dell’agricoltuia industria e commercio. Un mese dopo, al Vegezzi successe Pietro Bastogi ; al Mamiani, Francesco De Sanctis; al Corsi, Giuseppe Natoli; e fu ministro senza portafoglio Vincenzo Niutta, presidente della Corte suprema di Napoli.
Il ministero non subì altre modifiche sino alla morte di Cavour. Presidente del Senato fu nominato Ruggiero Settimo, capo glorioso della rivoluzione siciliana nel 1848, ma che per la giovane età non prese mai possesso dell’altissimo ufficio; e presidente della Camera venne eletto, nella seduta del 7 marzo, Urbano Rattazzi, a quasi unanimità di suffragi. La ottava legislatura subì posteriormente alcune modifiche nelle sue presidenze, onde a Ruggiero Settimo, morto nel 1863, successe il conte Federico Sclopis, e poi il barone Giuseppe Manno; e al Rattazzi successero, via via, il Tecchia e il Cassinis.
In quel primo semestre del 1861, il nuovo Regno d’Italia era stato riconosciuto dalla sola Inghilterra: e nel suo discorso del 18 febbraio Vittorio Emanuele lo notò con viva compiacenza; ma rivelò pure, con nobili parole improntate di affetto, che, nonostante, da parte della Francia, il riconoscimento non fosse ancora avvenuto, ciò non aveva alterato i sentimenti della gratitudine italiana verso di essa. Il riconoscimento della Francia avvenne nel giugno successivo, appena dopo la morte di Cavour, quasi volesse Napoleone III confortare l’Italia della perdita del suo grande ministro; e tornò ministro plenipotenziario a Parigi Costantino Nigra, al quale l’Imperatore aveva detto nella visita di congedo dell’anno innanzi, quando le relazioni diplomatiche furono interrotte: au revoir, mon cher Nigra. Gli altri riconoscimenti vennero a breve distanza; e alla Francia seguirono la Prussia e la Russia. Al nuovo Re di Prussia Guglielmo, fondatore più tardi della unità tedesca, Vittorio Emanuele mandò un ambasciatore, in segno di onoranza a lui e di simpatia verso il suo Regno; e fu il generale Alfonso La Marmora. A Cavour non poteva sfuggire la grande analogia storica e l’identità degl’ideali e degli interessi politici fra la nuova Italia e la Prussia, predestinata a ricostituire anch’esssa l’unità della nazione tedesca. La Spagna riconobbe il Regno nel 1865; e l’Austria dopo la guerra del 1866, onde l’ex-re di Napoli seguitò ad avere rappresentanza diplomatica presso le due Corti, le quali, alla lor volta, furono rappresentate in Roma presso il principe decaduto, sino a che il riconoscimento non avvenne.
Le condizioni interne della Penisola, e singolarmente del Mezzogiorno, erano tanto gravi, da rendere verosimile e temuto il pericolo che l’unità potesse disfarsi. Pericolo maggiore era il brigantaggio, che aveva apparenza politica, ma in realtà era guerra di classe, ed effetto dello stato di abbrutimento dei lavoratori di campagna, e della loro estrema indigenza. La rivoluzione aveva spezzato quasi ogni vincolo di gerarchia sociale; i suoi eccessi, inevitabili in ogni cangiamento di governo, ne provocavano altri; e gli uni e gli altri degeneravano nel sangue e nella rapina. Se il brigantaggio rispondeva ad una condizione storica, esso ebbe alcune cause straordinarie che si sarebbero potute evitare. Lo sbandamento dell’esercito borbonico, dopo le varie capitolazioni, e singolarmente dopo quella di Gaeta, ne fu la cagione principale, onde in breve s’infiltrò e affermò in tutto l’antico Regno, nel tempo stesso che divampavano le reazioni, con atti di ferocia da parere leggendarii. Il brigantaggio, come movimento politico, era alimentato da Roma, cioè dalla parte più turbolenta di quella larga emigrazione di legittimisti e fuorusciti napoletani, nobili e borghesi, militari ed ecclesiastici, che avevano accompagnato la Corte e ne invocavano il ritorno. Il governo pontificio e l’occupazione militare francese, per fini e interessi diversi, lasciavano fare, mentre il governo italiano era quasi disarmato, sia per la scarsità delle forze militari, e col pericolo che l’Austria potesse con qualunque pretesto passare il Mincio; sia per i riguardi che doveva imporsi come governo civile e parlamentare. Se l’apparenza del brigantaggio potè parere politica, singolarmente nell’anno 1861, quando nell’ex-Regno calavano avventurieri a combattere per la legittimità, la sostanza ne fu essenzialmente sociale e criminosa. La politica vi entrava solo per assicurare l’impunità ai capi, nonché il frutto delle rapine, quando la restaurazione fosse avvenuta, come si era verificato nel 1799. La triste illusione che Francesco II potesse riprendere il Regno, col brigantaggio e le reazioni, era alimentata in lui per il primo dai ricordi di quell’anno stesso. L’esempio del cardinal Ruffo faceva perdere la esatta visione delle cose. Il brigantaggio fu soffocato, dopo una guerra di circa sei anni, dal valore dell’esercito e dal patriottismo delle popolazioni, onde son ricche le cronache di quei tempi.
