Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799 di Vincenzo Cuoco (seconda edizione) VIII
Amministrazione
Mentre da una parte con tali arti si avviliva e si opprimeva la nazione, dall’altra si ammiseriva col disordine in tutt’i rami di amministrazione pubblica. La nazione napolitana dalla venuta di Carlo terzo incominciava a respirare dai mali incredibili che per due secoli di governo viceregnale avea sofferti. Fu abbassata l’autorità de’ baroni, che prima non lasciava agli abitanti né proprietà reale né personale.
Si resero certe le imposizioni ordinarie con un nuovo catasto, il quale, se non era il migliore che si potesse avere, era però il migliore che fino a quel tempo si fosse avuto, e si abolì l’uso delle imposizioni straordinarie che, sotto il nome di «donativi», avean tolte somme immense alla nazione, passate senza ritorno nella Spagna11. Libera la nazione dalle oppressioni de’ baroni, dalle avanie del fisco, dalla perenne estrazione di denaro, incominciò a sviluppare la sua attività: si vide risorgere l’agricoltura, animarsi il commercio; la sussistenza divenne più agiata, i spiriti più colti, gli animi più dolci. L’esserci noi separati dalla Spagna, e l’essersi la Spagna tolta alla famiglia di Austria e data a quella di Borbone, ed il patto di famiglia avean reso alla nostra nazione quella pace di cui avevamo bisogno per ristorarci dai mali sofferti; e la neutralità, che ci fu permessa di serbare nell’ultima guerra tra la Spagna, la Francia e l’Inghilterra per le colonie americane, prodotto avea nella nostra nazione un aumento considerabile di ricchezze. In cinquant’anni avevamo fatti progressi rapidissimi, e vi era ragione di sperare di doverne fare anche di più.
La nostra nazione passava, per così dire, dalla fanciullezza alla sua gioventù. Ma questo stato di adolescenza politica è appunto lo stato più pericoloso e quello da cui più facilmente si ricade nel languore e nella desolazione. Le nazioni escono dalla barbarie accrescendo le loro forze e rendendo così la sussistenza sicura: non passano alla coltura se non accrescendo i loro bisogni. Ma i bisogni si sviluppano più rapidamente delle forze, tra perché essi dipendono dalle sole nostre idee, tra perché le altre nazioni, senza comunicarci le loro forze, ci comunicano volontieri le idee, i loro costumi, gli ordini ed i vizi loro, il che per noi diventa sorgente di nuovi bisogni; e, se allora, crescendo questi, non si pensa anche ad accrescer le nostre forze, noi non avremo mai quell’equilibrio di forze e di bisogni, nel che solo consiste la sanità degl’individui e la prosperità delle nazioni: i passi che faremo verso la coltura non faranno che renderci servi degli stranieri, ed una coltura precoce e sterile diventerà per noi più nociva della barbarie. Uno Stato che non fa tutto ciò che può fare è ammalato. Tale era lo stato di tutta l’Italia; e questo stato era più pericoloso per Napoli, perché più risorse avea dalla natura e più estesa era la sfera della sua attività.
Ma il governo di Napoli avea perduto gran parte delle sue forze, sopprimendo lo sviluppo delle facoltà individuali coll’avvilimento dello spirito pubblico: tutto rimaneva a fare al governo, ed il governo non sapea far nulla, né potea far tutto.
Le nazioni ancora barbare amano di essere sgravate dai tributi, perché non hanno desidèri superflui; le nazioni colte si contentano di pagar molto, purché quest’aumento di tributo accresca la forza e migliori la sussistenza nazionale. Il segreto di una buona amministrazione è di far crescere la riproduzione in proporzione dell’esazione: non è tanto la somma de’ tributi, quanto l’uso de’ medesimi per rapporto alla nazione, quello che determina lo stato delle sue finanze12.
Un governo savio ed attivo avrebbe corretti gli antichi abusi di amministrazione, avrebbe sviluppata l’energia nazionale, ci avrebbe esentati dai vettigali che pagavamo agli esteri per le loro manifatture, avrebbe protette le nostre arti, migliorate le nostre produzioni, esteso il nostro commercio: il governo sarebbe divenuto più ricco e più potente, e la nazione più felice. Questo era appunto quello che la nazione bramava13. L’epoca in cui giunse Acton era l’epoca degli utili progetti: qual «progettista» egli si spacciò e qual «progettista» fu accolto; ma i suoi progetti, ineseguibili o non eseguiti o eseguiti male, divennero cagioni di nuove ruine, perché cagioni di nuove inutili spese.
