Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799 di Vincenzo Cuoco (seconda edizione) XLIII
Richiamo de’ Francesi
Ma eccoci alfine ai giorni infelici della nostra repubblica: i mali da tanto tempo trascurati, ormai ingigantiti, ci soverchiano e minacciano di opprimerci. Le Calabrie si erano interamente perdute, e gl’insorgenti delle Calabrie comunicavano di già cogl’insorgenti di Salerno e di Cetara e si stendevano fino a Castellamare. Questa stessa città fu occupata dagl’inglesi, e si vide la bandiera dei superbi britanni sventolar vincitrice in faccia della stessa capitale.
I francesi ripresero Castellamare e Salerno; Cetara fu distrutta. Ma, pochi giorni dopo, i francesi furon costretti ad abbandonare il territorio napolitano, richiamati nell’Italia superiore; e, sebbene tentassero colorire con pomposi proclami la loro ritirata, gl’insorgenti ben ne compresero il motivo e ne trassero audacia maggiore. Salerno fu di nuovo occupata: a Castellamare s’inviò da Napoli una forte guarnigione, la quale però fu ridotta a dover difendere la sola città, quasi assediata dalle insorgenze che la circondavano.
Magdonald, partendo, lasciò una guarnigione di settecento uomini in Sant’Elmo; circa duemila rimasero a difender Capua, e quasi altri settecento in Gaeta. Egli avea promesso lasciar una forte colonna mobile; ma questa poi in effetti altro non fu che una debole colonna di quattrocento uomini, i quali, distaccati dalla guernigione di Capua, venivano a Sant’Elmo, donde altri quattrocento uomini partivano alternativamente per Capua.
Questa forza sarebbe stata superflua presso di noi, se da principio ci fosse stato permesso di organizzar la forza nazionale. Poiché il far questo ci era stato tolto, la forza rimasta era insufficiente.
I rovesci d’Italia mostravano già lo stato di languore, in cui la rilassatezza del governo direttoriale avea gittata la Francia. La Francia diminuiva di forze in proporzione che cresceva di volume; le nuove repubbliche organizzate in Italia, che avrebbero dovuto essere le sue alleate, furono le sue province; invece di esserne amati, i francesi ne furono odiati, perché essi, invece di amarle, le temettero.
I romani, di cui i francesi volevano esser imitatori, ritraevano forza dagli alleati. Gli spagnuoli tennero una condotta diversa, ed avvilirono quelle nazioni che doveano esser loro amiche. Ma ciò che potea ben riuscire per qualche tempo agli spagnuoli, per lo stato in cui allora si ritrovava l’Europa, non poteva riuscire al Direttorio, che avea da per tutto governi regolari e potenti ai loro confini.
Quando, in séguito di una conquista, si vuole organizzare una repubblica, l’operazione è sempre più difficile che quando conquista un re. Un re deve avvezzare i popoli ad ubbidire, perché egli non deve far altro che schiavi; un conquistatore, che far voglia dei cittadini, deve avvezzarli ad ubbidire e a comandare. Ma non si avvezzano i popoli a comandare senza dar loro l’indipendenza, la quale richiede un sacrifizio, per lo più doloroso, di autorità per parte di colui che conquista. E quindi è che quasi sempre vana riesce la libertà che si riceve in dono dagli altri popoli, perché, non essendovi chi sappia comandare, non vi sarà nemmeno chi sappia ubbidire, ed, invece di saggi ordini di governo, non si hanno che le volontà momentanee di coloro che comandano la forza straniera; volontà che sono tanto più ruinose quanto il comando è più vacillante e poco o nulla vale a prolungarlo il merito della buona condotta. La libertà invidia e la legge toglie gl’impieghi anche agli ottimi.
Questi cangiamenti ne produssero degli altri ugualmente rapidi nel governo delle nuove repubbliche. Quasi ogni mese si cangiavano i governanti nella repubblica romana. Come sperare quella stabilità di princìpi, quella costanza di operazioni, che solo può rendere le repubbliche ferme e vigorose?
Talora, oltre dei governanti, si violentava anche la costituzione; e quello stesso Direttorio, che avea violata la costituzione francese, rovesciò anche la cisalpina. Si trovarono delle anime eroiche, che seppero resistere agl’intrighi ed alla forza, e preferirono la libertà del loro giuramento al favore del conquistatore. In Napoli, quando si temeva che le idee del Direttorio potessero non esser quelle dell’indipendenza e felicità della nazione, tutt’i governanti giurarono di deporre la carica. Non vi fu uno che esitò un momento. Ma possiamo noi contare sopra un popolo di eroi? Il maggior numero è sempre debole; ed il popolo intero come può amar una costituzione che non si abbia scelta da se stesso e che non possa conservare né distruggere se non per volere altrui?
