S.M. Maria Sofia di Borbone Napoli l’ultima Regina delle Due Sicilie nelle parole di Erminio De Biase

Qualche anno fa, a scuola, pur insegnando tutt’altra materia, mi capitò di recitare agli alunni alcuni versi del poemetto di Ferdinando Russo ‘O suldato ‘e Gaeta: mai ottenuta un’attenzione totale ed un silenzio assoluto come quella volta. Dopodiché, uno di loro mi chiese: “Prufessò, ma pecché nun ce dicene ‘sti ccose?”
Già, perché? Perché nella sistematica damnatio memoriae della nostra storia ci hanno obbligato a conoscere solo i vari Amatore Sciesa, Tito Speri, Pietro Micca, Gino Capponi, il Balilla, Tognetti e Ciceruacchio, tanto per fare qualche nome… Ma chi è ‘sta ggente?!? Al massimo, troviamo da qualche parte Michele Pezza, Fra Diavolo, ma riportato come bandito, come Brigante, non certo come indomito eroe, quale fu!
Per lo stesso motivo, ci tengono nascoste fulgide figure come quella della nostra ultima Regina, una Regina che ci restituisce l’orgoglio che quegli stessi libri di Storia ci hanno tolto: la Regina Maria Sofia von Wittelsbach, nata duchessa in Baviera, che oggi commemoriamo, nel centenario della Sua scomparsa.
Una sovrana che, pur regnando solo pochi e tormentati mesi sul Regno delle Due Sicilie, ne illuminò il tramonto. Lo illuminò con un bagliore come quello di un fulmine, che dura un attimo, ma con una intensità che abbaglia, che squarcia col suo fulgore le tenebre dell’oblio in cui ha cercato di avvolgerla la storia dei vincitori. Ma più profondo è il buio della notte, più una stella è lucente…
Maria Sofia, giunta a Napoli dalla Baviera appena diciottenne per sposarne l’erede al trono, Francesco di Borbone, aveva un temperamento dinamico e spregiudicato; era moderna e, allo stesso tempo, romantica. Intelligente, gioviale, avvenente, socievole e senza boria, detestava gli onori e non nascondeva la sua avversione per il protocollo: amava, l’equitazione, il tiro al bersaglio, il nuoto ed in genere tutti i sani esercizi fisici. I napoletani rimasero subito colpiti della sua radiosa bellezza e dalla sua intraprendenza nel cavalcare o di guidare arditamente un superbo tiro a quattro.
I tempi, però, purtroppo, si rabbuiarono presto e, dopo la morte del suocero, Ferdinando II, precipitarono prima con la rivolta dei reggimenti svizzeri e pochi mesi dopo con l’invasione piemontese. Quando giunse la notizia dello sbarco di Garibaldi in Sicilia, l’unica persona che avesse spirito battagliero e manifestasse propositi coraggiosi fu solo lei, perché era tutto fuoco ed ardimento e se l’avessero lasciata fare si sarebbe senz’altro posta a capo dell’esercito per condurlo alla battaglia; cosa che, purtroppo, Francesco II non aveva mai considerato di fare in prima persona… Fu, perciò, con rabbia e con dolore che, nel settembre del 1860, dovette rassegnarsi ad abbandonare la Capitale che tanto amava.
A Gaeta, dove, la Corte borbonica s’era rifugiata dopo la sfortunata battaglia sul Volturno, ella visse i momenti più gloriosi della sua esistenza. Sugli spalti dell’antica fortezza, con il suo coraggioso comportamento, dimostrò tutto il Suo eroismo e, con totale sprezzo del pericolo, scriverà in quei giorni la sua leggenda, apparendo una donna superiore in tutto, ben degna dell’alto posto cui il destino l’aveva collocata e per cui, già in vita, diverrà un mito e sarà ricordata come die Heldin von Gaeta, l’Eroina di Gaeta, sul capo della quale storici e romanzieri, subendo il fascino della sua regale femminilità, avrebbero posto una corona ben più duratura di quella brevissima delle Due Sicilie.
Da allora, tutta l’Europa cominciò a guardarla con ammirazione e simpatia, in Francia venne addirittura paragonata alla intrepida eroina seicentesca Duchessa di Montpensier.
È lei l’eroina dimenticata, come amarono definirla; per Marcel Proust è la “femme héroïque, …reine-soldat” pronta a combattere e ad alleviare le sofferenze dei deboli; è lei la donna “bella e degna del suo trono”, descritta da Gabriele D’Annunzio ne Le vergini delle rocce.
