Revisionismo napoletano di Gianandrea de Antonellis
Una sola cosa chiediamo ci sia riconosciuta: il principio da cui siamo partiti, e cioè che la falsità non diventa verità perché viene asserita da uno statista o da un re, e che il furto non cessa di essere disonesto e disonorevole quando il bottino è un intero regno.
Patrick K. O’Clery, La rivoluzione delle barricate (1875)
Premessa
La storiografia è di per sé una scienza “revisionista”: tende, cioè, ad analizzare le documentazioni e le vicende storiche senza lasciarsi indurre in interpretazioni dettate da precedenti studi.
Abbiamo scritto «è», ma avremmo dovuto scrivere «dovrebbe essere», perché in realtà è difficile per chiunque avvicinarsi ad un determinato avvenimento senza essere influenzato dal giudizio che su esso già grava.
Ancora più difficile è scavare nel lontano passato, dovendo affrontare i sedimenti di giudizi che si sono sovrapposti per decenni, se non addirittura per secoli.
Da qui nasce il termine “revisionista” che intende individuare quegli studiosi che “rivedono” il giudizio storico, magari basandosi sugli stessi elementi utilizzati da storici che hanno dato un giudizio completamente opposto. Infatti ogni evento – visto esternamente – può essere interpretato in più di una maniera: sta poi alla logica affermare, date le varie circostanze, quale interpretazione sia la più plausibile, la più logica, la più vicina alla verità.
Va notato che negli ultimi anni il termine “revisionista” è divenuto un epiteto infamante con cui bollare un «sedicente storico», un “falsificatore” che vuole negare la realtà.
Ma c’è anche chi apprezza il doveroso lavoro di revisione volto a evitare gli stereotipi, a cercare una verità che non sia quella che appare (cioè fa parte del mondo dell’apparenza) a prima vista. Tra di essi vi è il criptopolemologo (studioso della guerra occulta) Maurizio Blondet, abituato ad analizzare gli avvenimenti controluce:
Una parte non piccola del fascino dei libri «revisionisti» […] consiste nell’aprire la vertigine storica della possibilità; nel mostrare i nodi in cui la storia avrebbe potuto divaricarsi, ed essere stata diversa[1].
Dal punto di vista dell’oggetto, il lavoro del revisionista può applicarsi a qualsiasi momento della Storia: dall’epoca romana al Medioevo, dal mondo greco a quello nordico. In Europa negli ultimi anni ad essere stato rivisitato è stato soprattutto il mondo medioevale, quello che gli Inglesi definiscono Dark Ages semplicemente per mancanza di adeguate fonti (e non con un intento di disprezzo come accade da noi con il termine “Secoli bui”, che è già un giudizio implicito – visto che in Europa continentale non sono certo le fonti a mancare.
Revisionismo risorgimentale
In Italia uno dei principali oggetti della ricerca storica a cui il revisionismo ha prestato la propria attenzione è sicuramente il Risorgimento. Questo periodo – che va ben oltre gli angusti limiti delle guerre d’indipendenza, ma che abbraccia gli eventi che vanno dalla rivoluzione francese (compresi i suoi prodromi) alla fine della prima guerra mondiale, identificandosi, di fatto, con il “secolo lungo”, l’Ottocento[2] – non manca certo di abbondanti fonti, ma esse sono state spesso “dimenticate” a favore delle ben più lusinghiere (almeno per il vincitore) leggende create ad arte per giustificare la creazione violenta dello Stato unitario.
I testi scolastici hanno sintetizzato gli avvenimenti dando una interpretazione a senso unico del Risorgimento (non a caso scritto con la maiuscola): i Padri della Patria, gli Eroi, il movimento popolare d’insurrezione, la gloriosa marcia dei “liberatori” garibaldini, etc., contribuendo a creare una particolare immagine della situazione antecedente l’Unità, quasi circonfondendo di un’aura di sacralità il Risorgimento, divenuto una sorta di religione laica, con i suoi sacerdoti ed i suoi testi sacri[3].
Analizzando però i dati oggettivi, si scopre una realtà ben diversa da quella propagandata, di fronte alla quale i concetti di risorgimento e di liberazione non possono che cozzare. Già il filosofo della Storia Lorenzo Giusso sul finire degli Anni Venti avvertiva la falsità storiografica che circondava gli avvenimenti che portarono all’unità italiana:
Tutta la storia dal Risorgimento in poi è avvolta dai travestimenti pomposi, dai paludamenti barocchi, dai grotteschi panneggiamenti d’una retorica democratica, radicale e giacobina.
Per questa bizzarra trasfigurazione giacobina, tutti i movimenti emancipatori che dal 1821 attraverso il 1830, il 1848, il 1860 e il 1870 trassero impulso da minoranze selezionate, da élites d’intellettuali e di patrioti, a gruppi sparsi e sconnessi d’individui, sono rappresentati come «risvegli della volontà popolare», come «vaste insurrezioni delle masse», come «conquiste della coscienza unitaria» e di altri personaggi fantastici che se campeggiano nei trattati scolastici, non si sono mai rivelati allo storico disinteressato [obbiettivo]. Per questo paradossale artificio vaste masse corali si sono volute sovrapporre agl’individui, moltitudini anonime ai protagonisti facitori, irresponsabili impulsi collettivi ai veri attori del dramma unitario e si è voluta cambiare in fiumana giacobina quello che fu il travaglio aristocratico [elitario] del Risorgimento.