Acton ci voleva dare una marina. La natura avea formata la nazione per la marina, ma non aveva formato Acton per la nazione. La marina dovea prima di tutto proteggere quel commercio che allora avevamo, il quale, essendo di derrate e quasi tutte privative del Regno, o poca o niuna gelosia dar potea alle altre nazioni, le quali per lo più un commercio aveano di manifatture. I nostri nemici erano i barbareschi, contro i quali non valeva tanto la marina grande quanto la piccola marina corsara, che Acton distrusse14. La marina armata dovea crescere in proporzione della marina mercantile e del commercio, senza di cui la marina guerriera è inutile e non si può sostenere. Acton, invece di estendere il nostro commercio, lo restrinse coi suoi errori diplomatici, col suo genio dispotico, colla sua mala fede, colla viltà con cui sposò gl’interessi degli stranieri in pregiudizio de’ nostri. Acton non conosceva né la nazione né le cose. Voleva la marina, ed intanto non avevamo porti, senza de’ quali non vi è marina: non seppe nemmeno riattare quei di Baia e di Brindisi, che la natura istessa avea formati, che un tempo erano stati celebri e che poteano divenirlo di nuovo con piccolissima spesa, se, invece di seguire il piano delle creature di Acton, si, fosse seguìto il piano dei romani, che era quello della natura.
La marina, come Acton l’avea immaginata, era un gigante coi piedi di creta. Era troppo piccola per farci del bene, troppo grande per farci del male: eccitava la rivalità delle grandi potenze, senza darci la forza necessaria, non dico per vincere, ma almeno per poter resistere. Senza marina, saremmo rimasti in una pace profonda: con una marina grande, avremmo potuto vincere; ma, con una marina piccola, dovevamo, o presto o tardi, siccome poi è avvenuto, esser trascinati nel vortice delle grandi potenze, soffrendo tutt’i mali della guerra, senza poter mai sperare i vantaggi della vittoria.
Lo stesso piano Acton seguì nella riforma delle truppe di terra. Carlo terzo ne avea fissato il numero a circa trentamila uomini; ma, come sempre suole avvenire nei piccoli Stati, i quali godono lunghissima pace, gli ordini di guerra si erano rilasciati, e di truppe effettive non esistevano più di quindicimila uomini. Noi mancavamo assolutamente di artiglieria. Questa fu organizzata in modo da non lasciarci nulla da invidiare agli esteri. Ma il numero delle altre truppe fu accresciuto solo in apparenza, per ricoprire un’alta malversazione ed una profusione la quale non avea né leggi né limiti. Acton più degli altri ministri vi si era prestato; e questa non fu l’ultima delle ragioni per cui meritò tanta protezione sì potente e sì lunga.
Dalla morte di Iaci15 incominciarono le riforme di abiti e di tattica. Veniva ogni anno dalla Spagna, dalla Francia, dalla Germania, dalla Svizzera un nuovo generale, il quale ora rialzava di due pollici il cappello, ora raccorciava di due dita l’uniforme, ora… Il soldato fremeva, vedendosi sottoposto a tante novità, che un anno dopo sapeva doversi dichiarare inutili16.
Questi generali conducevan sempre seco loro degli stranieri, i quali occupavano i primi gradi della truppa. Gli altri erano accordati agli allievi del collegio militare, dove la gioventù era invero bene istruita nelle cognizioni militari, ma non acquistava certamente né quel coraggio né quella sofferenza delle fatiche, che si acquista solo coll’età e coi lunghi servigi. Il genio e le cognizioni debbono formare i generali: ma il coraggio e l’amor della fatica formano gli uffiziali. Il gran principio: che in tempo di pace l’anzianità debba esser la norma delle promozioni, non era confacente al genio di Acton, il quale, quando non avesse avuto il dispotismo nel cuore, l’avea nella testa. Si videro vecchi capitani, abbandonati alla loro miseria, dover ubbidire a giovanetti inesperti e deboli, i quali non sapevano altro che la teoria, ed a molti altri (poiché, tolta una volta la norma sensibile del giusto, si apre il campo al favore ed all’intrigo), i quali non sapevano neanche la teoria, ma che, a forza di danaro, di spionaggio e di qualche titolo anche più infame dello spionaggio, erano stati elevati a quel grado. I gradi, che non si potevano occupare da costoro, rimasero vuoti, e si videro de’ reggimenti interi mancare della metà degli officiali, mentre coloro che dovevan esser promossi domandavano invano il premio delle loro fatiche. Acton rispondeva a costoro che «aspettassero la pubblicazione del loro piano»; piano ammirabile, che costò ad Acton venti anni di meditazione e che, senza esser mai stato pubblicato, ha disorganizzata la truppa, disgustata la nazione, dissipato l’erario dello Stato!
