Riforma e risorgimento
Fatta, bene o male (e tra tante lacrime e sangue, come vedemmo) l’Italia, furono soprattutto quei credenti relegati in un angolo a fare gli italiani.
[…] un Paese ben diverso da quello che la massoneria realizzava all’intorno fidando, significativamente, per forgiare i cittadini, soprattutto nell’esercito (al quale, come contrassegno, aveva dato -quasi come una nuova croce- le «stellette» sul bavero: e, cioè, la sua stella esoterica a cinque punte; la “Stella d’Italia”, come la chiamò Carducci). Al punto che la metà delle scarse risorse nazionali andavano alle forze armate -nel 1861 si arrivò addirittura al 61%- e per giunta con risultati disastrosi ogni volta che ci si provò a scendere a battaglia. Quanto all’entusiasmo con cui i giovani accettavano quella «scuola di civiltà», com’era chiamato l’esercito, lo dimostrano le impressionanti cifre di gente alla macchia per sottrarsi alla leva e il fenomeno delle continue diserzioni di chi già vestiva la divisa.
Uno storico ed economista di Ginevra, un calvinista, tra il 1807 e il 1818 pubblicò, in francese, i sedici volumi di una «Storia delle repubbliche italiane nel Medio Evo». È a quest’opera che Alessandro Manzoni replicò già nel 1819 con le sue «Osservazioni sulla morale cattolica», sentendo poi il bisogno di riprenderle e di ripubblicarle in una nuova stesura, ampliata, nel 1855, quando già nel Piemonte «liberale» era iniziata la politica antiecclesiastica.
Il grande scrittore milanese -pur cattolico esemplare quanto alla fede, alla morale, alla vita privata- sul piano pubblico sembrò prendere posizioni da «liberale»: non fu certo polemico contro quel modo di attuare il Risorgimento; accettò un seggio al primo Senato italiano, esibendosi a braccetto con Cavour sul portone del torinese Palazzo Madama, il giorno della proclamazione del nuovo Regno; fu ammirato da Garibaldi che venne a ossequiarlo nella sua casa di Milano; diede la sua figlia Giulia in sposa a Massimo D’Azeglio; non protestò contro l’occupazione di Roma. Tanto che, quando morì, la «Civiltà Cattolica» non ne diede la notizia, comunicandola ai lettori solo tempo dopo, in una breve noterella senza commenti.
Le sue opere furono a lungo guardate con diffidenza negli ambienti cattolici fedeli al Papa. Don Bosco, che pur nel 1850 fu ospite festeggiatissimo del Manzoni che villeggiava sul lago Maggiore e che fu in amicizia ricambiata con lui, “lodava i suoi scritti” ma “non consigliava ai giovanetti, perché inesperti e impressionabili, la lettura dei «Promessi Sposi» e solamente la tollerò quando fu nelle scuole prescritta dal governo”. (Anche se questo, va pur detto, più per ragioni morali che politiche, pensando il prete di Valdocco che figure come quelle di don Abbondio e della Monaca di Monza non fossero edificanti per i suoi ragazzi).
Doveva esserci dunque una ragione importante se quel Manzoni «risorgimentale» in modo sconcertante (mentr’egli sedeva al Senato, il governo del Re fucilava preti, suore erano violentate, i monasteri devastati, i capolavori di arte sacra venduti all’asta, cittadini imprigionati per la loro fede, il Papa dileggiato sui giornali e per le strade, decine di diocesi mancavano di vescovi, i religiosi privati di tutto mendicavano per le strade e a uomini di valore internazionale come Faà di Bruno si negavano le cattedre), se quel Manzoni, dunque, decideva di scendere in campo con un libro apposito, per confutare l’opera di un autore molto letto e molto preso sul serio proprio negli ambienti «risorgimentali».