All’assetto sociale e al ripristinamento dell’ordine pubblico nelle Provincie più sconvolte venne provvedendo il nuovo Governo, a misura che si fondava l’impero della legge, e si iniziavano le opere pubbliche.
Né furono queste sole le difficoltà dei primi tempi della nuova Italia. La rivoluzione non rientrava nel suo letto, ma permaneva coi suoi ideali e il suo spirito di avventura. Molti dei suoi uomini maggiori, con Garibaldi alla testa, accusavano il Governo di non voler compiere il programma nazionale, liberando Roma dal Papa e dai francesi, e muovendo guerra all’Austria per la liberazione del Veneto. La rivoluzione non poteva darsi pace che ad essa fosse sfuggita la direzione del movimento nazionale; per cui le lotte si manifestavano in vario modo, nella stampa, nel Parlamento e nelle dimostrazioni popolari, e scoppiarono clamorosamente nel non dimenticato duello parlamentare fra Cavour e Garibaldi, nella seduta del 18 aprile 1861. Si venne così formando nella Camera dei deputati quella opposizione permanente, che fu detta di Sinistra, più politica che amministrativa, ingrossata alla sua volta da quanti erano malcontenti del nuovo ordine di cose per cause e interessi diversi, e da quanti si illudevano che la nuova Italia avrebbe abolito o diminuito le imposte, o avrebbe distrutto gli abusi dei vecchi Governi, o tollerato nuovi abusi in nome della libertà. Non era possibile provvedere a tutte le deficienze economiche e morali, effetto, alla lor volta, di una situazione nuova nella storia: cinque Stati, diversi di tradizione e anche di razza, che si fondevano in quello, che aveva avuto la direzione del movimento nazionale, col suo Se, con la sua diplomazia, col suo esercito e un grande ministro. Il malcontento cresceva, e trovava la sua eco nelle discussioni parlamentari. Il partito della rivoluzione o di azione, come si chiamò, cercava diffondere questi convincimenti: che l’unità era stata fatta a beneficio del Piemonte, e che da parte di questo non vi fosse interesse a compierla; e che un gran paese, privo di mezzi di comunicazione, non poteva governarsi da Torino, e per ciò essere impossibile rimetter l’ordine pubblico. E tali convinzioni mettevano radici in quasi tutte le classi sociali.
