Alta Terra di Lavoro

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Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799 di Vincenzo Cuoco (seconda edizione)L

Posted by on Dic 22, 2021

Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799 di Vincenzo Cuoco (seconda edizione)L

Taluni patrioti

Dopo la caduta della repubblica, Napoli non presentò che l’immagine dello squallore. Tutto ciò che vi era di buono, di grande, d’industrioso, fu distrutto; ed appena pochi avanzi de’ suoi uomini illustri si possono contare, scampati quasi per miracolo dal naufragio, erranti, senza famiglia e senza patria, sull’immensa superficie della terra.

Si può valutare a più di ottanta milioni di ducati la perdita che la nazione ha fatto in industrie; quasi altrettanto ha perduto in mobili, in argenti, in beni confiscati: il prodotto di quattro secoli è stato distrutto in un momento. Si son veduti de’ monopolisti inglesi mercanteggiare i nostri capi d’opera di pittura, che il saccheggio avea fatti passare dagli antichi proprietari nelle mani del popolaccio, il quale non ne conosceva né il merito né il prezzo.

La rovina della parte attiva della nazione ha strascinata seco la rovina della nazione intera: tutto il popolo restò senza sussistenza, perché estinti furono o dispersi coloro che ne mantenevano o che ne animavano l’industria; e gli stessi controrivoluzionari piangono ora la perdita di coloro che essi stessi hanno spinti a morte.

Aggiungete a questi danni la perdita di tutt’i princìpi, la corruzione di ogni costume, funeste ed inevitabili conseguenze delle vicende di una rivoluzione; una corte che da oggi in avanti riguarda la nazione come estranea e crede ritrovar nella di lei miseria e nella di lei ignoranza la sicurezza sua; e l’uomo che pensa vedrà con dolore una gran nazione respinta nel suo corso politico allo stato infelice in cui era due secoli fa.

Salviamo da tanta rovina taluni esempi di virtù: la memoria di coloro che abbiamo perduti è l’unico bene che ci resta, è l’unico bene che possiamo trasmettere alla posterità. Vivono ancora le grandi anime di coloro che Speziale ha tentato invano di distruggere; e vedranno con gioia i loro nomi, trasmessi da noi a quella posterità che essi tanto amavano, servir di sprone all’emulazione di quella virtù che era l’unico oggetto de’ loro voti.

Noi abbiamo sofferti gravissimi mali; ma abbiam dati anche grandissimi esempi di virtù. La giusta posterità obblierà gli errori che, come uomini, han potuto commettere coloro a cui la repubblica era affidata: tra essi però ricercherà invano un vile, un traditore. Ecco ciò che si deve aspettare dall’uomo, ed ecco ciò che forma la loro gloria.

In faccia alla morte nessuno ha dato un segno di viltà. Tutti l’han guardata con quell’istessa fronte con cui avrebbero condannati i giudici del loro destino. Manthoné, interrogato da Speziale di ciò che avesse fatto nella repubblica, non rispose altro che: – Ho capitolato. – Ad ogni interrogazione non dava altra risposta. Gli fu detto che preparasse la sua difesa: – Se non basta la capitolazione, arrossirei di ogni altra. –

Cirillo, interrogato qual fosse la sua professione in tempo del re, rispose: – Medico. – Nella repubblica? – Rappresentante del popolo. – Ma in faccia a me che sei? – riprese Speziale, che pensava così avvilirlo69. – In faccia a te? Un eroe. –

Quando fu annunziata a Vitagliani la sua sentenza, egli suonava la chitarra; continuò a suonarla ed a cantare finché venne l’ora di avviarsi al suo destino. Uscendo dalle carceri, disse al custode: – Ti raccomando i miei compagni: essi sono uomini, e tu potresti esser infelice un giorno al pari di loro. –

Carlomagno, montato già sulla scala del patibolo, si rivolse al popolo e gli disse: – Popolo stupido! tu godi adesso della mia morte. Verrà un giorno, e tu mi piangerai: il mio sangue già si rovescia sul vostro capo e, se voi avrete la fortuna di non esser vivi, sul capo de’ vostri figli. –

Granalè dall’istesso luogo guardò la folla spettatrice: – Vi ci riconosco – disse – molti miei amici: vendicatemi! –

Nicola Palomba era già sotto al patibolo: il commesso del fisco gli dice che ancora era a tempo di rivelare de’ complici. – Vile schiavo! – risponde Palomba – io non ho saputo comprar mai la vita coll’infamia. –

– Io ti manderò a morte – diceva Speziale a Velasco. – Tu?… Io morirò, ma tu non mi ci manderai. – Così dicendo, misura coll’occhio l’altezza di una finestra che era nella stanza del giudice, vi si slancia sotto i suoi occhi, e lascia lo scellerato sbalordito alla vista di tanto coraggio ed indispettito per aver perduto la vittima sua.

