RENZO DI BELLO NEL TEMPIO DELL’IDENTITA’
Chi come me ha vissuto l’infanzia negli settanta e l’adolescenza negli anni 80 quante volte s’è sentito dire dai genitori “parla bene, parla italiano” non “parlare in dialetto” perché era la lingua dei “cafoni” dai quali ci si voleva emancipare ma soprattutto portava in se il pensiero della miseria portata dalla seconda guerra mondiale e da cui si voleva stare lontani.
Per fortuna la ribellione tipica della giovane età mi ha permesso di parlare, quando mi trovavo in strada, come volevo, alcune volte in italiano e in altre in lingua laborina a seconda delle circostanze, supportato in questa mia scelta, dalla mia insegnante d’italiano la Prof.ssa Anna Pinzani in Trementozzi che dall’alto della sua cultura, che era enorme, ci diceva nelle sue lezioni che dovevamo parlare anche la nostra lingua di appartenenza perché così facendo non smarrivamo la nostra identità e le nostre radici ma al contempo parlavamo meglio l’italiano. Era sinfonia per le mie orecchie e sempre più continuai a parlare la mia lingua che alla fine era una mescolanza tra il cassinese, suiaro e sessano che non ha ostacolato in nessun modo la mia crescita umana e professionale. A quel tempo non comprendevo cosa volesse dire la suddetta Prof.ssa ma a distanza di anni l’ho capito benissimo e affermare che la teoria e il suo insegnamento aveva la sua validità e importanza infatti se oggi per il partito nazional popolare dell’italiano è l’unica lingua che bisogna parlare per essere un buon cittadino apparentemente ha vinto, a conti fatti….. ha perso. I disastri che ha causato sono sotto gli occhi di tutti abbiamo una popolazione che ha raggiunto un’analfabetizzazione funzionale al 50 per cento, si parla un italiano sgrammaticato nello stile del cinepanettone e non si conosce più la lingua dei propri padri e della propria terra con l’unico risultato di aver contribuito alla creazione del pensiero unico nell’omologazione e nel conformismo.
C’è un altro scenario che si ha l’obbligo di evidenziare che è quello di chi ha capito che qualcosa forse è andato storto e ci sono macerie che è difficile ricomporre, infatti c’è tanta voglia di conoscere la lingua delle origini, di sentirla parlare attraverso l’utilizzo di vecchi filmini o di registrazioni con rudimentali mangianastri, sperando che non siano andate perdute, perché ci si sente amputati non di un arto ma di una parte della propria anima, come si sa la lingua delle origini, per il nostro territorio la lingua laborina, è la lingua dell’anima.
Per fortuna c’è chi è andato oltre intuendo che non bisognava rassegnarsi, e se non è più possibile invertire la rotta si può operare per collocare nel “Tempio dell’Identità” la nostra lingua che vuol dire anche adagiarvi la nostra cultura e la nostra civiltà. Uno di questi “folli” abita a “Suio Alto” ed è Renzo Di Bello che da una ventina di anni sta portando avanti un’operazione di recupero della lingua “suiara” utilizzando tutti i mezzi a disposizione come il taccuino, la penna, vecchi registratori a nastro e l’applicazione nella ricerca capillare negli archivi che gli ha permesso di fare alcune pubblicazioni che si possono definire tranquillamente scientifiche.
L’ultima sua fatica scritta a quattro mani con la Prof.ssa Filippa Di Cicco dal titolo “Suio Borgo Medioevale”, è un autentico capolavoro sotto tutti i punti di vista, linguistico, antropologico, sociale e storico, in sintesi si può definire un “libro colto” come pochi se ne vedono in giro. Renzo è riuscito, oltre che a scrivere un vero e proprio vocabolario, a catalogare usi, costumi, abitudini e consuetudini della sua comunità nel corso degli anni affondando in un passato remoto partendo dall’anno mille. Dal suo lavoro si comprende chiaramente un passato aristocratico e colto di una comunità che la esprimeva nella vita quotidiana, nella saggezza dei proverbi, nei riti religiosi, nella prosa, nella poesia e nei canti, cartina al tornasole di una civiltà che affonda le proprie radici nella notte dei tempi. Per la storia ufficiale Suio appare nell’anno mille, epoca longobarda, ma se si analizza la lingua e l’etimologia delle sue parole si comprende che le sue origini sono molto più antiche e non poteva essere altrimenti se si considerano “gli antichi” che hanno vissuto in questi terrritori come gli aurunci, gli ausoni, che sembrano essere di origini omeriche, come quelli che ci portano all’antica Vescia o dello stanziamento dei neoplatonici come Plotino che pare abbia soggiornato quella che oggi è Santa Maria in Pensulis. Questa riflessione emerge leggendo la lingua, grazie al lavoro di Renzo e Filippa, ed ascoltandola infatti il “suiaro” come tutte le lingue dell’antico Regno di Napoli è una romanza che testimoniano innegabili origini greche, latine, bizzantine e arabe che le hanno dato una melodia che sembra di ascoltare una musica e non una lingua. Una caratteristica comune a tante comunità ubicate nei monti aurunci ed ausoni con le dovute differenze anche se sono tra loro distanti pochi km, come accade anche con la cucina. Grazie alla presenza della k nel vocabolario viene fuori l’importante impronta della lingua “Osca”, dopo quella greca, come accade con il napoletano e per la sua presenza nei Placiti Cassinesi “Kelle Terre……..” Il legame forte è con il napoletano infatti sono tante le parole di origine greca che troviamo in entrambre le lingue come per esempio, purtuallo, ciofeca, pacchero, mesale e tante altre ancora, per non parlare “lo cunto” che con Giovan Battista Basile è diventato “lo cunto de li cunti“. Da non trascurare l’analogia del suiaro con il napoletano nell’utilizzo del genitivo che prende origine dal greco antico e non dell’ablativo che invece è di origine latina.