[…] Occorre sgombrare la storia del Risorgimento dalle tinte rosee, dall’oleografia demagogica. Occorre soffiarne via tutta la teologia demo-massonica e umanitaria che gli storici impeciati di radicalismo vi hanno appiccicato.[4]
La bella favola del “grido di dolore” e dell’insurrezione popolare, infatti, non fu che una invenzione. Non esistette – a ben guardare – alcun risorgimento in quanto non vi era alcun motivo di risorgere: gli Stati preunitari erano abbastanza floridi prima del 1860 e più di tutti lo era il Regno delle Due Sicilie, con una economia protetta sì, ma comunque invidiata da molti. Basta considerare, lo ripetiamo, i dati oggettivi.
Ci troviamo infatti alla presenza di fatti inconfutabili che dimostrano la superiorità legislativa, amministrativa ed anche economica del Regno delle Due Sicilie rispetto agli altri Stati della penisola; ci rendiamo conto, tra l’altro, di come l’unificazione d’Italia risanò il debito pubblico del Piemonte, ma danneggiò irreparabilmente la prosperità meridionale. In altre parole, furono proprio i Piemontesi i beneficiari della “liberazione”, almeno da quella dei debiti.
Come è Stato possibile, dunque, che uno Stato prospero, ben governato da un Re pienamente legittimo e pacifico sia stato assalito nella totale indifferenza dell’Europa? Vi sono varie risposte a ciò: una delle prime – e la più semplice – si chiama propaganda.
La propaganda
Per giustificare l’aggressione agli altri Stati italiani, infatti, nel corso dei decenni precedenti l’Unità venne posta in essere una campagna diffamatoria avente ad oggetto in particolar modo lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie. La definizione di quest’ultimo quale «negazione di Dio» fu il perfetto raggiungimento degli obiettivi di una campagna denigratoria che nella frase di Gladstone trovò la sua più alta e sintetica espressione.
Naturalmente alla calunnia dell’Inglese vi fu chi rispose, cercando di dimostrare l’infondatezza di quelle affermazioni – ma senza trovare altrettanto credito nell’opinione pubblica. Possono essere considerati, dunque, i vari Pasquale Borrelli (autore nel 1840 di un gustoso Saggio sul romanzo storico di Pietro Colletta), Giuseppe Buttà o Giacinto de’ Sivo (per non parlare, nei decenni precedenti, del Principe di Canosa o del conte Monaldo Leopardi) precursori del revisionismo?
Riteniamo di no, perché a loro mancava quel distacco e quella lontananza – anche cronologica – che distinguono il cronista dallo storico. Dobbiamo aspettare circa un secolo e, dopo il periodo fascista, che ponendosi come prosecuzione del Risorgimento aveva esaltato a sua volta l’impresa piemontese, la voce della tradizione preunitaria tornò a farsi sentire.
Paradossalmente, ma non troppo, uno dei primi testi “filoborbonici” venne scritto da un piemontese, ufficiale dell’esercito italiano durante la prima guerra mondiale: CesareBertoletti, che con il saggio Il Risorgimento visto dall’altra sponda (Berisio, Napoli 1967) denunciò come menzognere le accuse sui pretesi degrado ed inferiorità del Regno delle Due Sicilie. Diciamo che non è del tutto paradossale che sia stato uno scrittore piemontese a parlare per primo delle malefatte del Piemonte durante l’Unità, perché se le critiche fossero giunte da uno studioso meridionale avrebbero più facilmente prestato il fianco alla critica di partigianeria e, quindi, di scarsa credibilità. Ecco perché quello di Bertoletti ebbe maggior riscontro di critica ed una diffusione in ambienti meno ristretti di quelli in cui circolavano i testi dei “revisionisti napoletani”, vale a dire “al di fuori del Regno”.
Per lo stesso motivo alla fine del secolo xix si era fatta discretamente conoscere in Europa lo studio dell’irlandese Patrick K. O’Clery (1849-1913), volontario tra le file pontificie fino alla breccia di Porta Pia e quindi strenuo difensore della autodeterminazione irlandese dal suo seggio alla Camera dei Comuni, che analizzò dal punto di vista militare la campagna piemontese, mettendo a nudo il carattere di cospirazione politica che prevalse dopo la sconfitta delle insurrezioni del 1848, che O’Clery definisce la rivoluzione delle barricate. Il parlamentare irlandese, che scriveva a circa trent’anni dai fatti, si esprimeva senza usare mezzi termini:
[Dopo il 1848, la “rivoluzione delle barricate”] iniziava un’altra fase della rivoluzione: la Rivoluzione dei bureaux, pianificata nei Gabinetti dei ministeri […]. Dobbiamo ora scrivere la storia delle sue prime vittorie in Italia; un racconto di tale infamia, perfidia e tradimento, tenebroso come pochi tra quelli riportati negli annali dell’umanità. Persino gli uomini delle barricate furono moralmente molto al di sopra dei cospiratori dei bureaux ministeriali. L’Europa, nella sua pagana ammirazione del successo, ha chiuso gli occhi troppo a lungo davanti ai crimini di Cavour e dei suoi colleghi; è tempo che la verità sia detta pienamente e senza paura. […]
Noi la giudicheremo [la Rivoluzione] non dalle invettive dei suoi nemici, ma dalle confessioni degli amici, molti di loro complici e alleati dell’arcicospiratore Cavour. Una sola cosa chiediamo ci sia riconosciuta: il principio da cui siamo partiti, e cioè che la falsità non diventa verità perché viene asserita da uno statista o da un re, e che il furto non cessa di essere disonesto e disonorevole quando il bottino è un intero regno.[5]
«Infamia, perfidia e tradimento», Cavour arcicospiratore: sono parole di una pesantezza incredibile, che possono stupire tutti coloro che sono abituati alla versione “eroica” del risorgimento tramandata dalla letteratura scolastica.
