Ritorno Caporetto, tra le vittime del potere malvagio e oscuro che azzanna la storia
Risalendo la strada che fiancheggia il fiume Natisone e porta da Cividale a Caporetto è facile vedere, avendo un poco di immaginazione, lunghe colonne di fanti in grigio verde che discendono la valle sotto la pioggia incessante, e i carriaggi, e gli automezzi, il caos descritto in tante testimonianze letterarie e fotografiche di quella che è stata la catastrofe per antonomasia dell’Italia unita.
Gli storici hanno indagato a lungo come sia stata possibile una disfatta che, alla luce dei rapporti di forza in quel momento esistenti sul fronte giuliano, proprio niente lasciava presagire. Il comandante in capo, Generale Luigi Cadorna, con un tanto clamoroso e discusso quanto famoso bollettino di guerra ( che il governo italiano bloccò non prima che una certa diffusione ci fosse perfino all’estero) ne attribuì la responsabilità alla “mancata resistenza di reparti della seconda armata, vilmente ritiratisi senza combattere e ignominiosamente arresisi al nemico”. Seguì una commissione d’inchiesta che non fece luce su tutti i punti oscuri di quella vicenda, di cui ancora si discute. Alcuni anni fa, in visita al monte S. Michele, nel Carso, avvicinandomi a un gruppo di gitanti ai quali la guida spiegava i fatti che lì si erano svolti, sentii che il discorso verteva su Caporetto e sulle responsabilità di Badoglio. Se l’è cavata, dicevano, era raccomandato.
Tralasciando Badoglio e le sue raccomandazioni, che non è il tema di queste note, passeggiare sulla sommità del S. Michele, tra cima 1 cima 2 e cima 3, in mezzo alle croci che ricordano i combattimenti atroci che qui vi si svolsero, commuove. Ora è tutto verde, dove allora i soldati dell’uno e dell’altro esercito, a seconda delle fasi della guerra, venivano all’attacco lungo le pendici brulle per essere falciati dalle mitragliatrici disposte alla sommità.
Nel piccolo museo posto nei pressi di cima 3 è abbastanza impressionante l’esperienza di realtà virtuale, o aumentata come usa dire, che si fa inforcando degli occhialoni e delle cuffie che ti proiettano dentro le trincee, ti fanno entrare accanto ai feriti in un ospedale militare, oppure ti fanno sorvolare l’Isonzo nell’aereo di Francesco Baracca. Forse qualcosa di simile al famigerato metaverso, ancora di più temuto da chi scrive dopo averne subito la suggestione per qualche minuto.
Un altro ricordo di quella ricognizione è quello di un giovane ungherese che mi chiese se sapevo che lì avevano combattuto i suoi compatrioti, e mi parve di leggere in quella domanda un sentimento che non potrei definire altro che con quella vecchia espressione, amor di patria. Io non sapevo, o non ricordavo, che al S. Michele avevano combattuto anche gli ungheresi del reggimento Honved e non gli seppi dare soddisfazione.
Forse, per figurarsi come si svolgevano i terribili scontri della grande guerra, il luogo tra tutti più evocativo è il campo di battaglia del Monte Ortigara. Si arriva in cima lungo gli stessi pendii che risalivano i soldati balzati dalle trincee gridando Savoia, col destino segnato di essere sterminati dal fuoco delle mitragliatrici nemiche sovrastanti. In quei luoghi dell’altopiano di Asiago, l’Ortigara, la cima Caldiera, il monte Fior, si può capire la posizione degli eserciti, si percorrono i camminamenti attraverso i quali si arrivava alla prima linea e le trincee della prima linea stessa.
Riprendo da uno dei cartelli esplicativi del museo all’aperto le parole del Padre Luigi Sbaragli cappellano del Battaglione Sette Comuni, che rievoca così gli immediati momenti prima dell’attacco: “Quando ricomincia il bombardamento la terra trema, ha sussulti, ha fremiti lunghi di spasimo. Per noi l’attesa ora punge. Mancano cinque minuti : giù i parapetti per gli sbocchi. Ancora tre minuti: via i reticolati. Una stretta di mano ai più vicini, un bacio a Setti, un segno di croce e via giù per la china”.
