Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799 di Vincenzo Cuoco (seconda edizione) XXXII
Spedizione contro gl’insorgenti di Puglia
La nazione napolitana non era più una: il suo territorio si potea dividere in democratico ed insorgente. Ardeva l’insorgenza negli Apruzzi e comunicava con quella di Sora e di Castelforte. Queste insorgenze si doveano in gran parte all’inavvertenza ed al picciol numero dei francesi, i quali, spingendo sempre innanzi le loro conquiste né avendo truppa sufficiente da lasciarne dietro, non pensarono ad organizzarvi un governo. Che vi lasciarono dunque? L’anarchia. Questa non è possibile che duri più di cinque giorni. Che ne dovea avvenire? Dopo qualche giorno, dovea sorgere un ordine di cose, il quale si accostasse più all’antico governo, che i popoli sapeano, piuttosto che al nuovo, che essi ignoravano; e l’idea dei nuovi conquistatori dovea associarsi negli animi loro alla memoria di tutti i mali che avea prodotti l’anarchia.
Il cardinal Ruffo, il quale ai primi giorni di febbraio avea occupata la Calabria dalla parte di Sicilia, spingeva un’altra insorgenza verso il settentrione e veniva a riunirsi alle altre insorgenze in Matera. Il governo troppo tardi avea spedito nelle Calabrie due commissari, tali appunto quali gli abitanti non gli voleano: per che, senza forze, erano stati costretti a fuggire, e fu fortunato chi salvò la vita. Monteleone, ricca e popolata città, ripiena di spirito repubblicano, avea opposta una resistenza ostinata a Ruffo; ma, sola, senza comunicazione, era stata costretta a cedere. E nello stesso modo cedettero tutte le altre popolazioni di Calabria.
Tutte le popolazioni repubblicane delle altre province, isolate, circondate, premute da per tutto dagl’insorgenti, si vedevano minacciate dello stesso destino. Si aggiungeva a ciò che le popolazioni insorgenti saccheggiavano, manomettevano tutto; le popolazioni repubblicane erano virtuose. Ma, quando, per effetto dei partiti, gli scellerati non si possono tenere a freno, essi si dànno a quel partito i di cui princìpi sono più conformi ai loro propri, e forzano, per così dire, gli dèi a non essere per quella causa che approva Catone.
Si vollero distruggere le insorgenze della Puglia e della Calabria come le più pericolose, come le più lontane e le più difficili a vincere, perché le più vicine alla Sicilia. Partirono da Napoli due picciole colonne, una francese, che prese il cammino di Puglia, l’altra di napolitani, comandata da Schipani, che prese quello di Calabria per Salerno. Ma la colonna di Puglia dovea anch’essa per l’Adriatico ed il Ionio passar nella Calabria e riunirsi alla colonna di Schipani.
Il comandante della colonna francese, aiutato dai patrioti e soldati che conduceva Ettore Carafa e dai patrioti di Foggia, distrusse la formidabile insorgenza di Sansevero; indi, spingendosi più oltre, prese Andria e poi Trani, e fu egli che distrusse l’armata dei còrsi nelle vicinanze di Casamassima. Ma egli abusò della sua forza. Prese settemila ducati che trasportava il corriere pubblico, e che avrebbero dovuti esser sagri; e, quando gliene fu chiesto conto, non potette dimostrare che essi erano degl’insorgenti. Il troppo zelo di punir questi forsi lo ingannò! Non seppe distinguere gli amici dagl’inimici, ed, ove si trattava d’imposizioni, la condizione dei primi non fu migliore di quella dei secondi. Bari, in una provincia tutta insorta, avea fatti prodigi per difendersi. Quando egli vi giunse, dovette liberarla da un assedio strettissimo, che sosteneva da quarantacinque giorni: vi entra e, come se fosse una città nemica, le impone una contribuzione di quarantamila ducati. La stessa condotta tenne in Conversano, cui, ad onta di esser stata assediata dagl’insorgenti, impose la contribuzione di ottomila ducati. Nella provincia di Bari non vi restò un paio di fibbie d’argento. Tutto fu dato per pagar le contribuzioni imposte.
Le prime armi di una rivoluzione virtuosa doveano esser la prudenza e la giustizia; ed i nostri traviati fratelli meritavano più di esser corretti che distrutti. Facendo altrimenti, si credevano vinti, mentre non erano che fugati. Trani fu saccheggiata; questa bella, popolosa e ricca città fu distrutta; ma gl’insorgenti di Trani rimanevano ancora: essi, all’avvicinarsi dei francesi, si erano tutt’imbarcati, pronti a ritornare più feroci, tosto che i francesi avessero abbandonate le loro case.