In effetti, questa la tesi del Sismondi: la «morale cattolica» (sulla quale appunto si concentreranno le «Osservazioni» del grande lombardo), è stata causa di ipocrisie, di corruzione, di freno allo sviluppo sia civile che economico per il popolo italiano. La presenza nel cuore della penisola del centro della Chiesa «papista» aveva avuto un’influenza nefasta, facendo degenerare il carattere nazionale, distruggendolo moralmente e civilmente.
Erano -rilanciate e arricchite anche con la faziosità di una tradizione duramente polemica con il cattolicesimo come il calvinismo- le accuse che già erano state di Guicciardini e di Machiavelli. Da qui la ricetta del ginevrino Sismondi: solo una Riforma protestante -quella Riforma impedita a sud delle Alpi dalla reazione post-tridentina- poteva rigenerare l’Italia, aprendola al pensiero, allo sviluppo, al progresso moderni. Rendere «civile», ridare vita alla «terra dei morti», prendendo a paradigma di civiltà le società borghesi capitaliste dell’Europa riformata. Nel «Diario», Sismondi spiegherà di aver deciso di scrivere il suo libro “vedendo come la Chiesa cattolica avveleni in Italia nobili caratteri, perverta la virtù”. Così da “desiderare innanzitutto la distruzione assoluta del cattolicesimo come primo principio di rigenerazione“.
La madre di Camillo di Cavour, Adele de Sellon, era una calvinista ginevrina (dunque, concittadina e correligionaria del Sismondi) passata al cattolicesimo per poter sposare il marchese e conte Michele. Sin dall’infanzia e poi per tutta la vita, Camillo (agnostico dichiarato e spinto a prendere accordi con il suo parroco per gli ultimi sacramenti soprattutto per non creare, lo disse egli stesso, scandali politici) ebbe contatti con il mondo protestante, non solo svizzero ma anche inglese.
Il successo della sua azzardata politica lo si deve all’appoggio delle potenze protestanti, i cui nemici erano gli stessi suoi: lo Stato Pontificio; l’Austria (vista come bastione della resistenza cattolica e detestata come una sorta di resto del medievale Sacro Romano Impero e dove, tra l’altro, esisteva una dura legislazione antimassonica che suscitava lo scandalo dell’Europa «illuminata»); il Regno delle Due Sicilie, i cui Borboni erano considerati «bigotti» e per giunta avevano ospitato Pio IX fuggito dalla Roma della Repubblica di Mazzini e Garibaldi e avevano poi contribuito a rimetterlo sul trono con le armi.
Denis Mack Smith ha parlato, per quei decenni, della “fobia antipapale e del delirio italofilo inglese per il Risorgimento”, visto come preludio della fine del cattolicesimo, con scialo di profezie bibliche dei pastori anglicani dal pulpito. Da qui anche l’entusiasmo per Garibaldi, visto come “la spada del Dio della Bibbia contro la Roma-Babilonia e il Papa-Anticristo”. È questo che spiega come lo sbarco dei Mille abbia potuto svolgersi indisturbato a Marsala sotto gli occhi di navi da guerra britanniche e spiega l’accorrere dei volontari inglesi sotto le bandiere di quel Garibaldi del quale anche i capelli restati impigliati nel pettine erano commerciati a Londra come preziose reliquie.
L’Inghilterra anglicana, la Svizzera calvinista, la Prussia luterana, la stessa America puritana, aiutarono -ora con soccorsi concreti, ora con una benevola astensione- il processo di unificazione italiana così come si veniva svolgendo: in funzione cioè anticattolica.
La politica duramente anticlericale dei liberali al governo mirava, dunque, non solo a ingraziarsi i mangiapreti interni ma anche le potenze esterne protestanti. Spazzato via il Papa (la previsione era che, presa Roma, la Santa Sede si sarebbe trasferita altrove, forse in Austria, a completarvi il suo declino con una rapida estinzione), aboliti gli ordini religiosi, sequestrati i loro beni, sottoposto il popolo a una vigorosa «rieducazione» per mezzo della scuola di Stato ispirata al libero pensiero e per mezzo dell’esercito massonico; fatto questo (si pensava nell’Europa protestante), un’Italia rinnovata e depurata dalle superstizioni avrebbe preso il suo posto tra le potenze riformate. E, dunque, «civili».