Ma le memorie più famose degli accadimenti di quei luoghi si devono alla penna di Paolo Monelli, col suo Le scarpe al sole e di Emilio Lussu nel celebre Un anno sull’altipiano. Due scritti di segno diverso, il primo pubblicato subito dopo la conclusione del conflitto, è in forma di diario e scansiona il tempo giorno dopo giorno, facendoci rivivere la vita quotidiana dell’autore e dei compagni d’arme. Il secondo, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1938 e in Italia solo nel 1945, restituisce in veste di romanzo gli avvenimenti con una chiave che ne mette in luce soprattutto la disumanità dei comandanti, l’assurdità dei regolamenti, i rapporti di solidarietà che si stabiliscono tra i soldati.
Il macello della prima guerra mondiale è stato qualcosa di tremendo, che fino ad allora il mondo non aveva conosciuto. La guerra di posizione, che sfiniva gli uomini condannati a vivere infangati, rannicchiati in trincea fino al momento dell’attacco che costava fiumi di sangue e veniva quasi sempre respinto dai difensori, non si poteva vincere sul campo di battaglia, ma solo per sfinimento dei contendenti ed esaurimento delle risorse disponibili, come in fin dei conti alla fine successe.
La macchina, con la sua capacità di distruzione, aveva per la prima volta nella storia il sopravvento sul valore degli uomini, rendendo quasi sempre vane le gesta dei singoli che pure ci furono numerose. Non si trattava più di fare la guerra come a Solferino o a Sedan , per quanto sanguinose fossero state queste battaglie, combattute però in un’epoca in cui i colpi di cannone si potevano sentire esplodere quasi a uno a uno. Adesso l’artiglieria pesante, con intensità crescente man mano che la guerra proseguiva, per lo sviluppo esponenziale della capacità produttiva dell’industria bellica, poteva bombardare le postazioni per ore e ore senza che il fragore smettesse per un minuto, con effetti devastanti, anche sulla tenuta morale e psicologica dei soldati.
Paolo Monelli, nel diario Le scarpe al sole, ricorda così il giorno decisivo dell’Ortigara , il 25 giugno 2017, quando la battaglia è ormai perduta: “Improvvisa diana di cannonate. L’alba non è che un pallore attonito, e il bombardamento insiste da due ore, con violenza mai raggiunta prima… Prima di scendere nella busa ci siamo messi la nostra brava maschera, perché tutta mattina hanno sparato a gas. Ma dopo cinque minuti di corsa di balzi di salti chi ce la fa più a tirare il respiro con quel bavaglio? E prima provo a rubar qualche rifiatata di sfroso tirando su un poco la maschera; e poi succeda quel che vuole succedere, me la tolgo, la rificco nella scatola (‘Chi leva la maschera muore , tenetela sempre con voi!’) e bevo l’aria a garganella con voluttà. E poi via, per il vallone dell’Agnellizza colmo di morti, gli scheletri delle battaglie dell’anno passato, i cadaveri gonfi della battaglia di quest’anno che dura da quindici giorni. E un teschio sghignazza, lucido, accanto alla larva livida di un morto di ieri… chissà quanto è durato il bombardamento di mille calibri, dai quattro punti cardinali, che s’è sferrato subito dopo , accendendo nella notte un firmamento inesausto di scoppi?… Un soldato vicino a me, batte ininterrottamente i denti. E un sonare di gavetta segna il tremare del suo corpo, nelle pause del fracasso. Un altro, la faccia affondata fra due sassi, mormora desolatamente: A j’è nèn Dio, a j’è nèn Dio. Ma c’è stato anche quello che ha dormito.”