Nei giorni dell’assedio di Gaeta (a ricordo del quale porterà sempre al dito un anello ricavato da una spoletta) incurante del fuoco nemicoMaria Sofia visitava i reparti, controllava i rafforzamenti, predisponeva l’assistenza ai feriti ed intensificò i rapporti con la popolazione tra la quale diventò ben presto popolarissima. Il suo naturale ardimento, unito a una buona dose di giovanile esuberanza, la spingeva nei luoghi dove il pericolo era maggiore. Visitava le più esposte postazioni dell’artiglieria portando il suo splendido sorriso e una parola d’incoraggiamento ai suoi soldati che, naturalmente, la idolatravano. Per tutti, la visione della regina che appariva in mezzo a loro a cavallo rappresentava un motivo di conforto e di entusiasmo.[1] Uomini con gli occhi ardenti nel viso annerito, con le vesti lacere, coperti di sangue e di polvere, si slanciavano verso di lei chiamandola per nome e le baciavano il lembo della gonna…”.[2]
Era una meraviglia vedere quella bellissima e maestosa giovanetta portare consolazione e soccorsi negli ospedali provvisori delle batterie dove si combatteva. Essa appariva in mezzo al fumo dei cannoni ed allo scoppio delle bombe nemiche, come il genio del Bene, come l’Angelo consolatore e…[3]
…e ‘a Riggina! Signò! … Quant’era bella!
E che core teneva! E che maniera!
Mò na bona parola â sentinella,
mò na strignuta ‘e mana a l’artigliere…
Steva sempe cu nuje! … Muntava ‘nsella
Currenno e ncuraggianno, juorne e sere,
mò ccà, mò llà, v’’o giuro nnanz’ê sante!
Nn’èramo nnammurate tuttequante!
Vuje qua’ Riggina! Chella era ‘na Fata!
E t’era buonaùrio e t’era sora,
quanno cchiù scassiava ‘a cannunata! …
Era capace ‘e se fermà pe ‘n’ora,
e dispenzava buglie ‘e ciucculata…
Ire ferito? E t’asciuttava ‘a faccia…
Cadive muorto? Te teneva mbraccia…
Teneva nu curaggio e na baldanza,
ca ûno le zumpava ‘o core ‘a piette!
Te purtava ‘e ferite all’ambulanza,
steva sempe presente a capo ê liette…
E tutte, chi ‘a chiammava e chi mureva,
‘a stevano ‘a guardà cu l’uocchie ‘e freva…
Murì pe Essa era ‘o suonno ‘e tuttuquante!
Desiderà ‘nu vaso ‘nfronte ‘a Chella,
segnifecava: “Mettimmece nnante
pe fa ‘na morte ca se chiamma bella!”
‘Mpietto, p’avè ‘n’aucchiata ‘a sta Rignante,
te facive arapì ‘na furnacella! …
Proprio accussì, signore mio! … Vedite? …
V’ ‘o sto cuntanno e chiagno… e vuje redite…![4]
Con queste parole, rese magistralmente in versi dal nostro grande Ferdinando Russo e qui, altrettanto magnificamente, declamate dalla voce allo stesso tempo stentorea e melodiosa del maestro Gianni Lamagna, Maria Sofia è descritta da Michele Migliaccio, fedelissimo soldato borbonico che pur perdendo un occhio ed un braccio nell’estrema difesa del Regno, non smise mai di combattere, fino all’ultimo, rifiutando con sdegno di passare poi nell’esercito piemontese, preferendo morire in povertà, in un ospizio. L’unica sua ricchezza, di cui andava fiero, era la medaglia che Francesco II gli aveva appuntato sul petto, prima di lasciare Gaeta.
La mattina di quel 14 febbraio 1861, quando si imbarcò per Civitavecchia, gli occhi della Regina erano inumiditi dalle lacrime. Le stesse lacrime che rigavano il volto di tutti, uomini e donne, militari e civili.
Finiva, così, il Regno delle Due Sicilie, ma quella corona strappatale dalla testa fece posto all’aureola di Eroina di Gaeta e la elesse immortaleImperatrice dell’anima per tutti noi che, ancora oggi, amiamo in lei la bellezza e la dignità della tragedia,[5] come ebbe a scrivere Giovanni Ansaldo nella sua memorabile intervista alla Regina Maria Sofia del novembre 1924.