Tutto nel regno di Napoli era malversazione o progetti chimerici più nocivi della malversazione; ed intanto ciò che era necessario non si faceva. Noi avevamo bisogno di strade: il marchese della Sambuca ne vide la necessità, fu posta una imposizione di circa trecentomila ducati all’anno: l’opera fu incominciata, se ne fecero taluni spezzoni; ma poco di poi l’opera fu sospesa e la contribuzione convertita ad un altro uso. Province intere chiesero il permesso di costruirsi le strade a loro spese, promettendo intanto di continuare a pagare alla corte, sebbene già convertita ad altro uso, l’imposizione che era addetta alle strade; promettendo pagarla per sempre, ancorché, quando s’impose, si fosse promesso di dover finire colla costruzione delle strade. Si crederebbe che questo progetto fosse stato rifiutato? Si può immaginare nazione più ragionevole e più buona e ministero più stolidamente scellerato? Vi erano nel regno di Napoli alcuni errori nelle massime ed alcuni vizi nell’organizzazione, i quali impedivano i progressi della pubblica felicità. Avean data origine ai medesimi altri tempi ed altre circostanze: le circostanze e i tempi eransi cangiati, ma gli errori ed i vizi sussistevano ancora.
Simile a tutt’i governi i quali hanno un impero superiore alle proprie forze, il governo di Spagna, ne’ tempi della dinastia austriaca, avea procurato di distruggere ciò che non poteva conservare. Si era estinto ogni valor militare. A contenere una nobiltà generosa e potente, il primo de’ viceré spagnuoli, Pietro di Toledo, credette opportuno invilupparla tra i lacci di una giurisprudenza cavillosa la quale, nel tempo istesso che offriva facili ed abbondanti ricchezze a coloro che non ne avevano, spogliava quegli che ne abbondavano e moltiplicava oltre il dovere una classe di persone pericolose in ogni Stato, perché potevano divenir ricche senza esser industriose o, ciò che val lo stesso, senza che la loro industria producesse nulla. Tutti gli affari del Regno si discussero nel fòro, e nel fòro si disputò sopra tutti gli affari. Derivaron da ciò molti mali. Tutto ciò che non era materia di disputa forense fu trascurato: agricoltura, arti, commercio, scienze utili, tutto ciò fu considerato piuttosto come oggetto di sterile o voluttuosa curiosità che come studi utili alla prosperità pubblica e privata. Si è letto per qualche secolo sulla porta delle nostre scuole un distico latino, nel quale la goffaggine dello stile eguagliava la stoltezza del pensiero, e che diceva: «Galeno dà le ricchezze, Giustiniano dà gli onori; tutti gli altri non dànno che paglia». E, se mai taluno, ad onta della mancanza di istruzione, concepiva qualche idea di pubblica utilità, non poteva eseguirla senza prima soggettarsi ad un esame, il quale, perché fatto innanzi a giudici e con tutte le formole giudiziarie, diventava litigio. Si voleva fare un ponte? si dovea litigare. Si voleva fare una strada? si dovea litigare. Ciascuno del popolo ha in Napoli il diritto di opporsi al bene che voi volete fare.
Carlo terzo fece grandissimi beni al Regno: egli riordinò l’amministrazione della giustizia, tolse gli abusi della giurisdizione ecclesiastica, frenò quelli della feudale, protesse le arti e l’industria; e più bene avrebbe fatto, se il suo regno fosse stato più lungo e se molti de’ ministri, che lo servivano, non avessero ancora seguite in gran parte le massime dell’antica politica spagnuola. Tanucci, per esempio, il di lui amico, quello tra’ suoi ministri a cui più deve il Regno, errava credendo che il regno di Napoli non dovesse esser mai un regno militare. È nota la risposta che egli soleva dare a chiunque gli parlava di guerra: – Principoni, armate e cannoni; principini, ville e casini. – La sua massima era falsa, perché né il re di Napoli poteva chiamarsi «principino», né i principini sono dispensati della cura della propria difesa. Tanucci, più diplomatico che militare, confidava più ne’ trattati che nella propria forza; ignorava che la sola forza è quella che fa ottener vantaggiosi trattati; ignorava la forza del Regno che amministrava ed, invece di un’esistenza propria e sicura, gliene dava una dipendente dall’arbitrio altrui ed incerta.
