Alta Terra di Lavoro

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Salvatore Mancini, un fotografo che segue le peste dei misteri dell’arte rupestre di Alfredo Saccoccio

Posted by on Giu 3, 2018

Salvatore Mancini, un fotografo che segue le peste dei misteri dell’arte rupestre di Alfredo Saccoccio

Si chiamavano Bufalo Indomabile o Bisonte Scaltro. Si chiamano, oggi, Fernando o Nataniele. Sono americani, ma sono, prima di tutto, indiani. Vivono a sud-ovest degli Stati Uniti, al crocevia di quattro Stati: l’Utah, il Colorado, l’Arizona, il Nuovo Messico.

Qui è il vero Paese degli indiani. Sono centinaia di migliaia a conservare il culto dei loro antenati, gli Indiani pueblos, quelli che precedettero, di gran lunga, i bianchi sui sentieri del Nuovo Mondo. Paese fantastico, dalle vestigia millenarie, dagli strepitosi monumenti di pietra, vecchi di centinaia di milioni d’anni, scolpiti dal vento. Si accorre dal mondo intero verso Mesa Verde, il canyon di Chelly, Monument Valley, Canyonlands, paesaggi strabilianti per le loro forme e per i loro colori, oltre che per la ricchezza dei loro ricordi. Per i colori, occorrerebbe una tavolozza da pittore per evocare le tinte. Occorrerebbe anche un flacone d’aria secca e pura per parlare del benessere, come occorrerebbe una registrazione di questo silenzio così particolare, denso, vivo. Occorrerebbe ancora una canzone per ritmare la ballata, una poesia dell’Ovest per dire le emozioni…

Un suntuoso scenario minerale

Potrete percorrere questo territorio in campagnola e dormire, la notte, sotto le stelle. Conoscerete, in mezzo ad un suntuoso scenario minerale, l’ebbrezza dell’alba. Imparerete, notte dopo notte, a riconoscere le stelle, a ritrovare le costellazioni, grazie alla loro luce. Viaggio affaticante e superbo in un mondo ghiacciato in inverno, torrido in estate, in luoghi elevati, propizi alle tempeste, ma di una bellezza così eccezionale e così pura che vi si vivono, in primavera e in autunno, momenti irreali, ore lietissime.

La nostra avventura comincia con il parco nazionale di Mesa Verde ( l’ “altopiano verdeggiante”), un’introduzione perfetta al nostro viaggio. Un episodio restato misterioso nell’esistenza degli Indiani Anasazi, che occuparono gli altipiani sin dall’inizio della nostra era. Questi antenati vivevano, in mezzo a spesse foreste, d’agricoltura e di caccia. Abitavano in case d’argilla e celebravano cerimonie religiose in scantinati sotterranei, di forma circolare : le kivas. Più tardi, tra l’XI e il XIV secolo, essi installarono i loro villaggi negli intersizii delle falesie scoscese, nelle pareti dei canyons, anfrattuosità che si aprono tra terra e cielo, luoghi inaccessibili senza una straordinaria agilità, senza uno sprezzo completo della vertigine.

In nessuna parte, si incontra una tale concentrazione di grotte e di villaggi degli Indiani Anasazi. Si censiscono nel parco parecchie centinaia di siti e lo stato di certuni (pensiamo in particolare a Spruce Tree House e a Cliff Palace) è assolutamente fantastico. Cliff Palace, con i suoi cento metri di lunghezza, è la più grande costruzione trogloditica d’America del Nord. Essa è stata scoperta nel 1888 da due cow-boys, Charles Mason e Richard Wetherill, partiti alla ricerca delle loro vacche smarrite. Per accedere a Balcony House, occorre compiere un vero percorso del combattente : strisciare, poi arrampicarsi allegramente ad una scala di corda, un esercizio ideale, sotto il sole estivo, per perdere i chilogrammi superflui.