A Roma, dove la coppia reale visse nel successivo decennio, Maria Sofia non perse tempo a riprendere la lotta mirata a riconquistare il trono perduto, diventando il simbolo della resistenza antisabauda; gli echi delle fucilazioni dei piemontesi e dei vari focolai di rivolta che si attizzavano contro di loro non potevano lasciarla indifferente: fremeva e voleva dare inizio alla riscossa il più presto possibile. Voleva riunire attorno alla bandiera gigliata tutti i malcontenti della nuova situazione politica e non importava se si trattasse di veri legittimisti o di avventurieri che affluivano da ogni parte d’Europa, come Henri de Cathélineau ed Emile de Christen dalla Francia, il Generale carlista Josè Borges dalla Spagna, il Marchese Alfred de Trazégnies dal Belgio, il Conte Edwin von Kalkreuth dalla Prussia, Ludwig Richard Zimmermann dall’Austria, per citarne i più famosi. La storiografia ufficiale liquiderà tutte queste figure di intrepidi romantici con il termine spicciativo di Brigante. In molti casi, però, si trattò di veri e propri eroi, di insorgenti che, se avessero vinto la loro battaglia, oggi sarebbero chiamati partigiani. “Quella che gli storici italiani chiamano “guerra del brigantaggio” – confiderà l’ormai anziana Regina a Giovanni Papini, a Parigi nel 1914 – fu la generosa rivolta degli umili contro il regime piemontese. Se il mio sposo, invece di rimanere a Roma, avesse varcato i confini del Regno e si fosse messo a capo degli insorti, raccogliendo le bande sparse in un solo esercito, saremmo rientrati vittoriosi nella Reggia di Napoli…”[6]
Anche in quegli anni, Maria Sofia non smentì il suo ardimento: nella battaglia contro Garibaldi, a Mentana nel 1867, con il suo eterno spirito combattivo – un grembiule bianco come divisa – si spinse fin sulle prime linee ad incoraggiare i combattenti ed a curare i feriti.[7]
Nell’ambito della sfera privata, gli anni dell’esilio romano furono caratterizzati da due eventi che segnarono fortemente il legame tra Lei ed il marito. Benché i loro rapporti intimi non fossero mai stati particolarmente intensi, la notte di Natale del 1869 la Regina partorì una bambina a cui fu imposto il nome di Maria Cristina Pia. La primogenita reale, però, già gracile alla nascita, non appena compiuti i tre mesi, volò nel paradiso dei bambini: morì la sera del 28 marzo 1870 fra le braccia della madre in lacrime che l’aveva assistita personalmente negli ultimi giorni senza più pettinarsi né cambiarsi d’abito. Quando dovette distaccarsene, Maria Sofia, pazza di dolore, prese la piccola cassa in cui era stata deposta la bambina e, sorreggendola tra le braccia, la portò al Re affinché potesse baciare per l’ultima volta la sua unica figlia. Poi cadde a terra priva di sensi.[8]
Qualcuno sostiene (non sappiamo se a torto o a ragione) che la Regina fosse già stata madre: anni prima avrebbe partorito due gemelle, frutto del suo amore segreto con il tenente degli zuavi pontifici, Armand de Lawaÿss, suo cavaliere d’onore. Si innamorarono e questa fu l’unica, ardente passione di tutta la vita di Maria Sofia. Non appena si rese conto di essere rimasta incinta, ella trovò un pretesto per tornare in Baviera, dove fu ospite del convento di Sant’Orsola, ad Augsburg. Qui, il 24 novembre 1862, nacquero due bambine. Maria Sofia non incontrò più il suo Armand al quale fu impedito in tutti i modi di rivederla. In seguito, prima di tornare dal marito a Roma, con estrema lealtà, volle preventivamente informarlo per lettera di tutto quanto era successo ed attendere le sue decisioni. La risposta di Francesco fu rapida ed immediata. “Maria Sofia, ti aspetto”, diceva il suo telegramma. Di quanto la moglie gli aveva rivelato, Francesco non fece parola con alcuno e si portò il segreto nella tomba.[9] Tale nobiltà d’animo e di sentimenti solo a Lui erano possibili.
Nel 1870, pochi mesi prima che i piemontesi fagocitassero anche lo Stato della Chiesa, Francesco e Maria Sofia lasciarono definitivamente Roma e non vissero quasi più insieme: l’ex Sovrano, che ormai si faceva chiamare semplicemente, Signor Fabiani, si ritirò nel volontario esilio di Arco, nel Tirolo, dove morirà il 27 dicembre 1894, molto più incanutito dei suoi effettivi cinquantotto anni.
Mentre Francesco II, pure oppresso dai ricordi nostalgici di Napoli, aveva accettato il suo destino, Maria Sofia invece non rinunciò mai ad alcun suo diritto, e rimase irriconciliabile coi Savoia. Seguendo sempre la naturale irrequietezza della sua indole alternò la sua presenza tra Monaco di Baviera, Londra e, soprattutto, Parigi; rimpiangeva continuamente il bel cielo ed il bel mare partenopeo, e si commoveva allorché udiva qualche melodia napoletana che le ricordava la maestosa Reggia tanto amata e perduta ed il profumo del golfo: “Napoli non si dimentica”, amava ripetere sovente.
