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REGINA MARIA SOFIA DI BORBONE UNA EROINA DIMENTICATA (IV)

Posted by on Gen 16, 2019

REGINA MARIA SOFIA DI BORBONE UNA EROINA DIMENTICATA (IV)

I soldati, ben consapevoli del tradimento del generale Nunziante, respinsero con sdegno le parole del traditore e si prepararono alla res…istenza, disconoscendo, purtroppo, che nelle file dell’esercito serpeggiavano altri traditori pronti alla resa

A Napoli alcune navi piemontesi sbarcarono circa 3000 fanti di marina e bersaglieri disposti ad attaccare la città dalla parte del porto. Caduta Salerno, Francesco II decise di lasciare Napoli per evitare un bagno di sangue alla sua amata città. Il 6 settembre il re lasciò la capitale con oltre 40.000 uomini di fanteria, 6000 di cavalleria e 200 pezzi di artiglieria pesante: una forza più che sufficiente per battere Garibaldi che disponeva ancora di poche migliaia di volontari.

Lo scopo del re era quello di concentrare le sue forze tra Gaeta e Capua, costituendo una linea di difesa tra il Volturno e il Garigliano. Neppure immaginando che l’esercito piemontese avrebbe fatto irruzione nel Regno, senza dichiarazione di guerra e violando la neutralità dello Stato della Chiesa.

Maria Sofia avrebbe voluto cavalcare con il re alla testa delle truppe ma Francesco preferì lasciare la città in carrozza. Il re portò con sé casse colme di documenti e atti di governo, il sigillo reale e gli effetti personali trascurando tutti gli oggetti di valore: un’enorme quantità di vasellame di oro e di argento, che rimase al palazzo reale.

Francesco lasciò nel Banco di Napoli anche tutto il suo patrimonio personale: undici milioni di ducati più cinquanta milioni di franchi d’oro (l’enorme somma confiscata da Garibaldi andò a finire nelle casse di Vittorio Emanuele).

Furono confiscati anche i maggiorati dei principi reali, le doti delle principesse ed i beni dell’Ordine Costantiniano, eredità privata dei Borbone, avuta da Casa Farnese.

Furono rubati anche sessantasettemila ducati di rendita, dote ereditaria di Maria Cristina di Savoia, madre di Francesco II. Per non parlare poi delle ceramiche di Capodimonte, dei mobili, dei letti d’argento, dei tappeti, dei quadri di palazzo reale che presero la via di Torino per arredare la reggia del cugino Savoia.

La coppia reale raggiunse il porto di Gaeta sulla fregata Il messaggero; solo la nave a vela Partenope seguì i sovrani: tutte le altre navi militari rimasero alla fonda nel porto di Napoli.

Infatti i comandanti si erano venduti all’ammiraglio piemontese Persano con la promessa che sarebbero stati incorporati nella marina sarda con il loro grado ed il loro stipendio (promessa che non fu poi mantenuta).
Solo due navi spagnole si misero sulla scia del Messaggero, a bordo il fedele Bermudez de Castro, che non aveva voluto abbandonare i sovrani di Napoli in quel drammatico momento.

Sulla linea di difesa fra Capua e Gaeta il re venne raggiunto dalle truppe rimaste fedeli: i reggimenti di Von Mechel, tre divisioni di fanteria, una di cavalleria, 42 pezzi di artiglieria, in tutto 28000 uomini pronti a battersi.

Maria Sofia, che aveva indossato un’uniforme militare, si offrì di cavalcare alla testa delle truppe insieme con il marito ma Francesco preferì affidare il comando al vecchio generale Ritucci. Il primo ottobre del 1860 iniziò la battaglia del Volturno, l’unica vera battaglia di quella strana guerra.

Lo scontro fu durissimo e i garibaldini furono costretti a ripiegare. Furono travolte e messe in fuga anche le riserve di Bixio e lo stesso Garibaldi, caduto dal cavallo che era stato colpito, stava per essere ucciso o fatto prigioniero.

Il re, incurante del fuoco nemico, cavalcò in prima linea esortando i combattenti ad inseguire il nemico ed al momento opportuno lanciò all’attacco la Guardia Reale.

La Guardia Reale napoletana era abituata alle parate in città, ma non aveva alcuna esperienza di combattimento; i soldati erano poco addestrati alle manovre militari e per di più erano stati sempre male comandati da generali inetti ed incapaci.
La prima carica della Guardia fu arrestata dalla fucileria garibaldina e i granatieri reali furono costretti a ripiegare in disordine.