Anasazi significa “Antenati dei Nemici”

Questi spettacolari villaggi non costiuiscono, tuttavia, che un capitolo della storia di Mesa Verde. I cento, ultimi anni di un’avventura che durò secoli. Chi spinse gli Anasazi a lasciare Mesa Verde ? La guerra ? La carestia ? Lo si ignora ancora. Si sa soltanto che non fu una migrazione massiccia. Il lento movimento della popolazione verso il sud si scaglionò su un mezzo secolo. Gli indiani si allontanarono allora da Mesa Verde, per sempre.

Gli scienziati si tuffano oggi nello studio di questa civiltà, che precedette, di parecchi secoli, l’arrivo degli spagnoli. Si sa che “anasazi” è una parola navajo che significa “Antenati dei Nemici” ; che la taglia media degli uomini era di m. 1,64 ; che la loro speranza di vita media era da trentadue a trentaquattro anni ; che soffrivano particolarmente d’artrite e di reumatismi, senza contare i mal di denti così violenti che cavavano talvolta questi per non soffrire più.

Si conosce anche l’evoluzione dei loro cuscini per i bimbi in fasce, attraverso i secoli. I primi erano dolci ed imbottiti per proteggere la testa del piccolo ; gli ultimi erano duri e rigidi, il che causava un appiattimento della testa e un allargamento del viso. Era, si pensa, un criterio di bellezza.

Dopo Mesa Verde, ecco il canyon di Chelly, uno dei luoghi sacri della storia dei Navajo, indigeni di lingua athabasca. Le pareti ripide di arenaria rossa dominano un canyon verdeggiante, dove pascolano i montoni e galoppano i cavalli. Qui gli indiani coltivano le fattorie con amore ; l’amore che portano a questa terra, che fu il testimone di uno degli episodi più tragici della loro storia : nel 1864 i Navajo, trincerati su uno sperone roccioso, vi furono massacrati dai soldati di Kit Carson.

Navajoland : un territorio più grande della Svizzera

Come Mesa Verde, il canyon di Chelly racchiude abitazioni trogloditiche, di cui le più impressionanti sono Antelope House e Mummy Cave, ma è soprattutto la sua bellezza che impressiona. La si scopre dai belvederi che dominano le due ramificazioni del canyon, in particolare a Spider Rock, le cui guglie vegliano su Chelly, ovvero dal fondo stesso del canyon, che i Navajo vi fanno percorrere in 4×4 (che resta, di tanto in tanto, affondato nel fiume…), o a cavallo per i più intrepidi.

Andrete poi verso gli altri siti di Navajoland e verso la riserva degli Hopi, verso Monument Valley, infine verso Canyonlands.

Navajoland è la più grande riserva indiana degli Stati Uniti, una superficie superiore a quella della Svizzera. E’ il territorio dei Navajo, che si stende lungo il Colorado fino al lago Powell e che comprende, nei suoi confini, la piccola riserva degli Hopi ( un nome che proviene dall’indiano “moki”, ossia “persone pacifiche”). Cari Hopi del Rio Grande ! Essi hanno durato fatica a difendere le loro frontiere contro gli appetiti dei loro potenti vicini Navajo e le loro tradizioni secolari contro turisti ghiotti d’esotismo e di fotografie.

Gli Hopi sono cinquanta volte meno numerosi e cento volte meno potenti dei Navajo. Allora da molto lungo tempo hanno sotterrato l’ascia di guerra. Invece di battersi, essi pregano i loro dei. E per pregare, essi danzano. Sono balli che vengono dal fondo delle età. Gli Hopi scolpiscono strane bambole ed indossano straordinari costumi che fanno crepare di gelosia le altre tribù. Una fantasia sfrenata, un’immaginazione esuberante, la loro; un’umanità portata ai sogni, alle visioni e agli spiriti, che credeva che gli dei erano buoni e che la terra, per grazia degli dei, inesauribile nelle sue ricchezze. Era contare senza i Bianchi.