La generosità accompagnò tutta la sua vita: soccorreva gentiluomini decaduti, artisti bisognosi ed in genere quanti a lei si rivolgevano. Ne diede una prova luminosa proteggendo dei bambini che, prelevati dalla terra di cui era stata regina, venivano impiegati agli altiforni delle vetrerie francesi, a 1.400 gradi di calore, anche per 16 ore al giorno.
Vessati fino allo sfinimento, maltrattati, malmenati e sottoalimentati in dormitori putridi e malsani, molti di questi fanciulli si ammalavano di tubercolosi e morivano senza assistenza e senza pietà. Oltre a denunciare quel criminale commercio, vergognosamente tollerato per anni dallo Stato italiano, Maria Sofia finanziò la creazione di un “ospizio” per garantire a quei piccoli condizioni più umane. Molti ne ospitò anche nella sua villa.
Un ragazzo di Roccasecca, nel processo contro uno dei più perfidi incettatori di bambini-vetrai, dichiarò: “Un monaco ci fece aiutare da una Regina (Maria Sofia): fummo ricevuti in casa sua e trattati da gran signori…”.
Un altro piccolo, malato di tubercolosi contratta nella micidiale vetreria in cui lavorava, oltre ad essere picchiato dal padrone era costretto a lavorare fino allo sfinimento, nonostante la malattia. Saputa la cosa, la Regina lo tolse dal “sozzo tugurio” dove il ragazzo, alloggiava e “a sue spese lo fece rimpatriare”. Appena passata la frontiera, però, a causa del disagio mentale causato dagli stenti, finì nel manicomio di Genova.
A Neuilly sur Seine, dove si era trasferita e dove aveva impiantato pure un allevamento di cavalli, anche se ormai quasi sessantenne, l’ex Regina di Napoli si mantenne sempre attiva e aggiornata: continuava a cavalcare nei boschi circostanti, leggeva molti giornali, francesi e italiani, riceveva cittadini del regno perduto e manteneva rapporti epistolari con alcuni ex sudditi. Ad alcuni dei quali, pur senza disporre di molto (Marcel Proustla giudica povera rispetto al gran mondo di parigino) dispensava piccole pensioncine.
Sempre nella capitale francese, secondo una recente ipotesi, avrebbe frequentato ambienti e figure di anarchici con i quali avrebbe condiviso l’organizzazione dell’attentato che a Monza, il 29 luglio 1900, costò la vita ad Umberto I, consumando così la sua nemesi storica contro gli odiati Savoia. Giolitti ritenne che il regicidio fosse legato alla corte di Maria Sofia perché correvano molte voci sui suoi rapporti con esponenti socialisti e anarchici e sull’appoggio che avrebbe loro prestato: la villa di Neuilly era teatro di un frenetico andirivieni di personaggi misteriosi, come gli anarchici Charles Malato ed Errico Malatesta. Ma tutto questo è ancora da dimostrare. Personalmente, ritengo poco probabile che Maria Sofia si sia avvicinata a quello stesso ambiente da cui proveniva anche colui che, solo due anni prima, le aveva ammazzato la sorella Sissi.
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, in quanto tedesca, fu costretta a lasciare Parigi. Fissò la sua residenza in un modesto appartamento di un antico palazzo di famiglia, nella Ludwigstraße, a Monaco di Baviera. Nei dieci mesi che trascorsero dall’inizio del conflitto all’entrata in guerra dell’Italia a fianco di Francia e Inghilterra, fu pure costantemente seguita dai servizi segreti italiani.
Nel corso del conflitto, benché avesse quasi ottant’anni, ogniqualvolta le sue limitate finanze glielo consentivano, si recava nei campi di concentramento di prigionieri italiani: fra quei soldati laceri ed affamati cercava i “suoi napoletani” per distribuire loro, come a Gaeta, dei sigari, forse delle coperte, dei vestiti e, sicuramente, …quacche buglie ‘e ciucculata. Molti italiani visitò la Regina nei campi di prigionia e a chi si meravigliava, che parlasse correntemente nella loro stessa lingua, così rispondeva: “Sono una signora, che conosce bene Napoli e che da giovane imparò a parlare italiano“. Non solo regalò ai campi di prigionieri tutti i suoi libri italiani, ma pietosamente si incaricò di far pervenire la loro corrispondenza, ancora inibita oltre frontiera, alle rispettive famiglie.