Ma, se vi vuole del coraggio per darsi la morte, non se ne richiede uno minore per non darsela, quando si è certo di averla da altri. A Baffa70, già certo del suo destino, fu offerto dell’oppio. Egli lo ricusò; e, morendo, dimostrò che non l’avea ricusato per viltà. Era egli, al pari di Socrate, persuaso che l’uomo sia posto in questo mondo come un soldato in fazione e che sia delitto l’abbandonar la vita, non altrimenti che lo sarebbe l’abbandonare il posto.

Questo sangue freddo, tanto superiore allo stesso coraggio, giunse all’estremo nella persona di Grimaldi. Era già condannato a morte; era stato trattenuto dopo la condanna più di un mese tra’ ferri; finalmente l’ora fatale arriva: di notte, una compagnia di russi ed un’altra di soldati napolitani lo trasportano dalla custodia al luogo dell’esecuzione. Egli ha il coraggio di svincolarsi dalle guardie; si difende da tutti i soldati, si libera, si salva. La truppa lo insiegue invano per quasi un miglio; né lo avrebbe al certo raggiunto, se, invece di fuggire, non avesse creduto miglior consiglio nascondersi in una casa, di cui trovò la porta aperta. La notte era oscura e tempestosa; un lampo lo tradì e lo scoperse ad un soldato, che l’inseguiva da lontano. Fu raggiunto. Disarmò due soldati, si difese, né lo potettero prendere se non quando, per tante ferite, era già caduto semivivo.

Quante perdite dovrà piangere, e per lungo tempo, la nostra nazione! Io vorrei poter rendere ai nomi di tutti quell’onore che meritano, e spargere sul loro cenere quei fiori che forse chi sa se essi avranno giammai! Ma chi potrebbe rammentarli tutti?

Io non posso render a tutti quella giustizia che meritano, tra perché non ho potuto sapere tutto ciò ch’è avvenuto ne’ diversi luoghi del Regno, tra perché nella mia emigrazione non ho avuta altra guida che la mia memoria, la quale non ha potuto tutto ritenere. Mi sia perciò permesso trattenermi un momento sopra taluni più noti.

Caracciolo Francesco. Era, senza contraddizione, uno de’ primi geni che avesse l’Europa. La nazione lo stimava, il re lo amava; ma che poteva il re? Egli fu invidiato da Acton, odiato dalla regina, e perciò sempre perseguitato. Non vi fu alcuna specie di mortificazione a cui Acton non lo avesse assoggettato; si vide ogni giorno posposto… Caracciolo era uno di quei pochi che al più gran genio riuniva la più pura virtù. Chi più di lui amava la patria? Che non avrebbe fatto per lei? Diceva che la nazione napolitana era fatta dalla natura per avere una gran marina, e che questa si avrebbe potuto far sorgere in pochissimo tempo; avea in grandissima stima i nostri marinari. Egli morì vittima dell’antica gelosia di Thurn e della viltà di Nelson… Quando gli fu annunziata la morte, egli passeggiava sul cassero, ragionando della costruzione di un legno inglese che era dirimpetto, e proseguì tranquillamente il suo ragionamento. Intanto un marinaro avea avuto l’ordine di preparargli il capestro: la pietà glielo impediva… Egli piangeva sulla sorte di quel generale, sotto i di cui ordini aveva tante volte militato. – Sbrigati – gli disse Caracciolo: – è ben grazioso che, mentre io debbo morire, tu debbi piangere. – Si vide Caracciolo sospeso come un infame all’antenna della fregata «Minerva»; il suo cadavere fu gittato in mare. Il re era ad Ischia, e venne nel giorno susseguente, stabilendo la sua dimora nel vascello dell’ammiraglio Nelson. Dopo due giorni il cadavere di Caracciolo apparve sotto il vascello, sotto gli occhi del re… Fu raccolto dai marinari, che tanto l’amavano, e gli furono resi gli ultimi offici nella chiesa di Santa Lucia, che era prossima alla sua abitazione; offici tanto più pomposi quantoché senza fasto veruno e quasi a dispetto di chi allora poteva tutto, furono accompagnati dalle lagrime sincere di tutt’i poveri abitanti di quel quartiere, che lo riguardavano come il loro amico ed il loro padre.