Sino a che visse Cavour le difficoltà parevano non insuperabili. Egli aveva chiara la visione del problema meridionale, e godeva di un’autorità straordinaria nel paese, nel Parlamento e in Europa ; ebbe oppositori, non un vero partito di opposizione; governò come volle; lottò con la rivoluzione, e la vinse; lottò con Garibaldi in quella ricordata seduta del 18 aprile, e fece chiamare all’ordine l’ex dittatore. Volle che Roma fosse acclamata capitale d’Italia, mentre negoziava un accordo col Papa. E poiché era chiara in lui anche la visione del problema amministrativo, forse non in tutte le sue parti, ma con tutte le sue difficoltà, lasciò presentare dal Minghetti nella seduta del 13 marzo 1861 due progetti: uno sull’amministrazione comunale e provinciale, e l’altro sulla amministrazione regionale: progetti non discussi sino a che egli visse, forse perchè a lui non pareva fossero di sicura efficacia per l’ordinamento interno del nuovo Stato, o perchè erano troppo vivaci i dissensi fra la tendenza unitaria e accentratrice, e quella che voleva dare una ragionevole espansione alle autonomie locali. I progetti erano stati redatti dal Farini l’anno innanzi, e presentati alla Commissione, che studiava un nuovo ordinamento amministrativo presso il Consiglio di Stato, e di cui era presidente il Des Ambrois.
Cavour morì quando era ancora necessaria la sua presenza; morì all’apogeo della gloria, e ancora in verde età. L’annunzio della sua morte al Parlamento fu grandioso e semplice insieme. Non ombra di rettorica, ma commozione sincera e profonda. Alla Camera dei deputati parlarono il presidente Rattazzi, il ministro dell’interno Minghetti, e Giovanni Lanza: nessun altro.
La Camera e il Senato sospesero le sedute per tre giorni; e le bandiere e le tribune furono abbrunate per una settimana. Già fin dal 2 giugno, quando la malattia del primo ministro non lasciava adito alla speranza, Vittorio Emanuele affidò il portafoglio degli esteri al Minghetti, e quello della marina al Fanti. E spirato Cavour nella mattina del 6 giugno, il Re incaricò il barone Bettino Ricasoli di comporre il nuovo ministero; e nuovi ministri furono il Ricasoli, che prese il portafoglio degli esteri; il Minglietti che successe nella giustizia al Cassinis; il Menabrea, che andò alla marina, del qual dicastero Cavour aveva conservato la reggenza sino a che visse ; e Filippo Cordova, che sostituì Giuseppe Natoli all’agricoltura.
Le difficoltà interne si rendevano sempre maggiori nelle Provincie meridionali, non solo per il crescente brigantaggio, ma per le nuove leggi promulgate dalle luogotenenze di Napoli e Palermo; per i primi aggravi delle imposte, e per l’inesperienza dei nuovi governanti, mandati dalle Provincie settentrionali. A Napoli, sotto la luogotenenza del principe di Carignano, che aveva per segretario generale il Nigra, furono promulgate le leggi ecclesiastiche, proposte dal Mancini; le quali sollevarono le alte proteste del clero secolare e regolare, nonché dell’episcopato, e acuirono le ire contro il nuovo ordine di cose, concorrendo all’insuccesso delle trattative intavolate a Roma a mezzo del Passaglia e del Pantaleoni. Nel tempo stesso il Minghetti, ingegno meravigliosamente duttile, crede che si potesse riprendere la sua idea contenuta nei due disegni di legge presentati nel marzo, e che erano in sostanza una specie di mezzo termine, onde non venivano abolite del tutto le autonomie amministrative regionali, ed erano divisi i Comuni in classi. Con quei progetti, di certo incompleti, ogni regione era formata dalle Provincie che la componevano storicamente e, più, geograficamente, riunite in consorzi obbligatori per le opere relative agristituti di istruzione, agli archivi, alle accademie e ai lavori pubblici per strade, ponti, argini, fiumi e torrenti. Ad ogni regione era dato un governatore con una Commissione eletta dai Consigli provinciali, ai quali competeva la facoltà di far regolamenti per le colture irrigue e l’esercizio della pesca e della caccia. Ma i progetti non ebbero fortuna negli Uffici, sempre nel timore o pregiudizio che potessero servire a indebolire l’unità.
Giovanni Barracco, uno dei pochi e gloriosi superstiti di quella Camera, cercò dissipare le prevenzioni degli avversari, e disse : « le unità, se politicamente resistenti da principio, saranno via via spazzate dal grande sentimento unitario: si tratta, in sostanza, di allattare le province, dando loro un’autonomia tutta amministrativa e necessaria in un paese, che non fu mai unito, come il nostro .
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…OMISSIS…
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