Questi costumi rappresentano gli Kachinas, gli “Spiriti”. Ogni ornamento ha il suo significato, ogni dio ha la sua rappresentazione simbolica. Ci sono tra gli Kachinas, che gli artisti hopi stilizzano sotto la forma di bambole, il Sole e l’Orso bruno ; l’Uomo delle nubi e la Donna che porta il freddo; l’Uomo-Serpente, che appare nel mese d’agosto affinché le ultime piogge della stagione apportino raccolti pletorici.

Presso gli Indiani, il sacro si trova dappertutto, malgrado il modernismo che avanza. E l’uomo-medicina dei Navajo fa a meno di praticare la medicina dei bianchi : “Da noi la salute e la religione sono legati intimamente. Il segreto della salute è l’armonia. I miei atti tendono a ristabilire l’ordine naturale delle cose”.

Abbiamo assistito, nella prima mesa, a danze hopi avvincenti. A forti tinte, con cinquanta danzatori mascherati, che hanno fatto evoluzioni, per ore, in mezzo agli abitanti del villaggio. Fra essi, eravamo il solo bianco. Mi si è detto, in seguito, che questa danza era proibita agli stranieri. Tuttavia nessuno ci ha respinto. Essi si sono anche stretti per farci posto.

Una perfetta sinfonia in ocra maggiore

Se fossimo stati fotografi, le cose si sarebbero svolte differentemente. Presso gli Hopi le foto sono strettamente proibite. Michael ne spiega le ragioni : “Gli Hopi sono molto accoglienti e i primi turisti sono stati ricevuti qui, a braccia aperte, ma siamo stati ridicolizzati !. Gli Hopi si sono anche trovati negli Stati Uniti, eroi comici di un fumetto ! I nostri vecchi si sono adirati. Molte nostre danze sono oggi proibite ai bianchi e non tolleriamo nelle nostre mesas alcun fotografo !”

Il tono è ben differente a Monument Valley dove i Navajo posano spesso per le foto, con compiacimento. Certi ne traggono anche l’essenziale dei loro proventi. Ogni volta, tuttavia, ritroviamo Monument Valley con la stessa meraviglia. Non c’è nulla in comune tra la valle dell’alba e quella del crepuscolo. Secondo la luce, i paesaggi ridono o si imbronciano. La vallata intera si trasforma.

Monument Valley porta vivacemente i suoi settanta milioni d’anni. Dopo John Ford, che vi ha girato, tra gli altri films, “Sentieri selvaggi” (1956), secondo Martin Scorsese e Michael Cimino, una delle più grandi pellicole di tutti i tempi, e “Sfida infernale” di 10 anni prima, i registi litigano per approfittare del suo straordinario scenario naturale. Gli immensi camini di arenaria rossa raggiungono parecchie centinaia di metri di altezza. Uno dei più fantastici paesaggi d’America, con rocce tormentate, alture dirupate, guglie monumentali. Da Sentinel Mesa a Totem Pole, passando per le celebri Three Sisters, vi è tutta la gamma dei colori. E’, in ocra maggiore, una perfetta sinfonia.

Essa prosegue a Canyonlands, alla confluenza del Colorado e del Green River, che si precipitano in gole impressionanti, in mezzo ad archi e a altipiani scolpiti dall’erosione. Un insieme fiabesco, da cui si distaccano Dead Horse Point, le Needles e Angel Arch. Canyonlands è uno dei più belli e uno dei meno conosciuti tra i parchi nazionali degli Stati Uniti. Esso soffre della vicinanza del Grand Canyon e di Monument Valley. Tuttavia ne raduna tutte le attrattive, dalle più segrete alle più intime.

Il nord del parco porta il suo nome : “Island in the sky”, ovvero “Isola nel cielo” ; un’isola color ocra, irreale, portata sulle onde delle colline come sul mareggio, sull’ondeggiare del mare. Il tempo si è fermato, da secoli, su questo oceano pietrificato. Continua la nostra meraviglia.

