Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799 di Vincenzo Cuoco (seconda edizione) XXVII
Guardia nazionale
Il nostro governo erasi ridotto a fondar tutte le speranze della patria sulla guardia nazionale. Ma la guardia nazionale dev’essere la forza del popolo, e non mai quella del governo.
Tutto fu ruinato in Francia, quando il governo credette non dover avere altra forza: la Vandea non fu mai ridotta, gli assassini ingombrarono tutte le strade, non vi fu più sicurezza pubblica ed invece della tranquillità si ebbero le sedizioni. Il primo difetto di ogni guardia nazionale è l’esser più atta all’entusiasmo che alla fatica; il secondo è che, quando non difende la nazione intera, quando a buon conto una parte della nazione è armata contro dell’altra, è impossibile evitare che ciascun partito non abbia tra le forze dell’altro dei seguaci, degli amici, i quali impediscano o almeno ritardino le operazioni.
La vera forza della guardia nazionale risulta dall’uniformità dell’opinione: ove non siasi giunto ancora a tale uniformità, convien usare molta scelta nella sua formazione. Non si debbono ammettere se non quelli i quali si presentino per volontario attaccamento alla causa, o che abbiano nella loro educazione princìpi di onestà e nel loro stato civile una cautela di responsabilità. Quei tali che Aristotile direbbe formare in ogni città la classe degli ottimi, se non sono entusiasti, di rado almeno saranno traditori.
Io parlo sempre de’ princìpi di una rivoluzione passiva. Nei primi giorni della nostra repubblica infiniti furono quelli che diedero il loro nome alla milizia nazionale: rispettabili magistrati, onestissimi cittadini, i principali tra i nobili, quanto insomma vi era di meglio nella città, disperando dell’abolito governo, voleva farsi un merito col nuovo. Conveniva ammetterli: si sarebbe ottenuto il doppio intento di compromettere molta gente e di guadagnare l’opinione del popolo: in ogni evento infelice, il libro che conteneva i loro nomi avrebbe forse potuto formar la salute di molti. Ma si volle spinger la parzialità anche nella formazione della guardia nazionale: allora il maggior numero si ritirò, e non si ebbe l’avvertenza neanche di conservare il libro che conteneva i loro nomi.
Si formarono quattro compagnie di patrioti: essi erano tutti entusiasti, tutti bravi. Ma quattro compagnie erano poche. Si dovette ritornare al punto donde si era partito, ed ammettere coloro che si erano esclusi. Ma essi non ritornavano più. Si ordinò che nessuno potesse essere ammesso a cariche civili e militari, se prima non avesse prestato il servizio nella guardia nazionale. Ciò era giusto e dovea bastare. Ma si volle ordinare che tutti si ascrivessero, e nel tempo stesso si ordinò un’imposizione per coloro che volessero essere esentati: dico «volessero», perché i motivi di esenzione erano tali, che ciascuno potea fingerli, ciascuno potea ammetterli, senza timore di poter essere smentito se li fingeva, o rimproverato se gli ammetteva. Che ne avvenne? Coloro che poteano esser mossi dal desiderio delle cariche erano senza dubbio i migliori del paese, ma essi per lo più erano ricchi, e comprarono l’esenzione: furono costretti ad ascriversi coloro che non aveano né patriottismo né onestà né beni, e così la legge fece passar le armi nelle mani dei nostri nemici.
Si volle sforzar la nazione, che solo si dovea invitare. L’imposizione riuscì gravosissima per le province. Il governo era passato da un estremo all’altro: prima non volea nessuno, poi voleva tutti. Era però da riflettersi che questa misura fu presa quando già incominciava a vedersi lo stato intero delle cose volgersi ad inevitabile rovina. Allora, siccome in chi opera non vi è luogo a calcolo, così in chi giudica non deve predominar il sistema. Il governo allora giuocava, come suol dirsi, tutto per tutto. Trista condizione di tempi, nei quali taluno, per non aver potuto far ciò che voleva, è poi costretto a volere ciò che non può! Altre massime, altra direzione nelle prime operazioni avrebbero fatta evitar la necessità di dover fondare tutte le speranze della patria nella guardia nazionale; e forse la patria sarebbesi salvata.
Se la guardia nazionale in Francia erasi sperimentata inutile, in Napoli dovea prevedersi inevitabilmente nociva, perché, essendo la rivoluzione passiva, la massima parte della nazione dovea supporsi almeno indifferente ed inerte. Avendo io osservato le guardie nazionali in molti luoghi delle province, ho sempre trovata più diligente ed energica quella dove o erasi sofferto o temevasi danno dalle insorgenze. L’amor di sé ridestava l’amor della patria. Pure, ad onta di tutto ciò, la guardia nazionale non produsse in noi alcuno sconcerto, e nella capitale fu più numerosa e più attiva di quello che si avrebbe potuto sperare. Insomma, né il governo mancava di rette intenzioni, né il popolo di buona volontà: l’errore era tutto nelle massime e nella prima direzione data agli affari. A misura che ci avviciniamo al termine di questo Saggio, vediamo i mali moltiplicarsi: son come tanti fiumi, e tutti diversi, ma che intanto derivano dalla stessa sorgente; ed il maggior utile, che trar si possa dalla osservazione di questi avvenimenti, io credo che sia appunto quello di vedere quanti generi di mali posson derivare da un solo errore. Gli uomini diventeranno più saggi, quando conosceranno tutte le conseguenze che un picciolo avvenimento può produrre.