Il re in persona, incurante del pericolo, si gettò fra i suoi uomini incitandoli al combattimento, e fu proprio in quel momento che il tanto vituperato “Franceschiello” dimostrò tutto il suo coraggio.

Postosi al comando di due squadroni a cavallo del 2° reggimento ussari, il sovrano penetrò nelle file nemiche portando lo scompiglio fra le truppe piemontesi che presto si posero al contrattacco utilizzando le riserve di Cosenz; intervennero nella lotta migliaia di bersaglieri e granatieri sardi, mentre le riserve borboniche comandate da Colonna rimasero inattive lungo le rive del Volturno. Il piano di battaglia voluto dal re, perfetto nella sua formulazione, fallì come al solito per la insipienza e la incapacità dei generali napoletani.

Il 3 ottobre Vittorio Emanuele II, alla testa dell’esercito, attraversò lo Stato Pontificio, violando apertamente la neutralità della Chiesa, senza dichiarazione di guerra, portando le truppe sarde alle spalle dei Napoletani. Fu necessario pertanto ripiegare nella fortezza di Gaeta.

Sugli spalti di Gaeta Francesco II e Maria Sofia si guadagnarono gloria, ammirazione e rispetto. Gli storici sabaudi hanno sempre liquidato con poche parole l’assedio di Gaeta e hanno scritto di re Franceschiello e dei suoi poveri soldatini napoletani come delle marionette cui il puparo abbia spezzato il filo.

Quei soldati napoletani, invece, che avevano condotto con coraggio estremo una lunga e disastrosa campagna, dimostrarono a Gaeta come si riscatta l’onore militare di un esercito e di tutto un popolo.

*****
L’esercito piemontese disponeva di un’artiglieria moderna: nel 1850 l’ingegnere balistico Cavalli aveva avuto un intuito fondamentale: dotare di una rigatura elicoidale dapprima i fucili e poi i cannoni; la rigatura della canna consentiva ai proiettili una straordinaria accelerazione e un forte impatto di penetrazione.

A Gaeta, il generale piemontese Cialdini disponeva di tali pezzi di artiglieria mentre i cannoni napoletani sugli spalti della fortezza erano ancora di vecchio modello e con una gittata limitata; nessun cannone era rigato.

La quantità dei proiettili e delle cariche per l’artiglieria era scarsa, mancava il legname per riparare gli affusti in caso di rottura, ipotesi probabile data la vetustà dei pezzi; inoltre mancavano del tutto i sacchetti di sabbia a difesa dei pezzi più esposti sugli spalti della fortezza.

Scarseggiavano, inoltre, i generi di prima necessità, le provviste erano poche e spesso malandate; c’erano centinaia di cavalli e di muli che nel giro di pochi mesi morirono di fame per mancanza di foraggio.

I soldati dormivano sulla nuda terra poiché non c’erano brande, né materassi, né coperte da campo; non c’erano divise di ricambio e neppure biancheria, molti soldati indossavano abiti civili raccattati fra la popolazione tenendo in capo soltanto il berretto militare.

Mancavano i medicinali e le bende per curare le ferite, i pochi ufficiali medici dovevano provvedere lacerando a strisce vecchi lenzuoli e tele da tenda. La situazione a Gaeta era difficilissima, al limite delle capacità umane, eppure in queste condizioni paurose i soldati napoletani si batterono con un coraggio tale da destare il rispetto e l’ammirazione dei nemici.

L’eroina di Gaeta fu la regina Maria Sofia, una fanciulla appena diciannovenne, che a cavallo, incurante dei micidiali bombardamenti del generale Cialdini, correva in mezzo al fumo dei cannoni per arrecare incitamento e portare entusiasmo fra gli artiglieri delle batterie. La giovane regina visitava tutte le batterie di fronte di terra e quella di mare dell’Annunziata.

Un giorno, proprio in quest’ultima batteria, comandata dal 1° tenente Raffaele Mormile, un proiettile nemico scoppiò a poca distanza dalla regina, che si salvò per la presenza di spirito dell’ufficiale che di un balzo l’afferrò per la vita riparandola nella casamatta, mentre lo scoppio distrusse un pezzo del bastione coprendo la sovrana di calcinacci.

Assolutamente non turbata e sorridente, Maria Sofia si limitò a criticare la scarsa precisione dell’artiglieria nemica.

Giorno e notte la regina visitava i feriti che giacevano nell’ospedale centrale di Torrion, portando loro del cibo che ella sottraeva alla sua mensa e che divideva personalmente ai soldati.