Eppure si tratta della verità, quale non può non venire alla luce se si pone mente non alla propaganda dell’una o dell’altra fazione, bensì semplicemente ai dati obiettivi che sono in nostro possesso.
Propaganda, dicevamo: non occorre scomodar i più recenti studi in materia o rievocare la figura di Joseph Goebbels per renderci conto dell’importanza che nella storia dell’umanità ha avuto lo strumento della propaganda: dalle accuse di Cicerone contro Catilina (non tutte corrispondenti a realtà) alle infamie costruite per screditare Pier della Vigna alla corte di Federico II, dalle accuse lanciate contro Manfredi da parte di Carlo d’Angiò alle calunnie verso Maria Antonietta (chi non ricorda l’affaire della collana o la storia delle brioche?) per giungere – ad altro livello – alle bassezze contro questo o quel candidato politico durante le campagne elettorali dei nostri tempi, l’arma propagandistica non è mai venuta meno ed ha permesso di spianare la strada ad atti (invasioni, rivoluzioni, bagni di sangue) che altrimenti sarebbero risultati estremamente riprovevoli agli occhi di tutti.
La stessa procedura – a ben guardare – è stata utilizzata nei confronti del Regno delle Due Sicilie per permetterne l’annientamento. Di fronte ad uno Stato prospero, anzi estremamente prospero, che ha buone relazioni internazionali, che presenta una forte coesione interna non si può agire direttamente, con una invasione palese, pena il rischio di un grave fallimento. A meno di non avere generali del calibro di Napoleone o di Murat. La disfatta dei vari Pepe, Pisacane, fratelli Bandiera lo aveva dimostrato ampiamente: bisognava quindi convincere gli stessi Napoletani di aver bisogno di un nuovo governo, di non poter vivere senza una carta costituzionale (anche se quella del 1848 non era mai stata abrogata[6]), senza un parlamento, senza unificare l’Italia.
Il lavoro dell’arcicospiratore Cavour è stato intenso – se vogliamo, anche fortunato – ed ha dato i suoi frutti. Si deve pensare a tal proposito che il Regno delle Due Sicilie si proponeva come la naturale continuazione dei Regni di Napoli e di Sicilia e, prima ancora, del Ducato (poi Principato) di Benevento. Insomma, una tradizione unitaria che durava – con qualche interruzione – dal 570 d.C.
Undici secoli di comunità, di tradizioni simili, di unione che – nelle sue diversità – meglio di altri casi si era opposta in Italia alla disgregazione dell’unità latina. Varie le dinastie che si erano succedute sul trono, meno vari i confini e le popolazioni governate: Longobardi, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Spagnoli, Austriaci e, infine, i Borbone (con la parentesi dei Napoleonidi) avevano avuto per sudditi pressoché le stesse genti. Per questo motivo il Meridione d’Italia poteva ben considerarsi più adatto di altri ad essere la scintilla dell’Unità italiana (e in tal senso ci fu più di una richiesta ai sovrani napoletani, i quali però non nutrivano mire espansionistiche).
Per poter annettere un simile regno ad un altro di dimensioni, storia e valore (nonché capacità amministrative) sicuramente più ridotte era necessario modificare il giudizio che tutti (in primis i Napoletani) avevano del regno delle Due Sicilie. Ciò avvenne soprattutto prima, ma anche durante e dopo l’aggressione, contattando letterati (Alexandre Dumas), giornalisti (Giovanni La Cecilia), personalità politiche di stampo nazionale (Luigi Settembrini) ed internazionale (Lord Gladstone).
Fu soprattutto grazie a tale lavoro di “preparazione” che Cavour riuscì laddove la politica di Mazzini aveva fallito. Ma il lavoro del conte monferrino non si limitò alla conquista: esso si rivolse anche al consolidamento della nuova Italia. E questo non poteva non passare, per giustificare l’annessione, attraverso una ulteriore denigrazione dello sconfitto, una damnatio memoriae del visto ed un saccheggio che ad un tempo arricchiva il vincitore, confermava l’arretratezza del conquistato e faceva dimenticare quali potessero essere le sue potenzialità o le sue conquiste.
In una parola, venne creata – nell’economia e nella letteratura – una inesistente questione meridionale, rendendo bisognosa e dipendente dallo Stato centrale una parte d’Italia che fino al 1860 era stata autosufficiente e all’avanguardia.
Dalla storia al mito
Era fatale che, con il passare dei decenni, le “false verità” passassero dai giornali e dai libelli ai testi di storia, scolastici e non, e che venissero ripetute e diffuse fino a divenire una “realtà” inoppugnabile.