Lo dirò io? Le tante vittorie ottenute contro gl’insorgenti hanno distrutti più uomini da bene che scellerati. Questi, consci del loro delitto, pensano sempre per tempo alla loro salvezza. L’uomo dabbene è còlto all’improvviso ed inerme: la sua casa è saccheggiata del pari e forse anche prima di quella dell’insorgente, perché l’uomo dabbene è quasi sempre il più ricco, e, quando l’insorgente ritorna, lo ritrova disgustato di colui da cui ha sofferto il saccheggio.
Un buon governo vuole esser forte ma non crudele, severo ma non terrorista. Le insorgenze di Napoli si poteano ridurre a calcolo. Pochi erano i punti centrali delle medesime, e chiunque conosceva i luoghi vedeva essere quegl’istessi che nell’antico governo erano ripieni di uomini i più oziosi e più corrotti e, per tal ragione, più miserabili e più facinorosi. Nei luoghi dove in tempo del re vi eran più ladri, contrabbandieri ed altra simile genia, in tempo della repubblica vi furono più insorgenti. Erano luoghi d’insorgenza Atina, Isernia, Longano, le colonie albanesi del Sannio, Sansevero, ecc. Nei luoghi ove la gente era industriosa ed, in conseguenza, agiata e ben costumata, si potea scommettere cento contro uno che vi sarebbe stata una eterna tranquillità.
I primi motori dell’insorgenza furon coloro che avean tutto perduto colla ruina dell’antico governo, e che nulla speravano dal nuovo: se questi furon molti, gran parte della colpa ne fu del governo istesso, che non seppe far loro nulla sperare, e che fece temere che il governo repubblicano fosse una fazione. Eppure la repubblica avea tanto da dare, che era pericolosa follia credere di poter sempre dare ai repubblicani!
Grandi strumenti di controrivoluzione furono tutte le milizie dei tribunali provinciali, tutti gli armigeri dei baroni, tutt’i soldati veterani che il nuovo ordine di cose avea lasciati senza pane, tutti gli assassini che correvano con trasporto dietro un’insorgenza, la quale dava loro occasione di poter continuare i loro furti e quasi di nobilitarli. Luoghi di grande insorgenza furono perciò quasi tutte le centrali delle province, come Lecce, Matera, Aquila, Trani, dove la residenza delle autorità provinciali, delle loro forze e di quanto nelle province eravi di scellerati, che ivi si trovavano in carcere e che, nell’anarchia che accompagnò il cangiamento del governo, furono tutti scapolati, riuniva più malcontenti e più facinorosi. Costoro strascinarono tutti gli altri esseri pacifici e meramente passivi, intimoriti egualmente dall’audacia dei briganti e dalla debolezza del governo nuovo.
Contro tali insorgenze non vale tanto una spedizione militare che distrugga, quanto una forza sedentaria che conservi: gl’insorgenti fuggivano alla vista di un esercito: tostoché l’esercito era passato, una picciola forza, ma permanente, loro avrebbe impedito di riunirsi e di agire. Il soldato non soffre le stazioni: brama la guerra ed ama che il nemico si renda forte a segno di meritare una spedizione, onde aver l’occasione di misurarsi, la gloria di vincerlo ed il piacere di spogliarlo.
Il comandante francese padrone di Trani fu chiamato da Palomba, commissario del dipartimento della Lucania, perché marciasse sopra Matera ad impedire che vi si formasse un’insorgenza, che potea divenir pericolosa per quel dipartimento. Ma, Matera non essendo ancora rivoltata, non vi andò, perché non avrebbe potuto farla saccheggiare. E, quando, premurato dalle reiterate istanze di Palomba, s’incaminò con tutte le forze che aveva, fu richiamato in Napoli. L’insorgenza, che in Matera era tutta pronta e solo compressa dal timore della vicinanza delle forze superiori, quando queste furono lontane, scoppiò e si riunì a quella della Calabria.
Ma perché non marciò Palomba istesso colle sue forze sopra Matera? Perché Palomba, come commissario, non avea saputo trovare i mezzi di riunirle e di sostenerle; perché il suo generale Mastrangiolo tutt’altro era che generale. Caldi ambidue del più puro zelo repubblicano, colle più pure intenzioni, ma privi di quella pubblica opinione, che sola riunisce le forze altrui alle nostre, e di quel consiglio, senza di cui non vagliono mai nulla né le forze nostre né le altrui, tutti e due non sapeano far altro che gridare «Viva la repubblica!», ed intanto aspettare che i francesi la fondassero, come se fosse possibile fondare una repubblica colle forze di un’altra nazione! Nel dipartimento il più democratico della terra, colle forze imponenti di Altamura, di Avigliano, di Potenza, di Muro, di Tito, Picerno, Santofele, ecc. ecc., Mastrangiolo perdette il suo tempo nell’indolenza. I bravi uffiziali, che aveva attorno, lo avvertirono invano del pericolo che lo premeva: l’insorgenza crebbe e lo costrinse a fuggire.