Simile a Caracciolo era Ettore Carafa. Quest’eroe, unitamente al suo bravo aiutante Ginevra, sostenne Pescara anche dopo le capitolazioni di Capua, Gaeta e Sant’Elmo. Caduto nelle mani di Speziale, mostrògli qual fosse il suo coraggio, ed andò a morte con intrepidezza e disinvoltura.

Cirillo Domenico. Era uno de’ primi tra i medici di una città ove la medicina era benissimo intesa e coltivata; ma la medicina formava la minor parte delle sue cognizioni, e le sue cognizioni formavano la minor parte del suo merito. Chi può lodare abbastanza la sua morale? Dotato di molti beni di fortuna, con un nome superiore all’invidia, amico della tranquillità e della pace, senza veruna ambizione, Cirillo è uno di quei pochi, pochi sempre, pochi in ogni luogo, che in mezzo ad una rivoluzione non amano che il bene pubblico. Non è questo il più sublime elogio che si possa formare di un cittadino e di un uomo? Io era seco lui nelle carceri; Hamilton e lo stesso Nelson, a’ quali avea più volte prestato i soccorsi della sua scienza, volevano salvarlo. Egli ricusò una grazia che gli sarebbe costata una viltà.

Conforti Francesco. Si è già detto il tratto di perfidia che gli usò Speziale. A questo si aggiunga che Conforti in tutto il corso della sua vita avea reso de’ servigi importanti alla corte; avea difesi i diritti della sovranità contro le pretensioni di Roma; avea fissati i nuovi princìpi per i beni ecclesiastici, princìpi che riportavano la ricchezza nello Stato e la felicità nella nazione; molte utili riforme erano nate per suo consiglio; la corte per sua opera avea rivendicati più di cinquanta milioni di ducati in fondi… Conforti era il Giannone, era il Sarpi della nostra età; ma avea fatto più di essi, istruendo dalla cattedra e formando, per così dire, una gioventù nuova. Pochi sono i napolitani che sanno leggere, che non lo abbiano avuto a maestro. E quest’uomo, senza verun delitto, si mandò a morire! Egli riuniva eminentemente tutto ciò che formava l’uomo di lettere e l’uomo di Stato.

Pagano Francesco Mario. Il suo nome vale un elogio. Il suo Processo criminale è tradotto in tutte le lingue, ed è ancora uno delli migliori libri che si abbia su tale oggetto. Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano voi non rinvenite che l’orme di Pagano, che vi possano servir di guida per raggiugnere i voli di Vico.

Pimentel Eleonora Fonseca. «Audet viris concurrere virgo». Ma essa si spinse nella rivoluzione, come Camilla nella guerra, per solo amor della patria. Giovinetta ancora, questa donna avea meritata l’approvazione di Metastasio per i suoi versi. Ma la poesia formava una piccola parte delle tante cognizioni che l’adornavano. Nell’epoca della repubblica scrisse il Monitore napolitano, da cui spira il più puro ed il più ardente amor di patria. Questo foglio le costò la vita, ed essa affrontò la morte con un’indifferenza eguale al suo coraggio. Prima di avviarsi al patibolo, volle bevere il caffè, e le sue parole furono: – «Forsan haec olim meminisse iuvabit». –