Per la riuscita del vostro soggiorno nel grande Ovest

Come andarci

Alcune agenzie turistiche organizzano, da maggio ad ottobre, un viaggio “Preludio indiano”, attraverso questa contrada. Questi viaggi di sei giorni e cinque notti si svolge in partenza da Moab e permette una scoperta culturale dei territoirii degli Ute, Hopi e Navajo. Il trasporto è effettuato in furgone e le notti sono in attendamento. Prezzo per persona (ivi compreso i pasti), in partenza da Moab, circa 1.884.000, su una base di due persone.

Ciò che occorre vedere

MESA VERDE

Il Visitor Centre è aperto dalle 8 alle 17. Giri guidati sono effettuati a tutte le ore, a Cliff Palace e a Balcony House. Al di fuori del museo archeologico di Chapin Mesa, i centri principali di interesse sono Spruce Tree House, Square Tower House, l’antico villaggio pueblo, il Tempio del Sole, Cliff Palace e Balcony House. Wetherill Mesa è aperto dal 28 maggio.

IL CANYON di CHELLY

Gli indiani Navajo vegliano gelosamente sul canyon di Chelly. E’ vietato entrare all’interno del canyon senza essere accompagnato da un ranger o da una guida autorizzata. Su tutta la riserva dei Navajo è proibito possedere o consumare alcool.

Ogni giorno, sono organizzate per i visitatori numerose attività : passeggiate geologiche e botaniche, esplorazioni delle incisioni rupestri, conferenze sulla storia e sulla cultura dei Navajo.

MONUMENT VALLEY

Monument Valley è il primo Navajo Tribal Park. Esso è stato costituito, l’11 luglio 1958, dal consiglio tribale dei Navajo. Monument Valley è visitato, ogni anno, da quattrocentomila turisti provenienti da ogni angolo del mondo.

La visita di Monument Valley in vettura particolare è limitata a certe parti di strade non asfaltate. Per scoprire la vallata nella sua intierezza e rendere visita ai Navajo nei loro “hogans” tradizionali, fate appello ad una guida abilitata, che sarà un Navajo nato nella regione e che ne conosce tutti i segreti.

Otterrete tutte le informazioni al centro d’accoglienza del parco, come pure al Goulding’ s Trading Post, situato ad ovest dell’US 163, alla frontiera dell’Arizona e dell’Utah. Henry Goulding è stato un celebre pioniere di Monument Valley. Egli si stabilì, nel 1923, in questa regione isolata e vi aprì il Goulding’s Trading Post. Strinse amicizia con i Navajo e incitò John Ford a girarvi sei grandi westerns, che fecero conoscere Monument Valley al mondo intero.

QUELLO CHE OCCORRE SAPERE

I NAVAJO

Tanto lungo tempo fa, gli antenati dei Navajo vivevano nel nord-ovest del Canada e in Alaska. Mille anni fa, essi discesero verso il sud e si stabilirono presso gli indiani pueblo, da cui appresero l’agricoltura. Nello stesso tempo, i loro stili d’artigianato (in particolare la tessitura e la ceramica) si avvicinarono. I Navajo costruirono, per trovare alloggio, degli “hogans”, la cui porta era orientata ad est per ricevere i primi raggi del sole. Più tardi, nel XVII secolo, gli spagnoli introdussero nel sud-ovest dei cavalli e dei montoni, di cui i Navajo seppero trarre partito. Nel XIX secolo, gli Stati Uniti comprarono questa regione dal Messico. Numerosi combattimenti si svolsero tra gli Indiani che volevano conservare le loro terre e i soldati americani. Ci si ricorda particolarmente di quelli, senza pietà, che furono condotti nel 1864 e 1865 da Christopher (Kit) Carson, esploratore e pioniere americano, che esplorò il West e che combatté contro il Messico e gli Indiani,                                                                                                                          per conto dei Nordisti. La storia dei “primi americani” è stata segnata dalla violenza e dalle promesse non mantenute del governo statunitense. Essi sarebbero restati tanto volentieri a casa loro, se troppo spesso e troppo male, in passato, le loro case (ed abitudini ed usanze e organizzazioni sociali) non fossero state sconvolte dall’arrivo di “civilizzatissimi bianchi”, che erano, quasi sempre, i buoni.