Già i funzionari piemontesi erano tanto convinti di recarsi in un paese “africano” che notavano immediatamente ogni aspetto deteriore del meridione ed erano pronti a lamentarsi per ogni cosa non andasse loro a genio (perfino la nebbia di Ariano Irpino![7]). Manforte veniva prestata loro anche dai fuoriusciti, molti dei quali nei loro esili maturavano contro il Borbone un livore tale da convincersi che il Regno delle Due Sicilie fosse realmente «la negazione di Dio sulla terra» (e non a caso il famigerato libello di Gladstone venne ispirato da “patrioti” napoletani) e – per nobili fini – si facevano autori di una campagna di denigrazione quale solo un escluso può realizzare.
La necessità di consolidare uno Stato debole come quello italiano fino alla prima guerra mondiale, il desiderio di “(ri)fare gli Italiani” durante il fascismo tenendo conto della situazione già consolidatasi spingevano inevitabilmente verso l’esaltazione dei Savoia e della loro politica. La conseguenza necessaria fu la denigrazione dei loro avversari, in particolar modo di quelli che più si erano dimostrati di valore e che meglio avrebbero potuto portare argomenti contrari alle scelte politiche della casa regnante. Giustificare l’impresa dei Mille, in altre parole, passava necessariamente attraverso la demonizzazione degli avversari dei garibaldini. E comunque la necessità di trovare un “mito” fondante che tenesse unita la nazione (o le due nazioni) rendeva accettabile anche “adattare” la verità.
Il fascismo ricorrerà a Dante ed all’Impero Romano, l’età liberale si contentò della spedizione delle camicie rosse, circonfondendole di gloria posticcia[8].
La tragica esperienza del secondo conflitto mondiale, con una guerra civile che ha ancora una volta spezzato la penisola, tra una Repubblica del Nord ed un Regno del Sud, in una divisione che nulla di etnico aveva, ha fatto sì che con l’avvento della democrazia si cercasse nel “mito” dell’epopea garibaldina (avvenuta – almeno nell’oleografia – gioiosamente e senza alcun contrasto con la popolazione civile) una medicina o un lenitivo alla lacerazione politica appena sofferta. Garibaldi e il suo gruppo di intrepidi era pronto ad incarnare il mito dell’Italia che “risorgeva”, questa volta non dalla secolare oppressione straniera, bensì dalle macerie della guerra. Almeno di sfuggita vale la pena ricordare come, nel 1948, l’effige del barbuto nizzardo fosse stata utilizzata per rappresentare le istanze del “fronte popolare”.
Dal mito alla storia
Risorgimento, quindi, pienamente consacrato quale unica epopea popolare italiana ed assurto al valore di vero e proprio “mito”.
E quando si tocca un “mito” non si può pensare di farlo impunemente. Ecco perché i primi storici[9] revisionisti furono stranieri, poi piemontesi o settentrionali e la critica meridionale fu limitata a taluni ambienti di specialisti, oppure lasciata a letterati, più che a storici.
Da questo punto di vista un cantore d’eccezione, nel bel mezzo della seconda guerra mondiale, fu Carlo Alianello, che con il romanzo L’alfiere (1941) affrontò l’argomento dell’unità italiana guardandolo dal punto di vista dell’esercito sconfitto. Lo scrittore lucano tornò sulle problematiche risorgimentali con altri capolavori letterari: i tre racconti intrecciati Soldati del Re (1952), i due romanzi L’eredità della priora, sul brigantaggio (1963) e L’inghippo, sulla questione romana (1973) e soprattutto con un saggio di rara leggibilità e dal coraggioso titolo, La conquista del Sud (1972), in cui ebbe il coraggio di chiamare la realtà con il suo nome e quindi di definire conquista e non già liberazione la doppia spedizione garibaldina e sabauda[10].
Il primo romanzo “borbonico” di Alianello ispirò anche un gruppo di studiosi, guidato da Silvio Vitale, che dette vita ad una “rivista tradizionale napoletana” intitolata appunto L’alfiere, tuttora esistente, che analizzò gli eventi storici relativi alla “nazione napoletana”, partendo dal “famigerato” periodo del vicereame spagnolo al fine di rileggere in una chiave diversa la storia del Regno di Napoli e di tutta l’Italia senza farsi suggestionare dalla vulgata corrente.
