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Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799 di Vincenzo Cuoco (seconda edizione) XV

Posted by on Ott 15, 2021

Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799 di Vincenzo Cuoco (seconda edizione) XV

Perché Napoli dopo la fuga del re non si organizzò a repubblica?

Il re era partito, il popolo non lo desiderava più. Egli avea spinto fino al furore l’amor d’indipendenza nazionale, che altri credeva attaccamento all’antica schiavitù. Quando il popolo napolitano spedì la deputazione a Championnet, non volle dir altro che questo: – La repubblica francese avea guerra col re di Napoli, ed ecco che il re è partito; la nazione francese non avea guerra colla nazione napolitana, ed intanto perché mai i soldati francesi voglion vincere coloro che offrono volontari la loro amicizia? – Questo linguaggio era saggio, ed i napolitani, senza saperne il nome, erano meno di quel che si crede lontani dalla repubblica.

Ma, siccome in ogni operazione umana vi si richiede la forza e l’idea, così per produrre una rivoluzione è necessario il numero e sono necessari i conduttori, i quali presentino al popolo quelle idee, che egli talora travede quasi per istinto, che molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado sa da se stesso formarsi. Più facili sono le rivoluzioni in un popolo che da poco abbia perduta una forma di governo, perché allora le idee del popolo son tratte facilmente dall’abolito governo, di cui tuttavia fresca conserva la memoria. Perciò «ogni rivoluzione – al dir di Macchiavelli – lascia l’addentellato per un’altra». Quanto più lunga è stata l’oppressione da cui si risorge, quanto maggiore è la diversità tra la forma del governo distrutto e quella che si vuole stabilire, tanto più incerte, più instabili sono le idee del popolo, e tanto più difficile è ridurlo all’uniformità, onde avere e concerto ed effetto nelle sue operazioni. Questa è la ragione per cui e più sollecito e più felice fine hanno avuto le rivoluzioni di quei popoli, ne’ quali o vi era ancor fresca memoria di governo migliore, o i rivoluzionari attaccati si sono ad alcuni dritti (come la Gran carta, che è stata la bussola di tutte le rivoluzioni inglesi) o a talune magistrature e taluni usi (come fecero gli olandesi), che essi aveano conservati quasi a fronte del dispotismo usurpatore.

Le idee della rivoluzione di Napoli avrebbero potuto esser popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte da una costituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanissime da’ sensi, e, quel ch’è più, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt’i capricci e talora tutt’i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da’ nostri capricci, dagli usi nostri. Le contrarietà ed i dispareri si moltiplicavano in ragione del numero delle cose superflue, che non doveano entrar nel piano dell’operazione, e che intanto vi entrarono.

Quanto maggiore è questa varietà, tanto maggiore è la difficoltà di riunire il popolo e tanto maggior forza ci vuole per vincerla. Se le idee fossero uniformi, potrebbero tutti agire senza concerto, perché tutti agirebbero concordemente alle loro idee; ma, quando sono difformi, è necessario che agisca uno solo. Di rado avviene che una rivoluzione si possa condurre a fine se non da una persona sola: la stessa libertà non si può fondare che per mezzo del dispotismo. Il popolo ondeggia lungo tempo in partiti: diresti quasi che la nazione vada a distruggersi, ne vedi già scorrere il sangue; finché una persona si eleva, acquista dell’ascendente sul popolo, fissa le idee, ne riunisce le forze: col tempo, o costui forma la felicità della patria o, se vuole opprimerla, talora ne rimane oppresso. Ma egli ha già indicata la strada, ed allora il popolo può agire da sé.

Quest’uomo non si trova se non dopo replicati infelici esperimenti, dopo lungo ondeggiar di vicende, quando i suoi fatti medesimi lo abbiano svelato: le guerre civili mettono ciascuno nel posto che gli conviene. Se taluno si voglia far conoscere e seguire dal popolo ne’ primi moti di una rivoluzione, a meno che la rivoluzione sia religiosa, non basta che abbia egli gran mente e gran cuore: convien che abbia gran nome; e questo nome ben spesso si ha per tutt’altro che pel merito.

Il modo più certo e più efficace per guadagnar la pubblica opinione è una regolarità di giurisdizione, che taluno ancora conservi nel passar dagli ordini antichi ai nuovi. La Città era nelle circostanze di poter farsi seguire da tutto il popolo; dopo la Città, poteva Moliterni: ma né Moliterni ebbe idea di far nulla, né la Città, ondeggiando tra tante idee, quasi tutte chimeriche, seppe determinarsi a quelle che il tempo richiedeva.