Chi, ai nostri giorni, non ha mai sentito parlare del massacro di Wounded Knee, di Toro Seduto, della vittoria di Little Big Horn, di Cavallo Pazzo ? E soprattutto, quale ragazzino milanese, romano, itrano, tedesco o francese che sia, non ha mai visto, almeno una volta, dei pellerossa al cinema o alla televisione ? Sarebbe, perciò, utile, se non addirittura necessario, far notare ai giovani come il cinema li è venuti mostrando, partendo dalle prime pellicole mute.

Di preferenza, particolarmente in passato, con pitture facciali e diademi di piume, con scudi simili a trofei e con file di perline fra le sparse trecce nere : selvaggi e tremendi con le loro armi di guerra. Oppure, più di recente, cupamente aggrappati all’atavico orgoglio, che strisciano fuggendo nella notte, in disperata contempazione delle loro tende sconvolte, soli a e distrutti dall’alcool, in un panorama che va sempre più restringendosi. Chi ha dato, però, loro l’alcool ? Non forse quegli stessi uomini bianchi che cominciarono con il filmarli quali simboli di primitiva ferocia e adesso tentano di pareggiare i conti filmando la propria, di ferocia ?

Qualcosa sta accadendo in ambito accademico. Visto che ormai la conquista del West non è più presentabile con i soli toni d’epopea e che l’indiano fiero, feroce e pittoresco è quasi totale appannaggio del folklore, il pellerossa senza piume né frecce, per così dire “normalizzato” e assorbito dal circostante mondo statunitense, comincia ad essere oggetto di studio proprio per le peciliarità inerenti al suo assorbimento. Un assorbimento che si rivela stravolgimento in “Gli Indiani e l’America”, illuminante ricerca di Antonio Di Fazio.

Sul tema indiani-alcool noi sappiamo quel tanto di stereotipo che ci ha insegnato l’epica western (libri, fumetti, film, che ci hanno raccontato tante idiozie). Sappiamo che gli indiani, sin dal loro primo incontro con i pionieri, avrebbero dato o fatto qualsiasi cosa per una sorsata di quel whisky, cento volte più inebriante dei distillati da loro ottenuti con diversi sistemi di fermentazione.

Si sa meno quanto i pionieri abbiano approfittato di questa debolezza, a loro vantaggio. Gente senza scrupoli, ad esempio, produceva il cosiddetto “Whisky Indiano”, ovvero alcool comune mescolato con acqua di fiume, di pozze o di stagni, alla quale i cinici produttori aggiungevano, a seconda della disponibilità, zenzero o melassa, o tabacco da masticare, o peperoncino rosso, o polvere da sparo, o, persino, dosi di stricnina, che, mescolata al whisky, poteva non solo provocare una potente sbornia, ma un’estasi particolarmente folle. E, in pochi anni, intere popolazioni delle Grandi Pianure furono decimate da questo nuovo tipo di “veleno”, oltre che da epidemie portate dai bianchi, affaristi privi di ogni scrupolo.

Dopo anni di deportazione, i Navajo ritornarono nelle terre in cui erano nati. Oggi essi si adattano, più o meno bene, alla vita moderna. Le ricerche minerarie hanno trasformato la loro vita, nello stesso tempo che il loro artigianato si è sviluppato con un successo crescente.

Le splendide foto dell’itrano Salvatore Mancini attraverso il dedalo di gruppi etnici

dell’America del sud-ovest in mostra a Tiverton (R. I.)

 

Nel novembre-dicembre del 2000 ci fu una mostra di Salvatore Mancini sulle incisioni rupestri del New Mexico, del Colorado, dell’Arizona e dell’Utah, tenutasi presso la Virginia Lynch Gallery di Tiverton (Rhode Island), mostra che riscosse grande successo di pubblico e di critica.