Confusa fra gli infermieri e le suore di carità, apprestava le prime cure ai soldati che arrivavano, lavando e disinfettando le ferite meno gravi. Spesso il suo abito di velluto nero brulicava di pidocchi, che i soldati portavano in gran quantità: erano gli stessi infermieri che spazzavano via dagli abiti della sovrana quei disgustosi insetti.

Il 18 novembre il generale Vial, governatore della piazzaforte, scrisse una lettera a Cialdini nella quale si comunicava che sugli ospedali di Gaeta era stata issata una bandiera nera affinché fossero preservati dai bombardamenti gli infermi gravi ed i feriti ivi raccolti. Cialdini chiese che venisse specificato il numero delle bandiere innalzate sugli ospedali, e Vial confermò la presenza di tre bandiere.

Il generale piemontese, preso da una crisi di galanteria per la bellissima regina, invitò Vial ad innalzare una quarta bandiera nera, più grande delle altre, sul palazzo abitato dalla sovrana.

Maria Sofia rispose personalmente a Cialdini chiedendogli di poter esporre la quarta bandiera nera sulla monumentale e preziosa chiesa di S. Francesco, opera dell’architetto Guarinelli, a preservarla dalla distruzione, confermando l’intenzione di fare sventolare la bandiera nazionale con i gigli sul palazzo reale.

Il 19 novembre arrivò a Gaeta il generale Ferdinando Beneventano del Bosco, colui che a Milazzo aveva dato scacco a Garibaldi. L’arrivo di Bosco entusiasmò i soldati, che riconoscevano in lui il carisma del condottiero. Nessuno dei generali borbonici aveva più ascendente di Bosco sulle truppe, ed il generale aveva raggiunto il suo re nel momento più difficile e drammatico per la dinastia.

Consapevole del coraggio e della fedeltà del generale, la regina sperava in un’azione militare incisiva per rompere il cerchio dell’assedio. Purtroppo, per la mancanza di uomini e mezzi, quest’azione non ebbe il successo sperato, ma la presenza di Bosco a Gaeta aiutò moltissimo il morale della truppa, che vedeva in lui il più devoto e fedele servitore del re.

Per i difensori di Gaeta il conforto maggiore era rappresentato dalla visione della bellissima regina che, vestita con semplicità, ogni giorno, appariva loro a cavallo per incitarli e rincuorarli. Maria Sofia era diventata dunque il simbolo vivente dell’assedio.

I giornali diffusero la sua immagine di grande regina in tutta l’Europa, e molti aristocratici, affascinati da quella giovane donna che indossava una vecchia uniforme militare, come volontari le offrirono la loro spada e il loro ardimento.

Maria Sofia visse a Gaeta i giorni più memorabili ed esaltanti della sua lunga vita; la regina porterà in seguito nel suo cuore quei momenti indimenticabili negli anni del suo lungo e doloroso esilio.

Il 13 febbraio il fuoco delle batterie piemontesi con più di 8000 proiettili distrusse completamente la piazzaforte di Gaeta e buona parte della città.

Un proiettile colpì la polveriera Transilvania, che esplose con le sue 18 tonnellate di polvere. Morirono due ufficiali e cinquanta soldati, morti che si potevano evitare poiché la fortezza era prossima alla resa.

Nel pomeriggio dello stesso giorno Francesco II firmava la “Capitolazione per la resa della piazza di Gaeta”.

All’alba del 14 febbraio Francesco II e Maria Sofia uscirono dalla casamatta per percorrere lo stretto corridoio che portava alla porta di mare, seguiti dai principi reali, da ministri, generali, diplomatici.

Dietro il corteo reale tutti gli ufficiali con le loro armi e i cavalli, infine i soldati: laceri, feriti, con le stampelle, piangevano senza vergogna, mostrando le armi e gridando: “Viva ‘o re”.

La banda intonò l’inno borbonico scritto da Paisiello; i Piemontesi presentarono le armi in segno di onore per i combattenti di Gaeta, mentre veniva ammainata la bandiera bianca con i gigli.

Molti ufficiali spezzarono le loro spade sulle rocce della strada.

La regina era pallidissima, ma avanzava al braccio del marito con la solita fermezza e la dignità regale, salutando la folla piangente che si assiepava lungo il percorso; rotti i cordoni, molte donne si gettarono a baciare le mani della sovrana, gridando: “Viva ‘o re, viva ‘a reggina”.

Laggiù, sugli spalti di Gaeta, un raggio di gloria venne a posarsi sul capo dell’ultima Regina delle Due Sicilie.

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