Ma la politica anti-cattolica dei «risorgimentali» (in questo uniti, da Cavour a Garibaldi a Mazzini) non rispondeva solo a un tatticismo internazionale, alla ricerca cioè di potenti appoggi stranieri. Nasceva anche da altre convinzioni: innanzitutto se davvero, come si credeva, l’Italia risvegliata dal suo sonno era alla vigilia di una rivoluzione religiosa, come già negli altri paesi anche qui si sarebbe creata una Chiesa nazionale docile, malleabile, assoggettabile ben altrimenti della coriacea struttura cattolica, ribelle alla prospettiva di essere messa «dentro» lo Stato.
Ma poi: sia i borghesi liberali sia i democratici, i radicali (rifacendosi tutti al Sismondi e altri autori consimili) erano davvero convinti che la «protestantizzazione» del popolo italiano fosse necessaria premessa e condizione della sua «modernizzazione».
Questa convinzione è uno dei capisaldi di quella che è stata chiamata «l’ideologia piemontese»: non solo perché era creduta e praticata nel Piemonte risorgimentale ma perché, attraverso figure esemplari attive a Torino nel secolo successivo (un Gramsci, un Gobetti) giunge sino ai giorni nostri e contrassegna una prospettiva influente e diffusa. Anzi, è l’asse portante di una vera e propria «cultura egemone» tra gli intellettuali, oggi ancora. (Eugenio Scalfari, già direttore del settimanale «L’Espresso», il fondatore del quotidiano «La Repubblica», ci descrive in un libro l’ideologia «risorgimentale» che unisce, e univa, il gruppo dei liberali e dei radicali che, dopo lo scioglimento del Partito d’Azione, si dedicarono alla «politica della cultura», avendo soprattutto in odio -scrive Scalfari- “l’Italia profonda, contadina e papalina”, considerando come “maggior nemico il sanfedismo clericale”. Fino al punto di dirsi «anti-italiani» se «italiano» significa, in qualche modo, «cattolico»).
Sentiamo al proposito uno studioso contemporaneo: “L’«ideologia piemontese» è il progetto di una società che importa i suoi valori dall’Europa nordica e dal mondo protestante. Il suo tratto comune si esprime nel desiderio di una Riforma secolarizzata, sul tipo di quella avviata da Lutero, sviluppata da Calvino, espressa nell’individualismo e descritta da Max Weber come il passaggio «dall’etica protestante» allo «spirito del capitalismo». La Riforma protestante è il grande auspicio e il grande rimpianto di tutta l’ideologia piemontese. Se l’Italia è in ritardo rispetto all’Europa «civile», il motivo è individuato proprio in questa chiave: è mancato da noi quel protestantesimo che ha invece caratterizzato i Paesi del Nord. E tutta l’ideologia piemontese -sia essa liberaldemocratica o radicale, giolittiana o marxista, moderata o progressista, gramsciana o gobettiana- è accomunata in questo ideale della Grande Riforma intellettuale e morale, laica e modernista, industriale e sociale” (Marcello Veneziani).
Come osserva un altro contemporaneo, Antonio Socci: “È nella «scuola torinese» che nasce il progetto organico di una «Italia anti-italiana» nelle sue forme variegate (tecnocratica, marxista, illuminista), dove possa essere estirpata la millenaria tradizione nazionale italiana, tutta impregnata di cattolicesimo tridentino. La Grande Riforma morale e intellettuale sarebbe, in fondo, la trasformazione del paese a immagine e somiglianza del microcosmo e degli interessi della Grande Industria, assunta come il modello etico della coscienza collettiva. Ma, all’origine storica di questo progetto, sta la piemontesizzazione dell’Italia intrapresa dal Risorgimento liberale e democratico. Quella contro le corporazioni religiose fu la prima battaglia. È comunque un fatto che la presa del potere della borghesia italiana (che ha coinciso con l’unificazione) ha assunto la forma di una guerra dichiarata alla Chiesa, alla tradizione cattolica del popolo e di una sua tentata riduzione protestante“.