L’interpretazione – decisamente nuova per il nostro Paese – proposta da una personalità del calibro di Francisco Elias de Tejada sul periodo del Vicereame, secondo la quale Napoli era proiettata su uno sfondo pienamente “europeo” (le virgolette sono d’obbligo, se si parla dello studioso spagnolo, che dava un significato particolare – e negativo – a tale termine) e per nulla relegato ai margini della vita culturale, politica ed anche economica del continente, stravolgeva completamente la visione che – complice anche una faziosa interpretazione dei Promessi sposi – veniva data dei secoli xvi e xvii. Le conseguenze di un simile, innovativo approccio si riversavano su una diversa interpretazione da dare al periodo borbonico del Regno di Napoli e quindi sulle sue condizioni al momento dell’unificazione:
La famosa questione meridionale non è stata né è se non quella della inadattabilità di Napoli, a causa dei suoi residui di Ispanismo, alle concezioni europee che, sulla punta delle baionette, avevano innalzato gli invasori garibaldini. […] Sotto i re delle Spagne Napoli era stato un regno; sotto i Savoia Napoli è solo una “questione”: assimilazione.[11]
Rimanendo sul terreno del Risorgimento (perché se è vero che l’Italia possiede un’unica epopea, in compenso si avvale di numerosi miti, dall’oppressione papale al buio del Medioevo, dall’arretratezza spagnola all’incombere della onnipresente Sacra Inquisizione…) secondo autorevoli studiosi è giunta l’ora di rivedere il giudizio a senso unico che finora è stato dato sugli Stati preunitari: tutti arretrati tranne, ovviamente, il Regno di Sardegna. Ad esempio, a proposito dell’ultimo sovrano delle Due Sicilie, denigrato dalla pubblicistica e presentato come un inetto – e quindi giustamente estromesso dai suoi diritti da Garibaldi e da Vittorio Emanuele II – si interroga Paolo Mieli:
Significa questo che la figura di Francesco II è meritevole di riconsiderazione? Probabilmente sì. Ma qui occorre sgombrare il campo dalla parte più futile e sciocca delle polemiche sull’argomento: i saggi di cui parliamo […] non possono in nessun modo essere considerati come prodotti o, peggio, sottoprodotti di nostalgie borboniche. Solo una polemica cinica, ad esempio può far passare come tale il serissimo e avvincente Francesco II di Borbone, l’ultimo re di Napoli, scritto una ventina di anni fa da Pier Giusto Jaeger e pubblicato più e più volte dalla Mondadori. Jaeger ha studiato a fondo il personaggio «Franceschiello» ed è arrivato alla conclusione che la psicologia del giovane re non coincide affatto con l’immagine che ne è derivata dagli «stereotipi di parte unitaria». La ridicolizzazione attraverso cui la storiografia post-risorgimentale ha consegnato ai posteri un’immagine storpiata di quel sovrano, è nient’altro che un ennesima manifestazione di infierimento su un vinto. Oggi va riconosciuto con Jaeger, ad esempio, che «a parte la tendenza al rifiuto delle parti più sgradevoli della realtà, che è in tutti gli uomini [a Francesco II] non mancavano argomenti per sostenere che il nemico [Garibaldi] non era arrivato a Napoli con mezzi leali, spada contro spada, petto contro petto. Bensì soltanto grazie a una incredibile serie di voltafaccia, di cambiamenti di campo, di vigliacche fughe dai campi militari, di vendita delle proprie navi da parte dei comandanti della marina, e ancora di abbandoni dei soldati al loro destino e di inconcepibili dimostrazioni di incompetenza».[12]
La revisione diviene ancor più necessaria ed urgente se si pensa alle motivazioni ideologiche (che siano o meno giustificate è addirittura senza importanza) che hanno portato necessariamente ad una falsificazione storiografica o quanto meno ad una interpretazione distorta degli avvenimenti. La negazione dei primati culturali, industriali, commerciali del Meridione d’Italia da un lato, la demonizzazione di fenomeni reattivi, in primis il cosiddetto “brigantaggio” sono un tipico prodotto della forma mentis del vincitore. La lotta popolare – in questo caso nel vero senso della parola – che vide schierate decine di migliaia di persone tra il 1860 ed il 1870 viene liquidata come un fenomeno di secondaria importanza, che non vale la pena di approfondire e che conviene liquidare come si è già fatto con coloro che vi hanno partecipato. Con il passare del tempo, a meno di non provvedere ad una cura, l’errore non si modifica, ma prosegue. Così scrive Maurizio Blondet a proposito dei moti indipendentisti siciliani del secolo xx.
Né l’errore [di valutazione sabaudo dei moti del 1866] pare sia stato mai emendato, dai padri della patria italiana antifascista. Parri dichiarò il Nord italiano «democraticamente superiore» al Sud. Nenni bollò l’impulso indipendentista siciliano «un movimento vandeano sostenuto dalle vecchie forze fasciste», e Togliatti lo accusò semplicemente e puramente di «fascismo».[13]
Tutto ciò che si oppone ad un dato disegno (politico e, quindi, storiografico) viene cancellato, sepolto sotto una lastra di silenzio. Gli archivi vengono impediti, al posto dei dati si preferisce la divulgazione delle favole belle, dell’oleografia divenuta tanto comune da non essere più messa in discussione.
Un esempio di interpretazione falsata:
il brigantaggio
Il brigantaggio al di fuori dei miti
I briganti: eroi o criminali? Lo stesso termine, mutuato dal vocabolario criminologico, implica un senso di disprezzo: un po’ come “bandito”, che da “espulso dal Regno”, solitamente per motivi politici (pensiamo a Ernani) è passato a individuare un masnadiero, un malfattore comune, generalmente un rapinatore.
Il caso del cosiddetto “brigantaggio” è dunque perfettamente esemplificativo di come una vicenda possa essere presentata in maniera completamente distorta, inserendola di volta in volta in un disegno politico innovatore, reazionario, lealista o puramente criminale, a seconda di quelli che sono gli interessi da far prevalere o, più semplicemente, le posizioni ideologiche di partenza. Sul fenomeno in questione, infatti, ci troviamo di fronte a tanti giudizi contrapposti quanti sono gli idola specus degli studiosi; se ne possono individuare almeno tre: liberale, lealista, marxista.
Per chiarezza di esposizione, il brigantaggio che adesso tratteremo sarà quello antiunitario che si sviluppò nelle terre dell’ex Regno delle Due Sicilie nel decennio successivo all’unificazione (1860-1870).