Parve che in Napoli niuno si fosse preparato a questo avvenimento; e, quando si videro in mezzo al vortice, tutti si abbandonarono in balìa delle onde. Non è molto onorevole a dirsi per lo genere umano, ma pure è vero: quasi tutte le nazioni, nelle loro crisi politiche, allora sono giunte più facilmente al loro termine quando si è trovato tra loro un uomo profondamente ambizioso, il quale, prevedendo da lontano gli avvenimenti, vi si sia preparato e, riunendo tutte le forze a proprio vantaggio, abbia prodotto poi il vantaggio della nazione: poiché, o è stato saggio e virtuoso, ed ha fondata la sua grandezza sulla felicità della patria; o è stato uno stolto, uno scellerato, ed è caduto vittima de’ suoi progetti. Ma allora, lo ripeto, egli avea già insegnata la strada.

In Napoli Pignatelli, viceré, non ebbe neanche il pensiero di far nulla; la Città non seppe risolversi; Moliterni non ardì; niun altro si mostrò; tra’ repubblicani molti, che menavan più rumore, erano più francesi27 che repubblicani, ed ai veri repubblicani allora una folla infinita si era rimescolata di mercatanti di rivoluzione, che desideravano per calcolo un cangiamento. Era già passato il primo momento: troppo innanzi era trascorso il popolo; gli stessi saggi disperavano di poterlo più frenare, gli stessi buoni desideravano una forza esterna che lo contenesse.

Forse i francesi istessi eran già troppo vicini. Quell’operazione che avrebbe potuto riuscire a’ 25 di dicembre, allorché la Città la fece da re, facendo aprir di suo ordine le cacce del sovrano già partito, difficilmente potea eseguirsi allorché i francesi erano a Capua. Per quanto disinteressata fosse stata la Città nelle sue operazioni e lontana dalle sue idee di oligarchia, volendo però formar la felicità della nazione, non potea né dovea allontanarsi dalle idee nazionali; e troppo queste idee sarebbero state lontane dall’idee di molti altri. Ora i più leggeri dispareri si conciliano con difficoltà, quando vi sia una forza esterna pronta a sostenere un partito. I partiti non cedono se non per diseguaglianza di forza o per vicendevole stanchezza di combattere: molte offese si tollerano e, tollerando, molti mali si evitano, sol perché non possiamo sul momento farne vendetta; e la concordia tra gli uomini è meno effetto di saviezza che di necessità. Le potenze estere, pronte in tutt’i tempi a prender parte, prima nelle gare tra fazione e fazione di una medesima città, indi nelle dispute tra uno Stato e l’altro, hanno distrutta prima la libertà e poscia l’indipendenza dell’Italia. Niuna nazione più della napolitana ne ha provati gl’infelici effetti. Tra le tante potenze estere che vantavano un titolo su quel regno, ogni gara che sorgeva tra’ cittadini, vi era un estero che vi prendeva parte: talora gli esteri stessi fomentavano le gare; i cittadini, per essere più forti, univano i loro disegni a quelli dell’estero, simili al cavallo che, per vendicarsi del cervo, si donò ad un padrone; e così quel regno è stato per cinque secoli (quanti se ne contano dall’estinzione della dinastia de’ Normanni fino allo stabilimento di quella dei Borboni) l’infelice teatro d’infinite guerre civili, senza che una di esse abbia potuto giammai produrre un bene alla patria.

Io forse non faccio che pascermi di dolci illusioni. Ma, se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi; se la costituzione, diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui bisogni e sugli usi del popolo; se un’autorità, che il popolo credeva legittima e nazionale, invece di parlargli un astruso linguaggio che esso non intendeva, gli avesse procurato de’ beni reali e liberato lo avesse da que’ mali che soffriva; forse allora il popolo, non allarmato all’aspetto di novità contro delle quali avea inteso dir tanto male, vedendo difese le sue idee ed i suoi costumi, senza soffrire il disagio della guerra e delle dilapidazioni che seco porta la guerra; forse… chi sa?… noi non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria desolata degna di una sorte migliore.

27 Per questa espressione non s’intende indicare se non due classi di persone: la prima, di coloro che volevano più un cangiamento che un buon cangiamento; la seconda, di coloro che credevano doversi imitare in tutto la Francia, anche in quello che non poteva e non doveva, per le differenze che vi erano tra le due nazioni, imitarsi. La prima era la classe de’ furbi, la seconda de’ fantastici. Non s’intende al certo parlare di quel ragionevole attaccamento che anche gli uomini dabbene doveano provare per quella nazione trionfatrice, da cui allora dipendeva la felicità della patria. Ma il nobile attaccamento di costoro onorava ambedue le nazioni, mentre il vile o sciocco partegianismo de’ primi era indegno e della nazione liberata e della liberatrice.

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