Continuò Tanucci a confondere il potere amministrativo ed il giudiziario, ed il fòro continuò ad esser il centro di tutti gli affari. Il potere giudiziario tende, per sua intrinseca natura, a conservar le cose nello stato nel quale si trovano; l’amministrativo tende a sempre cangiarle, perché tende sempre a migliorarle: il primo pronunzia sempre sentenze irrevocabili; il secondo non fa che tentativi, i quali si possono e talora si debbono cangiare ogni giorno. Se questi due poteri, per loro natura tanto diversi, li riunite, corrompete l’uno e l’altro.
Tutto in Napoli si dovea fare dai giudici e per vie giudiziarie; e da questo ne veniva che tutte le operazioni amministrative eran lente e riuscivan male. Il governo era tanto lontano dalle vere idee di amministrazione, che i vari oggetti della medesima o non erano affidati a nessuno o erano commessi agli stessi giudici; quindi l’utile amministrazione o non avea chi la promovesse o era promossa languidissimamente da coloro che avean tante altre cose da fare.
L’altro difetto, che vi era nell’organizzazione del governo di Napoli, era la mancanza di un centro comune, al quale, come tanti raggi, andassero a finir tutti i rami dell’amministrazione. Questo centro avrebbe dovuto essere il Consiglio di Stato. Ma Consiglio di Stato in Napoli non vi era se non di nome. Ciascun ministro era indipendente. I regolamenti generali, i quali avrebbero dovuto essere il risultato della deliberazione comune di tutt’i ministri, ciascun ministro li faceva da sé: in conseguenza, ciascun ministro li faceva a suo modo; i regolamenti di un ministro eran contrari a quelli di un altro, perché la principal cura di ogni ministro era sempre quella di usurpar quanto più poteva l’autorità de’ suoi colleghi e distruggere le operazioni del suo antecessore. Così non vi era nelle operazioni del governo né unità né costanza: il ministro della guerra distruggeva ciò che faceva il ministro delle finanze, e quello delle finanze distruggeva ciò che faceva il ministro della guerra. Tra tanti ministri eravi sempre (e questo era inevitabile) uno più innanzi di tutti gli altri nel favor del sovrano, e questo ministro era quegli che dava, come suol dirsi, il «tono» ed il «carattere» a tutti gli affari; tono e carattere che un momento di poi cangiava, perché cangiava il favore. Né valeva, ad assicurar la durata di un regolamento o di una legge, la ragionevolezza della medesima. Vi fu mai legge più giusta di quella che obbligava i giudici a ragionar le loro sentenze, onde esse fossero veramente sentenze e non capricci? Tanucci avea imposta questa obbligazione ai giudici: Simonetti ne li sciolse. Si può credere che Simonetti pensasse di buona fede che i giudici non fossero obbligati a ragionare e ad ubbidire alla legge? Simonetti dunque tradì la sua propria coscienza, tradì il re, perché la legge, che egli abolì, non era opera sua, ma bensì di Tanucci.
Gli esempi di simili cose sarebbero infiniti di numero, ma io mi son limitato a questo solo, perché, siccome esso urta evidentemente il senso comune, basta a dimostrare che i difetti di organizzazione de’ quali parliamo erano spinti tanto innanzi, da non rispettar più neanche il senso comune. Si aggiunga a ciò che tutt’i ministri erano ministri di giustizia, imperciocché l’amministrazione della giustizia non era ordinata in modo che seguisse la natura delle cose o delle azioni, ma seguiva ancora, come avveniva presso i barbari del Settentrione, nostri antenati, la natura delle persone: la giustizia era diversa pel militare, pel prete, per l’uomo che possedeva una greggia, per l’uomo che non ne possedeva, ecc. ecc. Si eran moltiplicate in Napoli le corti giudicatrici più che non furono moltiplicati in Roma gl’iddii ai tempi di Cicerone, per cui questo grand’uomo si doleva di non potersi fare un passo senza timore di urtare qualche divinità; e, nel contrasto continuo tra tanti tribunali, spesso era ben difficile sapere da qual di essi uno dovesse esser giudicato. Io ho degli esempi di «quistioni di tribunale», le quali han durato diciotto anni.
Nuovi disordini, e maggiori. In una monarchia, quello che nella giurisprudenza romana chiamavasi «rescritto del principe» deve avere vigore di legge; ma i principi saggi fanno pochissimi rescritti e non mai per altro che per alcuni casi particolari, onde è che in tutte le monarchie trovasi, per legge quasi fondamentale dello Stato, stabilito che il rescritto non debba mai trasportarsi da un caso all’altro. Nel regno di Napoli i rescritti eransi moltiplicati all’infinito: ciascun ministro ne faceva, e ciascun ministro faceva rescritti invece di leggi. Come sempre suole avvenire, i rescritti eran l’opera de’ commessi, e vi è stato tra essi taluno il quale per molti anni è stato il vero, il solo legislatore di tutto il Regno.