Il brigantaggio visto dai liberali
La demonizzazione del nemico, retaggio della cultura giacobina, negli anni seguenti la conquista del Regno delle Due Sicilie da parte del Piemonte colpì duramente tutti gli oppositori. Data la presenza di un consistente movimento “reazionario” (o meglio “lealista”) che nelle sue file assommava militari provenienti dal disciolto esercito borbonico, volontari stranieri ed elementi del banditismo locale, fu una mossa propagandistica molto semplice quella di fare “di ogn’erba un fascio” ed etichettare – o meglio bollare – i combattenti anti-Savoia con l’epiteto di “briganti”.
Dalle descrizioni di carneficine inesistenti alla ricerca di tare endemiche (Cesare Lombroso studiò le dimensioni i crani dei briganti catturati per stabilire come riconoscere un “criminale nato”), da romanzetti pseudo-storici alle caricature su riviste satiriche, ogni arma propagandistica fu utilizzata per screditare l’avversario, brigante, combattente lealista o manutengolo che fosse.
Poco importava – oltre al rispetto della verità – il rischio di screditare, nel contempo, una intera popolazione che già era considerata inferiore a causa di una propaganda antiborbonica che in particolar modo dal 1848 in poi (dal fallimento, cioè dei moti rivoluzionari) aveva attaccato il Regno delle Due Sicilie. L’equazione «meridionale = brigante» o quanto meno retrogrado divenne una opinione comune che coinvolgeva gli stessi notabili del nuovo Regno.[14]
La presenza di ex malviventi tra le file della reazione antiunitaria fu sfruttata per dare l’impressone di un movimento puramente criminale e non politico, per eliminare fisicamente i capi dell’insorgenza (si pensi al caso di Borges o di Trazegnies), fucilandoli appena catturati, anziché trattarli da prigionieri di guerra, per giustificare la mano pesante utilizzata anche nei confronti dei semplici fiancheggiatori (o presunti tali).
Il brigantaggio visto dai lealisti
Il lealismo, cioè la fedeltà alla passata dinastia, si trova in una posizione ambigua nei confronti del “brigantaggio”: da un alto sfrutta il malcontento popolare nei confronti del nuovo governo e la presenza di numerosi militari che non accettano il nuovo stato di cose, dall’altro si rivolgono anche ad elementi della malavita comune a cui promettono perdono e futuri onori laddove utilizzino le loro armi contro gli invasori piemontesi. Il rapporto con queste “maestranze”, inizialmente idilliaco, diviene con il passare del tempo di reciproca diffidenza; i difficoltosi rapporti tra il generale spagnolo carlista José Borges e il brigante lucano Carmine Donatelli detto Crocco sono esemplificativi in tal senso: l’offensiva in Basilicata avrebbe potuto portare alla conquista di Potenza nell’autunno del 1861 e fallì appunto per i contrasti tra i due.
Il lealismo al suo interno tenne a differenziare i combattenti antiunitari dai “banditi” prestati alla lotta antipiemontese, mentre all’esterno ebbe la necessità di giustificare un simile miscuglio, facendo passare tutti per “insorgenti”, cioè combattenti legati ad una visione ideale (difesa del Trono e dell’Altare) della resistenza all’invasione sabauda.
Ma, se gli insorgenti erano effettivamente animati da un alto motivo ideale, è innegabile che alcuni “briganti” – oltre ad avere avuto un passato criminoso – fossero animati dalla speranza di veder cancellate le proprie colpe contro la società e una proposta di amnistia fatta loro intravedere li allettasse più che la prospettiva della Restaurazione. Di nuovo esemplare è il caso di Crocco, passato dalla camicia rossa garibaldina alla coccarda bianca borbonica.
La posizione lealista, con la sua rigida distinzione tra gli idealisti – i volontari stranieri come de Trazegnies, gli ex militari, ufficiali, sottufficiali e soldati, dell’esercito borbonico – e le bande formate da volontari “non professionisti” è stato uno degli elementi di maggior divisione all’interno del fronte antiunitario. La compattezza che aveva caratterizzato la “Grande Insorgenza”, quella del 1799, non si riesce a riproporre. Del resto, anche in quella vi erano state alcune fratture, come sintetizza Gennaro Incarnato cogliendo l’ammirazione di uno storico “revisionista” di indubbie simpatie lealiste per una delle più belle figure di insorgenti, il principe cardinale Fabrizio Ruffo:
La simpatia di Agnoli va decisamente a Fabrizio Ruffo. Questo grande aristocratico calabrese (la sua famiglia è di pura origine normanna) lo rassicura. Non appartiene alla genia dei parvenu, degli arricchiti ex armatori genovesi, banchieri toscani e papalini divenuti principi e duchi dal ’500 in poi. È l’unico a non perdere la testa, non si è fatto ingannare dai miti laici del nuovo verbo illuministico. Combatte per la sopravvivenza del vecchio buon ordine antico. La «vecchia casa» ha tentato invano di salvarla con la sua esperienza di riformatore nello Stato della Chiesa. […] Il cardinale solo ha già capito. A lui sembra affidarsi la parte sana del popolo, già quando ha tentato di riformare il corpo malato dello Stato della Chiesa lottando sia contro gli aristocratici, dimentichi da troppo tempo delle ragioni dell’esistenza stessa della loro casta, sia contro le avide forze montanti della borghesia affaristica. Ruffo, però, è solo anche contro le «masse». Ha cercato di raffrenarle nel corso della loro «lunga marcia» e le trattiene ancora per l’ultima volta una notte alle porte di Napoli, ritardandone l’ingresso in città. Che il sacco avvenga alla luce del giorno: sarà orribile, ma meno funesto di un’operazione condotta con la complicità delle tenebre.[15]
Il brigantaggio come lotta popolare
Paradossalmente – o quasi – furono proprio gli storici che provenivano da una visione materialista della storia a riscoprire quella vera e propria lotta di popolo rappresentata dal brigantaggio. Essi videro nella sollevazione popolare un movimento spontaneo e duraturo (dieci anni) che proveniva dal basso, assai più autentico della spedizione garibaldina. Certo, essi dovettero far passare in secondo piano la presenza di elementi dell’aristocrazia e della buona borghesia nelle fila e a capo dei rivoltosi, come pure la sequela di proclami religiosi, i sempre presenti giuramenti di fedeltà al Papa ed al Re che chi si presentava nelle file dei briganti doveva accettare.