Il venti settembre del 1870 (e la data della breccia fu scelta appositamente perché in quella notte, in Loggia, si dà inizio all’anno di «lavori massonici») un «colporteur» di cui la storia ci ha tramandato il nome -Luigi Ciari- fu il primo civile ad entrare dietro i bersaglieri nella Roma non più papale, con un carretto di Bibbie protestanti trainato da un cane che rispondeva al nome di «Pio nono». Quel Ciari era valdese e non a caso, poiché sia i «risorgimentali» laicisti italiani che i protestanti stranieri puntavano su questo solo gruppo di evangelici «indigeni» per dare avvio alla Grande Riforma italiana.
Come scrive uno storico protestante, Giorgio Spini: “Tutto il Risorgimento è dominato da quel suo primo manifesto ideale che è la «Storia» del Sismondi, è mosso dalla tesi che l’Italia ha espresso il suo animo autentico con i Poveri di Lombardia, l’Alighieri, il Savonarola, i riformatori del Cinquecento, il Sarpi, i giansenisti, e che soltanto l’Inquisizione e il dominio straniero l’hanno piegata con la forza e corrotta, evirata, spenta con la Controriforma. La deduzione è chiara: basterà che l’Italia sia liberata dallo straniero e dal Papa perché ritorni alle sue ispirazioni migliori di riforma religiosa”. La quale Riforma era per loro la sola possibilità, lo dicevamo, di educare degli italiani «civili», dei cittadini «seri», dei membri a pari diritto della società e della cultura moderne.
Lo si ripeteva in ogni modo a parole e si cercava di calarlo nella realtà nazionale, anche con la forza delle leggi e delle armi: restando cattolici, gli italiani sempre sarebbero restati degli europei di serie B.
Da qui lo scendere in campo anche del Manzoni, cui pure – sebbene così saldo nella dottrina e lucido nei principi – sembra essere sfuggito che gli uomini di cui era amico o che, almeno, non contrastava, lavoravano proprio per ciò che, in teoria, egli così bene condannava. […]
Una storiografia interessata, scritta dai vincitori, una mitologia ingenua, ci hanno presentato come una «aristocrazia morale», come un club di campioni di onestà e di ogni virtù civica i notabili della casta che «fece l’Italia»; questi uomini che, nel rifiuto della «corruzione» e della «superstizione» della Chiesa di Roma, avrebbero ritrovato la via di un Paese austero, «riformato». Certo: gli uomini civilmente virtuosi non mancarono, soprattutto negli anni dell’entusiasmo, delle imprese guerresche e politico-diplomatiche per costruire l’unità. Ma c’è una ragione se -consolidatasi al potere la «nuova cultura» della «nuova Italia»- dal suo esilio volontario di Caprera, lo stesso Garibaldi poteva lagnarsi amaramente: «Tutt’altra Italia io sognavo! Questa sta vivendo tempi borgiani».
In effetti, proprio gli stessi che basavano il proprio programma politico sulla lotta alla «ipocrita», «corrotta» morale cattolica riempirono le cronache di una serie impressionante di scandali, di ruberie, di inefficienze, di egoismi di casta e di classe, di indifferenza ai bisogni del Paese reale. Tanto che Antonio Gramsci (pur esponente tra i maggiori della «ideologia piemontese») scrisse in carcere, pensando ai decenni del post-Risorgimento, all’epoca in cui si vedeva nella «protestantizzazione» del popolo, nella distruzione della tradizione cattolica la condizione per un’Italia «seria»: “Quella banda di avventurieri senza pudore e senza viscere di carità che, dopo
Vittorio MESSORI
tratto da: Vittorio MESSORI, Un italiano serio. Il beato Francesco Faà di Bruno, Paoline, Milano 1990, p. 201-210.
fonte
https://tuttalastoriatidaraonoreevittoria.myblog.it/il-risorgimento/