Si aggiunga a ciò che il principio fondamentale delle repubbliche, che è il rispetto e l’amore pe’ suoi cittadini, mentre rende un governo repubblicano attentissimo ad ogni ingiustizia che si commetta tra’ suoi, lo rende negligente sulla sorte degli esteri: un proconsolo era giudicato in Roma da coloro che erano suoi eguali e che temevano più di lui che delle province desolate. Le repubbliche italiane segnavano l’età con sempre nuovo languore invece di rassettarsi cogli anni, quanto più vivevano più si accostavano alla morte; e le altre repubbliche d’Italia, dopo quattro anni di libertà, si trovarono tanto deboli quanto la nostra lo era al principio della sua politica rivoluzione.
Se i francesi avessero permesso alla repubblica cisalpina di organizzare una forza regolare, se lo avessero permesso alla repubblica romana, avrebbero potuto più lungo tempo contrastare in Italia contro le forze austro-russe: se non impedivano l’organizzazione delle forze napolitane, queste avrebbero assicurata la vittoria al partito repubblicano. Ma il voler difendere la repubblica cisalpina, la romana, la napolitana colle sole proprie forze; il voler temere egualmente il nemico e gli amici, era la massima di un governo che vuol crescer il numero dei soggetti senza aumentar la forza55.
Si parla tanto del tradimento di Scherer: Scherer tradì il governo, ma la condotta di quel governo avea di già tradita una gran nazione.
La rivoluzione di Napoli potea solo assicurar l’indipendenza d’Italia, e l’indipendenza d’Italia potea solo assicurar la Francia. L’equilibrio tanto vantato di Europa non può esser affidato se non all’indipendenza italiana; a quell’indipendenza, che tutte le potenze, quando seguissero più il loro vero interesse che il loro capriccio, dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa riflettere converrà meco che, nella gran lotta politica che oggi agita l’Europa, quello dei due partiti rimarrà vincitore che più sinceramente favorirà l’indipendenza italiana56.
Il destino avea finalmente fatto pervenire i momenti; ma il governo che allora avea la Francia non fu buono per eseguire gli ordini del destino, ed i prodirettoriali governi d’Italia non seppero comprenderne le intenzioni.
Dura necessità ci costrinse a trascurare tutti gli esterni rapporti che avrebbero potuto salvar la nostra esistenza politica. Noi ignoravamo ciò che si faceva nel rimanente dell’Europa, e l’Europa non sapeva la nostra rivoluzione se non per bocca dei nostri nemici. Dalla stessa Cisalpina, dalla stessa armata francese non avevamo che gazzette o rapporti più frivoli di una gazzetta e più mendaci. I generali francesi ci scrivean sempre vittorie, perché questo loro imponeva la ragion della guerra: ma il nostro interesse era di saper anche le disfatte; e l’ignoranza in cui rimase il governo e le false lusinghe che gli furon date di prossimo soccorso accelerarono la perdita, se non della repubblica, almeno dei repubblicani. Napoli avrebbe potuto salvar l’Italia; ma l’Italia cadde, ed involse anche Napoli nella sua ruina.
55 La più chiara prova che abbia dato il primo console di amar sinceramente la libertà d’Italia è stata quella di aver concesso alla Cisalpina il corpo de’ polacchi. Chi legge con attenzione questo paragrafo e tutta l’opera, vedrà come gli avvenimenti stessi giustificano il nuovo ordine di cose, desiderato tanto dalla giustizia e dall’umanità.
56 Se io dovessi parlare al governo francese per l’Italia, gli direi liberamente che o convien liberarla tutta o non toccarla. Formandone un solo governo, la Francia acquisterebbe una potentissima alleata; democratizzandone una sola parte, siccome questa piccola parte né potrebbe sperar pace dalle altre potenze né potrebbe difendersi da se sola, così o dovrebbe perire abbandonata dalla Francia o dovrebbe costare alla Francia una continua inutile guerra. Questa è la ragione per cui Luigi decimoprimo, ad onta della sua ambizione, allorché Genova si offerì a lui, le rispose che «si dasse al diavolo». Questa è la ragione per cui si è detto che gli stabilimenti in Italia non giovavano alla Francia: duecento anni di guerra distruttiva le ha costato il possesso del Milanese. Allora i sovrani di Francia non avean comprese due verità, la prima delle quali è che l’Italia è più utile alla Francia amica che serva, e quindi è meglio renderla libera che provincia. Questa verità si è compresa da qualche anno, sebbene il Direttorio si conduceva come se non l’avesse compresa ancora o non volesse comprenderla, e solo dal nuovo più giusto ordine di cose si può sperare l’utile effetto di questa verità. La seconda è che l’Italia non dev’esser divisa, ma riunita: e la riunione dell’Italia dipende dalla libertà di Napoli; paese che la Francia non potrà giammai conservare e che ha tante risorse in sé, che solo potrebbe disturbar tutta la tranquillità italiana, quando non sia in mano di un governo umano ed amico della libertà. È l’esperienza di tutt’i secoli, la quale ci mostra che i conquistatori dell’Alta Italia han per lo più rotto alle sponde del Garigliano; e la filosofia spiega la ragione di tali avvenimenti