Comunque va dato atto che furono gli storici materialisti a dare un grosso contributo per restituire dignità a coloro che non vollero accettare lo stato di cose imposto dal Piemonte.
Ai nostri giorni, dopo tanti sforzi della storiografia “revisionista”, non riusciamo quasi più ad avere una visione assolutamente negativa del termine “brigante”: l’immaginario del ribelle fa si che tale definizione sia accomunata quasi a quella di “guerrigliero”, termine circondato da un’aura ben diversa da quella che sta intorno al concetto di “masnadiere”, di “bandito” o di “terrorista”.
Conclusioni
Ma, in fondo, quale valore ha scavare nel passato, far riaffiorare vecchi rancori, riesumare scheletri ormai sotterrati? Semplicemente stabilire – a quasi due secoli di distanza – che un re giusto come Francesco ii venne calunniato oppure – dopo circa mezzo millennio – che il sistema governativo del Viceregno era ben diverso da come ci è stato insegnato nelle scuole e nelle università?
Non si rischia di mettere addirittura a repentaglio quella Unità italiana (e soprattutto degli Italiani) con tanta fatica conquistata, rivelando la brutalità delle truppe sabaude e i maneggi dei politici piemontesi santificati dall’oleografia storiografica?
Si può rispondere che, di fronte alla verità, ogni rischio è comunque da correre; ma si può anche rispondere che la “falsa verità” alla quale ci siamo assuefatti ha creato ben altri danni che mettere in cattiva luce una singola dinastia (i Borbone) o un sistema amministrativo (il Viceregno spagnolo): infatti, assieme ai governanti è stata infangata l’intera memoria di un popolo, quello meridionale, al quale per secoli è stato fatto credere di essere inferiore alle altre popolazioni europee, che si è fatto vergognare di un passato che non aveva invece alcunché da invidiare agli altri.
I Meridionali prima dipinti e quindi considerati come retrogradi sempre e comunque: incapaci di comprendere l’importanza delle novità, reazionari e sanfedisti (nella peggiore accezione dei termini), ignari della Costituzione come del sapone[16], tutt’al più buoni a ballare la tarantella e suonare il mandolino, ma incapaci di gestire uno Stato. Una popolazione “bambina”, non ancora autonoma, che necessita cure ed assistenza da parte dei “grandi”.
Tale denigrazione, ben presto trasformatasi in autodenigrazione, ha portato all’atrofia della coscienza, a credere che solo “altrove” si potessero realizzare i propri sogni ed obiettivi, causando un’emorragia di risorse che per decenni e decenni ha penalizzato il Meridione, conducendo al disagio esistenziale che caratterizza l’attuale “società del malessere”. Se il mondo attuale non ha punti di riferimento saldi, se va in frantumi, vittima del relativismo scientifico – e di conseguenza morale – e di un pensiero filosofico ed esistenziale che si vanta di essere “debole”, ciò è dovuto sopratutto alla perdita della memoria.
È infatti nella memoria che risiede il vero e più profondo senso dell’esistenza e solo (ri)appropriandosi di essa è possibile affrontare l’avvenire, perché, come si dice, «il futuro ha un cuore antico».
Di conseguenza è necessario cercare la verità a tutti i costi, anche a quello di dover riscrivere la Storia dalla prima all’ultima pagina, di dover rinunciare ai “miti” ed agli “eroi” di cui andiamo tanto orgogliosi, è – o dovrebbe essere – il fine di una corretta ricerca storica. In uno dei suoi più struggenti racconti, Gilbert Keith Chesterton fa dire a Padre Brown a proposito di St. Clare, un vile traditore passato alla storia come un eroe:
Non si finirà mai di parlare di lui finché durerà il bronzo e la pietra dei suoi monumenti. Le sue statue marmoree infiammeranno le anime di fieri, innocenti ragazzi per secoli. Milioni di uomini che non lo hanno mai conosciuto lo ameranno come un padre… quest’uomo che da quei pochi che lo videro fu trattato come una cosa immonda, sarà considerato un santo. La verità non verrà mai conosciuta […]. Ma io mi dissi che se in qualche posto, nel metallo o nel marmo che durerà come le piramidi, qualsiasi suo avversario, qualsiasi persona innocente fosse stata a torto biasimata, allora avrei parlato. Se si trattava soltanto di lodi tributate a torto a St. Clare, avrei taciuto. E quindi tacerò.[17]
Si potrebbe sostituire il nome di St. Clare (macchiato, nel racconto, dall’onta del «denaro del tradimento e della spada dell’assassino») con quello degli eroi risorgimentali e, controllando monumento per monumento, lapide per lapide, constatare se sia il caso di accettare tante odiose calunnie nei confronti di chi ebbe il torto di combattere dalla “parte sbagliata”, vale a dire quella del vinto.