L’esposizione presentò ina parte della doviziosissima collezione fotografica eseguita dal prestigioso fotografo italo-americano (è nato ad Itri e vive a Cranston) nel sud-ovest degli Stati Uniti d’America. Salvatore Mancini si è ispirato in prevalenza alle incisioni rupestri, che sembrano attrarlo più delle pitture, ed ha scelto soprattutto quelle produzioni degli amerindiani che hanno popolato il sud-ovest degli “States” negli ultimi duemila anni.

Sono opere dei Basketmakers, dei Navajos, degli Anasazi, dei Pueblo Indians e di altri gruppi tribali : tutte popolazioni di cacciatori, che, però, hanno già sviluppato una parziale attività di produzione del cibo, soprattutto con la coltivazione del mais.

Dalle splendide foto esposte, circa 40, cogliemmo il profondo sentimento “religioso” che lega il Mancini con l’arte degli indiani del sud-ovest d’America : l’operatore culturale non si limita a riprodurre i graffiti rupestri, ma sembra partecipare intensamente alla vita di uomini che elaborano tali rappresentazioni, puntando l’attenzione “in primis” sulle forme mostruose, sulle maschere, sui guerrieri, sulle stelle, sui serpenti, sugli animali selvatici.

La sua è una sorta di narrazione storica e cosmologica degli antichi, che usavano l’arte rupestre come mezzo di espressione artistica, carica di significato esoterico, o per mettere in evidenza tombe, altari o luoghi sacri, dove la comunicazione con il soprannaturale fosse possibile.

Nelle opere di questo grande fotografo, uno dei più affermati fotografi contemporanei, il classico “self made man”, abbiamo colto un forte interesse per le culture del passato, sia dal punto di vista archeologico che antropologico.

La sua, quindi, a ragion veduta, può considerarsi una testimonianza sulla civiltà preistorica e storica, espressa da popolazioni di cacciatori-raccoglitori, ma anche di agricoltori (già, come abbiamo accennato, si era sviluppata la coltivazione del mais), capaci di rappresentare sulla piettra, incidendo e riempiendo di colore, un mondo di immagini, dietro il quale è possibile intravvedere una grande maturità figurativa, una ricchezza d’espressione, oltre ad un’inventiva fantastica e ad una religiosità animistica eccezionali.

Le fotografie presentate nella mostra statunitense sono di una notevole valenza artistica, offrendoci una poetica figurazione dell’opulento, variom e complesso modo espressivo delle popolazioni indigene amerindiane. Esse ci consentono di apprezzare la inusitata vastità di queste genti, che sottende un’evoluzione culturale ed una ricchezza spirituale notevoli.

Le tecniche adottate vanno da quelle figurative a quelle in cui prevale la schematizzazione, senza che si perda alcunché della “leggibilità” dei soggetti rappresentati.

I lavori di Salvatire Mancini, nella nitidezza e nell’essenzialità dell’immagine, evocano in noi un mondo appartato e lontano, trasmessoci tramite la sua raffinata e commossa arte, che è riuscita a stabilire un contatto, una comunicazione, con i temi trattati.

Questi segni, esposti al sole e alla luna, alla pioggia ed alla neve, per millenni, ci raccontano eventi mitici, credenze, leggende, epopee; ci trasmettono messaggi primordiali, ma immediati, di forze sovrumane, siano esse benefiche o malefiche. Questi litoglifi costituiscono la più importante documentazione sull’evolversi della mente umana nel fluire dei secoli.

Sono figure antropomorfiche, prive di arti nel Fremont, rappresentanti esseri soprannaturali, mentre nel Vernal sono intere, effigianti uomini reali, impaludati in costumi elaborati, che spesso presentano splendidi copricapi e pesanti collane.

Il cammino che Salvatore Mancini percorre, attraverso il dedalo di gruppi etnici dell’America del sud-ovest, è un cammino iniziatico. Sono “silhouettes” umane, deambulanti o danzanti sulle pareti, abbozzate con un’economia di mezzi notevole. Niente di calcato nel vigore espressivo di queste processioni di uomini e di donne, di questi animali meticolosamente colti, talvolta incavezzati, o messi in scena (animale accerchiato da un gruppo in armi, l’affrontarsi di una belva e di un cacciatore in ombra cinese sul granuloso grigio di una roccia).