Con la prima guerra mondiale comincia l’era del macchinismo, dell’organizzazione, della mobilitazione totale, per richiamare un famoso concetto definito da Ernst Jünger. L’uomo diventa numero di una massa, stritolato dall’ingranaggio. Lo stesso Jünger, giovanissimo ufficiale tedesco, nel suo libro di esordio, Nelle tempeste d’acciaio, aveva descritto la carneficina della guerra con un linguaggio algido e uno sguardo oggettivo in cui niente è lasciato al sentimentalismo, e i rapporti che si stabiliscono tra gli uomini sono sovrastati, resi asciutti ed essenziali dall’ineluttabilità del meccanismo infernale nel quale essi sono incagliati.
In Italia, a ricordare la tragedia di quel conflitto immane, uno dei luoghi simbolo è il sacrario di Redipuglia dove riposano circa centomila, tra quelli identificati e quelli rimasti sconosciuti, dei morti nelle dodici battaglie dell’Isonzo. Quei nomi, migliaia, scritti uno dopo l’altro, quei gradoni alla cui base ricorre la scritta “presente”, “presente”, ti entrano dentro come fossero quelli di tuoi amici e oggi sembrano chiederti il perché della loro sorte.
Il cosiddetto spirito dei tempi è cambiato da allora, cioè sono cambiate le esigenze dei padroni che lo determinano. Il sentimento patriottico nel quale abbiamo vissuto e che ancora ci ostiniamo a conservare, il senso di appartenenza alla nazione (che ovviamente, lo dico per il lettore che passasse di qui per caso, non ha niente a che vedere col nazionalismo come pretoriani disonesti vogliono far credere) viene dileggiato quando apertamente, quando in modo surrettizio e in via subliminale. Se è servito in passato instillarlo ai nostri nonni e ai nostri genitori, dopo è servito affievolirlo, per gradi, generazione dopo generazione.
Oggi le ragioni del patriottismo, che sono ancora le nostre perché ci siamo cresciuti e non ce la facciamo a inseguire i tempi che cambiano al comando dei padroni di turno (col “mondo nuovo” se la vedranno le nuove generazioni) ci sembrano utopiche, perfino un po’ astratte, come a un certo grado lo sono tutte le idee, ogni visione del mondo. Le vicende di questi ultimi anni, a cominciare dalla così denominata pandemia, questo crudele attentato alla vita di milioni di persone, questa guerra non dichiarata ai popoli del mondo, riconducono l’attenzione alle forze e agli interessi concreti che realmente li muovono, e agli uomini in carne ed ossa che vi finiscono sacrificati. E allora gli ideali di coloro che invocarono la guerra, anche i più politicamente motivati, a destra e sinistra, col senno di cento anni trascorsi, ci paiono quando ingenui quando dannosi. E prende sempre più forza la discussa, al tempo contestatissima, celebre frase del pontefice Benedetto XV che bollò la guerra come un’inutile strage.
Forse la spiegazione più vera, l’unica che dia ragione della follia che attraversa periodicamente tutte le epoche e della quale oggi siamo testimoni in questo tornante della storia che abbiamo sotto gli occhi, è il mistero del male che l’uomo non può evitare. Come ha lasciato detto San Paolo, e non lo si ricorda qui con intento apologetico, “non comprendo quel che faccio, perché non faccio quel che vorrei io, ma quello che non voglio… io riscontro dunque in me questa legge, che volendo io fare il bene, mi si presenta il male”.
Oggi quando giro per i luoghi della grande guerra con la passione dello studioso dilettante continuano a interessarmi le fasi delle battaglie, le cartine topografiche, le analisi degli esperti militari, ma vedo di più davanti a me i corpi degli straziati, mi ripasso le loro lettere in dialetto, scritte alle madri o alle mogli, mi figuro quelle famiglie povere, contadine, che non sapevano niente di Trento e Trieste, per le quali la guerra era come la grandine, un fenomeno naturale che di tanto in tanto Iddio Onnipotente mandava e che non si poteva scansare. E se mi chiedo perché sono morti riesco a darmi solo una risposta, che sono morti perché un potere imperscrutabile, malvagio e oscuro, voleva che morissero. Come sempre da che mondo è mondo.
Carlo Primerano
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