Parole grosse? Crediamo fermamente di no, almeno a giudicare i fatti nudi e crudi: e sono i “fatti” quelli da cui bisogna partire per ristabilire la verità[18].
Per concludere non possiamo fare a meno di riportare una frase del già citato Blondet: «la storia revisionista può non essere tutta la verità. Ma è una brutta verità»[19]: per quanto poco attraente si deve avere il coraggio di metterla a nudo, anche se potrà costare molto.
Gianandrea de Antonellis
[1] Maurizio Blondet, A colpi di repressione, la Sicilia divenne italiana, in Avvenire, 19 agosto 2001.
[2] L’Ottocento, come spirito e mentalità, viene datato appunto 1789-1918, contrapponendosi al “secolo breve”, il Novecento, 1918-1989, iniziato con la fine della bella epoque e terminato con il crollo del muro di Berlino).
[3] Cfr Vittorio Messori, “Cuore”: massoneria per il popolo, in Pensare la storia, Mondadori, Milano 1992, p. 104-107. A proposito del libro di Edmondo De Amicis, Messori scrive tra l’altro: «Le antiche feste cristiane sono sostituite da quelle civili; il Vangelo dallo Statuto e dai Codici; i santi dai padri della patria (Garibaldi, Vittorio Emanuele, Cavour, Mazzini); gli ordini religiosi dall’esercito, visto come “fucina di virtù”; i martiri dagli eroi (il Tamburino sardo, la Piccola vedetta lombarda); l’impegno ascetico dalle virtù del cittadino esemplare; il Decalogo e il Discorso della montagna dai buoni sentimenti su cui tutti concordano; le processioni dalle sfilate militari…».
[4] Lorenzo Giusso, Le dittature democratiche dell’Italia, Alpes, Milano 1928, pp. 10-11.
[5] Patrick Keyes O’Clery, La rivoluzione italiana. Come fu fatta l’unità della nazione, a cura di Alberto Leoni, Ares, Milano 2000. Il volume contiene The history of Italian Revolution. First Period. The Revolution of the Barricades (1796-1849), edito nel 1875 a Londra, e The making of Italy, pubblicato sempre a Londra nel 1892.
[6] La sopravvivenza della Costituzione napoletana, dimenticata da tutti, soprattutto – e volontariamente – da chi la invocava costituisce un elemento inquietante e fa venire alla mente quell’episodio dei Buddenbrook (4, iii) di Thomas Mann in nel 1848 cui il popolo di Lubecca manifesta violentemente al grido «vogliamo la repubblica» dimenticando di averla già.
[7] Così il tenente lombardo Gaetano Negri in una lettera, riportata assieme ad altre lamentele nel volume Le due civiltà di Claudia Petraccone (Laterza, Bari 2000), che analizza appunto lo scontro tra due diverse mentalità.
[8] Si veda, in proposito, la descrizione che degli ex garibaldini divenuti parlamentari o generali dell’esercito – monumenti fastidiosi ed ingombranti, ma parimenti necessari – resa da Carlo Alianello ne L’inghippo.
[9] Si usa il termine storico – lo ripetiamo – con riferimento a studiosi che operano al termine degli avvenimenti trattati. Di conseguenza escludiamo i polemisti che furono attivi nello stesso periodo della conquista piemontese (La Cecilia, De Sivo, etc.)
[10] L’alto valore artistico dell’opera di Carlo Alianello è sottolineato anche dal fatto che le sue opere sono state pubblicate da case editrici settentrionali.
[11] Francisco Elias de Tejada, Napoli spagnola, Controcorrente, Napoli 2000, p. 9.
[12] Paolo Mieli, Storia e politica, Rizzoli, Milano 2001, p. 119.
[13] Maurizio Blondet, cit.
[14] «Chi entra in Montecitorio scorge, starei per dire, due popoli, due razze tra loro ben distinte e divise: la razza nordica prevale e siede a destra, la razza meridionale prevale e siede a sinistra», corrispondenza de L’Opinione del 5 agosto 1875.
[15] Gennaro Incarnato, Dalla parte dei Borbone, in Studi Cattolici, annata 2000, p. 215.
[16] Secondo una delle più viete “leggende nere” il sapone sarebbe stato introdotto da Garibaldi alla sua entrata a Napoli (!) e la popolazione, che evidentemente non lo aveva mai visto prima, avrebbe cercato di mangiarlo, scambiandolo per cibo.
[17] Gilbert Keith Chesterton, All’insegna della spada spezzata, in Il candore di Padre Brown, xi.
[18] «Ormai monta la volontà e la necessità di indagare e ragionare, partendo dai fatti accaduti. Se si punta sull’identità come leva di successo, se si tenta di svecchiare il settore della storiografia da alcuni stereotipi piagnoni e vittimistici del Sud bisogna fare storia, storia revisionista. E per fare questo bisogna avere coraggio. Le ammucchiate tra opportunisti non servono a nulla». Pietrangelo Buttafuoco, Il Risorgimento: fu vera gloria?, in Il Brigante 25 novembre 2000.
[19] Maurizio Blondet, cit.