Altrettanto buona che coraggiosa, com’era stata un tempo, quando regina-soldato, aveva combattuto sugli spalti di Gaeta e sempre pronta a schierarsi con animo cavalleresco dalla parte dei deboli…,[10] come scrisse Marcel Proust.
Pur ottantenne, il suo spirito rimase sempre giovane: non rinunciava mai alla sua quotidiana passeggiata a cavallo e, quando riceveva degli ospiti, li intratteneva sempre in modo brillante e garbato. Strinse rapporti anche con il nunzio apostolico Eugenio Pacelli, il futuro Papa Pio XII.
Due mesi prima della sua morte, rilasciò una lunga intervista, un vero e proprio testamento morale, a Giovanni Ansaldo, allora giovane inviato del Corriere della Sera, che così ce la dipinge:
“La vecchia regina di ottantatré anni ride ancora, dolcemente e un’onda di sangue le monta ancora giovanilmente dal cuore alle tempie, fino alla radice dei capelli bianchi; ancor oggi ride come nella casa paterna di Possenhofen, nella Reggia di Napoli, nelle casematte di Gaeta, ai tempi dei suoi diciott’anni.
Le angustie degli ultimi anni, le peripezie di una vecchiaia appena agiata non le hanno tolto il riso che ancora oggi vela il suo viso di porpora, la porpora della sua intima e vincitrice regalità, che le avventure del mondo e degli uomini non possono offendere e che la protegge dalle ingiurie del volgo, dalle curiosità e dalle compassioni, meglio del manto imperiale.
Per questo suo ansioso e disdegnoso viso, Maria Sofia è salva dalla oscena vecchiaia, è la donna senza età dell’antico poema ellenico, che colpita dalla sciagura della sua casa, tuttavia non disperando della giustizia degli dei, loda i disegni del Fato.”
Dopo una intera vita in esilio, durante la quale ebbe sempre Napoli e i napoletani nel cuore, Maria Sofia von Wittelsbach, poi di Borbone, nata Duchessa in Baviera, ultima Regina di Napoli e delle Due Sicilie, l’Eroina di Gaeta, l’Aquilotta Bavara, si addormentò nel sonno della morte la notte tra il 18 e il 19 gennaio 1925. Inizialmente, fu sepolta nella tomba di famiglia sul Tegernsee; le spoglie di Francesco II, invece, erano state inumate prima nella Chiesa della Collegiata ad Arco, nel Tirolo e poi a Trento dove, il 9 dicembre 1938, giunse da Monaco di Baviera pure la salma di Maria Sofia per essere traslate entrambe a Roma, nella Chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani che già custodiva le spoglie della loro figlioletta e dove resteranno fino al 10 aprile 1984, data della loro traslazione nella Chiesa di Santa Chiara, qui a Napoli. Traslazione avvenuta solo per l’impagabile, encomiabile, disinteressata, generosa abnegazione del compianto don Achille di Lorenzo, Maggiordomo Maggiore della Real Casa di Borbone delle Due Sicilie che si accollò personalmente tutte le spese dell’operazione. È solo grazie a lui, e non ad altri, se noi napoletani oggi possiamo inginocchiarci sulla tomba degli ultimi Sovrani del Regno delle Due Sicilie.
Un mese dopo questa cerimonia, volutamente riservata, nella stessa basilica di Santa Chiara, stracolma di popolo, si tennero i funerali solenni dei due reali napoletani. Tra i tanti che vi accorsero c’ero anch’io che, con gli occhi velati di lacrime e con un nodo alla gola per la commozione, riabbracciavo idealmente il mio Re e la mia eroica Regina che, finalmente, dopo centoventiquattro anni di esilio, ritornavano nella loro antica capitale…
…E ‘a Reggina, a Reggina, Signò! … Quant’era bella!
Erminio de Biase
[1] A. Petacco – La Regina del Sud – pp 135/39
[2] O. F. Tencajoli – L’aquiletta bavara ricordi ed aneddoti – in La donna italiana – Anno II – N. 1 – gennaio 1925)
[3] G. Buttà – Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta – Milano 1985 – pp. 407/8
[4] Ferdinando Russo – ‘O suldato ‘e Gaeta – vv.
[5] G. Ansaldo Intervista alla Regina Maria Sofia, su Corriere della Sera del novembre 1924
[6] G. Papini – Maria Sofia, la Regina di Napoli – ne l’Alfiere n° 4, fasc. 45 – dicembre 2006 – p. 6
[7] A. Petacco – op. cit. – p.198
[8] Idem – p.206
[9] Idem – p. 188
[10] M. Proust – op. cit. – p. 1732