Io mi trattengo molto sopra queste che sembran picciole cose, perché da esse dipendono le grandi. Cambiate le prime, ed imaginate che Tanucci avesse compresa tutta la potenza del Regno e vi avesse stabiliti ordini ed educazione militare; che il potere amministrativo fosse stato diviso dal giudiziario, e divenuto quello più attivo, questo più regolare; che tutte le parti dell’amministrazione avessero avuto un centro comune, un Consiglio permanente, alla testa del quale fosse stato il re; e che i ministri, non più indipendenti l’uno dall’altro e tutti rivali, fossero stati costretti ad operare dietro un piano uniforme e costante; imaginate, insomma, che il re, invece di lasciar preponderare or questo or quell’altro ministro, avesse voluto esser veramente re; e tutto allora sarebbe cambiato. Imperciocché io son persuaso che, nello stato presente delle idee e de’ costumi dell’Europa, rarissimo e forse impossibile a trovarsi sia un re il quale non voglia il bene del suo regno: ma questo bene non si fa produrre, perché deve farsi dai ministri, i quali amano più il posto che il regno e più la persona propria che il posto. È necessità dunque costringerveli colla forza degli ordini pubblici, il vero fine de’ quali, per chi intende, non è altro che garantire il re contro la negligenza e la mala volontà de’ ministri. Con picciolissime riforme voi producete un grandissimo bene, e tutte le riforme di uno Stato tendono ad un sol fine, cioè che il re sia veramente re. Ma, per questa ragione, a tali riforme i ministri si oppongono sempre; onde poi i mali diventano maggiori, ed inevitabili quelle grandissime crisi, per le quali spesso s’immolano dieci generazioni per rendere forse felice l’undecima. Verità funesta e per i principi e per i popoli! Le rovine di quelli e di questi per l’ordinario sono l’effetto de’ ministri e di coloro che si millantano amici dei re17.
11 Montesquieu dice che la Spagna conservò l’Italia arricchendola. Troppo inesatti doveano essere gli autori che Montesquieu consultò sulla nostra storia.
12 Questa verità non seppe conoscer Necker, allorché fece il paragone tra le finanze di Francia e quelle d’Inghilterra. Gl’inglesi pagavano più de’ francesi, ma la loro nazione accresceva le sue ricchezze, e la Francia, per le sue circostanze politiche, non potea crescer dippiù. I tributi erano utili in Inghilterra, dannosi in Francia. La Francia avea compito il suo corso politico, era nella sua decrepitezza; donde, se non sorge un nuovo ordine di cose, non resta che un passo alla morte. Necker infatti non seppe trovar rimedio al male. L’esperienza mostrò la fallacia delle sue teorie. «Se l’Inghilterra regge, molto più facilmente – diceva egli – potrà regger la Francia». Intanto la Francia fallì e l’Inghilterra regge ancora.
13 Chi potrebbe determinare il grado di felicità e di potenza, a cui da un governo savio potrebbe esser condotta la nazione napolitana? Io penso che, senza esser visionario, si possa creder possibile anche più di quello che si auguravano Broggia, Genovesi e Palmieri. Ma questa nazione ha la disgrazia di essere stata vilipesa, perché non conosciuta: i spagnuoli la conoscevano e la temevano; solo Federico secondo imperatore la conoscevo e l’amava. Ma i bei giorni di Federico non furono per noi che un lampo, cui successe una notte più tempestosa.
14 Forse il più efficace metodo contro i barbareschi era quello che presero gli inglesi sotto Carlo secondo, cioè di costruire tutt’i legni mercantili in modo da poter essere armati di dieci cannoni, ed affidare così la difesa della proprietà agli stessi proprietari. I nostri proprietari di legni mercantili mille volte ne han chiesto il permesso: mille volte è stato loro negato. Essi aveano del coraggio e della buona volontà, ma Acton voleva che non ne avessero.
15 Era il generalissimo di Carlo terzo e lo fu fino alla morte, anche sotto il regno di Ferdinando. Godeva molta autorità e sapeva usarne; finché visse, si oppose ad Acton.
16 Il soldato prima aveva la speranza di esser premiato, poiché i bassi ufficiali avevano diritto a una promozione regolare. Acton, invece di obbligar tutti ad esser bassi ufficiali, tolse a costoro ogni speranza di promozione. Il sergente doveva morir sergente, e fu obbligato a servire venti anni. Questo era lo stesso che non voler più né sergenti onorati né soldati valorosi.
17 Vedi BONNET, Art de rendre les révolutions utiles, libro pieno di buon senso.