Nel leggere il libro “Suio Borgo Medioevale” si intuisce, altresì, di come siano antiche le origini di questo territorio al pari di tutti quelli dell’Italia Peninsulare che essendo al centro Mediterraneo ha in se una multietnicità donatogli dalla sua storia millenaria forse unica al mondo. Lo riscontri, altresì, nella saggezza, nel disincanto e nell’ironia delle brevi frasi, delle singole parole mai fuori posto o inutili perchè sono pronunciate stando sopra a cavallo di un gigante che è la storia, come si legge chiaramente nel libro. Lo ritrovi nei continui ossimori che esprimono, un concetto, un pensiero o uno stato d’animo che hanno la caratteristiche di essere brevi, diretti e comunicativi. Ancora ricordo le mie Nonne Giuseppina e Giuseppa” che quando erano “incazzate” o preoccupate per una situazione per me imbarazzante o di pericolo mi dicevano con veemenza “jesci dent” (esci dentro) che significava “esci fuori da quella brutta situazione e vieni dentro a casa” che ti fa capire che se in italiano bisogna usare una lunga frase per comprendere una situazione, in lingua volgare laborina bastano due parole.
Il testo di Renzo Di Bello e Filippa Di Cicco è un testo che va letto e tenuto nella propria biblioteca sempre a portata di mano e per chi vuole essere un identitario e divulgatore della civiltà e della storia della Terra di Lavoro diventa un materiale prezioso infatti sono molte le contaminazioni nel Suiaro con le altre lingue laborine che ti aiutano anche a capire i confini geografici che per millenni venivano tracciati rispettando diritto naturale, la geografia fisica, origini storiche e dei popoli che ci hanno vissuto, gli usi e i costumi mentre con l’avvento del Giacobinismo sono stati tracciati con l’utilizzo del…..compasso”, secondo voi Suio ha più legami con la confinante Sessa o con Montalto di Castro? Anche scorrendo le pagine di “Suio Borgo Medioevale” comprendi il forte legame con la lingua napoletana che è la madre di tutte le lingue del vecchio Regno di Napoli e sono tante le parole che hanno in comune il “suiaro” come la musicalità della lingua, entrambi le comunità quando parlano cantano. Un altra parola presa a caso usata per indicare il padre è “Tata” di estrazione greca, usato in entrambe le lingue, come “il romito” per dire l’eremita e come tante altre ancora che pronunciavano i miei nonni e che si riascoltanto guardando le commedie di Eduardo.
Cosa ci offre il presente?e cosa sarà il futuro? Purtroppo il destino del “suiaro” sembra segnato, se in tanti territori dell’Italia Peninsulare come per esempio negli abbruzzi, nelle puglie, nelle calabrie o in sicilia sono riusciti a difendersi dall’imposizione dall’alto dell’italiano nel tentativo di fondare una nazione pensando che bastasse imporre una lingua nazionale seguendo l’esempio, forse meglio dire scimmiotandoli, dei francesi a Suio come in tutta l’alta Terra di Lavoro, questa difesa non c’è stata. Forse è stata la forte emigrazione, questa però è accaduta ovunque, o la voglia sfrenata di modernismo pensando di avere un riscatto sociale, ma oggi nessuno parla più la propria lingua identitaria e te ne accorgi quando incontri una persona per strada, quando vai alla posta o semplicemente vai al Bar, luogo principe deputato alla libertà d’espressione, si parla l’italiano intervallato ogni tanto da qualche passaggio linguistico volgare usato per una battuta ironica o quando si è “incazzati”. Certo dalla melodia, usando un neologismo esterofilo si può anche dire lo slang”, comprendi il luogo dove ti trovi ma non basta per dire si parla “il suiaro, il cassinese, il roccaseccano, traettese, il formiano, il sorano ecc. ecc, come non basta affannarsi a scrivere opere teatrali locali, poesie o prose in lingua che spesso sono maccheronici e in alcuni casi dai contorni ridicoli, tipica caratteristica borghese di chi vuole affermare la propria superiorità o di chi con presunzione o ingenuamente, vorrebbe recuperare il tempo perduto.
Il libro “Suio Borgo Medioevale” come già detto, è un libro colto e definirlo dialettale sarebbe riduttivo che offre alcune vie di uscita, una di questa è quella di aver storicizzato una lingua, una cultura e una comunità che non diventerà mai tradizione ma avrà l’onore e il piacere di avere un’edicola nel “Tempio dell’identità” mentre l’altra è da ritrovarsi nella sua parte dedicata ai “canti” che se recuperati da qualche musicante di buona volontà possono ridare nuova linfa ad una lingua moribonda. In molti casi la ripresa dei canti identitari ha salvato lingue che sarebbero sparite perché abituarsi ad ascoltare di nuovo un linguaggio perduto te lo rende di nuovo familiare e si ricomincia a parlarlo anche inconsapevolmente, forse in maniera diversa rispetto al passato ma quanto meno rimane vivo.
Rinnovo i ringraziamenti a Filippa e Renzo per lo straordinario lavoro che hanno fatto, ringrazio Renzo per l’invito personale che mi ha offerto e l’unica cosa che posso fare per ricambiare la cortesia è quella di pubblicare il video integrale del convegno di presentazione del libro avvenuto il sette di dicembre ’24 alla Biblioteca Kennedy” a Suio Alto
Claudio Saltarelli
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ho letto l’articolo e visto il video.