Russo Vincenzio. È impossibile spinger più avanti di quello che egli lo spinse l’amore della patria e della virtù. La sua opera de’ Pensieri politici è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e l’avrebbe resa anche migliore, rendendola più moderata. La sua eloquenza popolare era sublime, straordinaria… Egli tuonava, fulminava: nulla poteva resistere alla forza delle sue parole… Sarebbe stato utile che si fossero raccolte delle memorie sulla sua condotta nel carcere. Egli fu sempre un eroe. Giunto al luogo del supplizio, parlò lungamente con un tuono di voce e con un calore di sentimento, il quale ben mostrava che la morte potea distruggerlo, non mai però il suo aspetto poteva avvilirlo. Quasi cinque mesi dopo, ho inteso raccontarmi il suo discorso dagli uffiziali che vi assistevano, con quella forte impressione che gli spiriti sublimi lascian perpetua in noi, e con quella specie di dispetto con cui gli spiriti vili risentono le irresistibili impressioni degli spiriti troppo sublimi… Oh! se la tua ombra si aggira ancora intorno a coloro che ti furono cari, rimira me, fin dalla più tenera nostra adolescenza tuo amico, che piango, non te (a te che servirebbe il pianto?), ma la patria per cui inutilmente tu sei morto.

Federici Francesco. Era maresciallo in tempo del re; fu generale in tempo della repubblica. Il ministro di guerra lo rese inutile, mentre avrebbe potuto esser utilissimo. La stessa ragione lo avea reso inutile in tempo del re. Egli sapeva profondamente l’arte della guerra; ma insieme coll’arte della guerra egli sapeva mille altre cose, che per lo più ignorano coloro che sanno l’arte della guerra. Il suo coraggio nel punto della morte fu sorprendente.

Scotti Marcello. È difficile immaginare un cuore più evangelico. Egli era l’autore del Catechismo nautico, opera destinata all’istruzione de’ marinai dell’isola di Procida, sua patria, che meriterebbe di esser universale. Nella disputa sulla «chinea» scrisse, sebben senza suo nome, l’opera della Monarchia papale, di cui non si era veduta l’eguale dopo Sarpi e Giannone. Nella repubblica fu rappresentante. Morì vittima dell’invidia di taluni suoi compatrioti.

Parlando di Scotti, la mia memoria mi rammenta il virtuoso vescovo di Vico, il rispettabile prelato Troise, e chi no? Figli della patria! La vostra memoria è cara, perché è la memoria della virtù. Verrà, spero, quel giorno in cui, nel luogo istesso nobilitato dal vostro martirio, la posterità, più giusta, vi potrà dare quelle lodi che ora sono costretto a chiudere nel profondo del cuore e, più felice, vi potrà elevare un monumento più durevole della debole mia voce71.

69 È da osservarsi che Speziale non risparmiava nessuno de’ più vili epiteti del trivio e del bordello.

70 Baffa era uno de’ più eruditi uomini d’Italia, era uno de’ primi per l’erudizione greca.

71 Per riunire sotto un colpo di occhio tutto il male che in Napoli ha prodotta la controrivoluzione, basterà fare il seguente calcolo: Ettore Carafa, Giovanni Riari, Giuliano Colonna, Serra, Torella, Caracciolo, Ferdinando e Mario Pignatelli di Strongoli, Pignatelli Vaglio, Pignatelli Marsico son della prima nobiltà d’Italia; e venti altre famiglie nobili al pari di queste sono state quasiché distrutte. Tra le altre non vi è chi non pianga una perdita. La rivoluzione conta trenta in quaranta vescovi, altri venti in trenta magistrati rispettabili per il loro grado e più per il loro merito, molti avvocati di primo ordine ed infiniti uomini di lettere. A quelli che abbiamo nominati si possono aggiugnere, tra’ morti, Falconieri, Logoteta, Albanese, De Filippis, Fiorentino, Ciaia, Bagni, Neri… La professione medica pare che sia stata presa di mira dalla persecuzione controrivoluzionaria. Sarà un giorno oggetto di ammirazione per la posterità l’ardore che i nostri medici aveano sviluppato per la buona causa. I giovani medici del grande ospedale degl’Incurabili formavano il «battaglione sacro» della nostra repubblica. Io non parlo che della capitale. Eguale e forse anche più feroce è stata la distruzione che gli emissari della Giunta, sotto nome di «visitatori», han fatta nelle provincie. Si possono calcolare a quattromila coloro che sono morti per furore degl’insorgenti, come l’infelice Serao vescovo di Potenza, uomo rispettabile per la sua dottrina e per lo suo costume; il giovine Spinelli di San Giorgio… Tutti gli altri erano egualmente i migliori della nazione. Dopo ciò, si calcoli il danno. La nazione potrà rimpiazzar gli uomini, ma non la coltura. Ed è forse esagerata l’espressione di esser essa retroceduta di due secoli?

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