Il fantastico è anche presente : personaggi dal corpo a zig-zag, animale a due teste, uomini-antilopi. Gli accidenti del sostegno sono accuratamente utilizzati : sagoma costruita attorno ad un’anfrattuosità, personaggi che corrono lungo una sporgenza della roccia, stupefacente profilo di un uomo in piena corsa, valorizzato da una sorta di medaglione naturale. L’estremo virtuosismo di queste incisioni parietali, l’eleganza della loro esecuzione, insieme stilizzata e realistica, non è più da dimostrare. Resta da sapere come e per chi esse sono state fatte e a qual bisogno questi litoglifi rispondevano.

Si scoprono queste opere tanto sotto un riparo quanto su una roccia in pieno vento. Si sanno poche cose sugli utensili con i quali esse sono state lavorate, dipinte o incise. I pigmenti utilizzati per le pitture sono limitati, tratti dall’ocra, che può andare dal rosso vivo al bruno ; dal carbone per il nero e dal caolino per il bianco.

Le immagini lasciate rappresentano esseri umani (più uomini che donne) e animali. I felini sono rari ; le diverse varietà di serpenti, molto numerose. Poco o niente vegetali, ma parecchi segni astratti. Gli animali (bisonti, pecore, leoni di montagna, tacchini, anatre, che mediano fra l’uomo e il sovrannaturale. libellule, lucertole, orsetti d’America, cavalli, cervi) sono minuziosamente eseguiti, mentre gli uomini sono nervosamente abbozzati.

Quale lettura si può fare di questa arte ? Il dibattito è aperto negli USA, dove predomina la tesi sciamanica, corroborata dagli uccelli dei Basketmakers, simboleggianti uno spirituale volo degli sciamani nel mondo del trascendentale.

Restano queste testimonianze : migliaia di immagini disperse in tutto il sud-ovest degli “States” ; opere di popoli scomparsi, cacciatori alati e Veneri callipigie.

Siamo grati al fotografo di averci fatto scoprire ed amare l’arte arcaica e misteriosa di alcuni popoli del sud-ovest degli Stati Uniti. Terre lontane, di sogno, dove il reale e il sacro si confondono.

Gli amatoroi di sensazioni forti, gli eruditi non sono rimasti delusi da queste opere cariche di secoli e di storia, prodotte da civiltà ancora parzialmente sconosciute e ormai scomparse.

Tutti questi pezzi si distaccano nell’ombra della sala, sotto la luce dei riflettori. Sotto ciascuna opera, una sintetica didascalìa guida i visitatori e li aiuta a scoprire le origini e le identità di questi ultimi testimoni ormai scomparsi. Un dépliant dalle illustrazioni sontuose accompagna l’esposizione trascinandoci attraverso il dedalo complesso dei gruppi etnici dell’America del sud-ovest.

Man mano che scorriamo le didascalìe che parlano degli Stati in cui sono state rinvenute queste incisioni rupestri, ci vengono alla mente i loro usi e costumi. Il loro potere di fascino deriva da modi di vita fondamentalmente differenti dai nostri, che trovano in noi degli echi insospettati.

Così queste opere portano in sè l’impronta delle visioni che modellarono la loro esistenza. Esse accusano oscuramente i limiti del nostro sguardo, testimonianti un’arte di vivere per noi svanita.

Dobbiamo confessare che non sapremmo rimetterci alle solo fonti etnografiche per capire la potenza di queste incisioni, la loro capacità d’effrazione, la breccia che aprono nel reale.

Queste testimonianze del passato creano effetti di spettrali, inquietanti presenze, perché in tali luoghi abbondano i miti, i segreti, i simboli carichi di significato, evocanti anche il cannibalismo.

Intervista all’artista

 

Abbiamo chiesto a Salvatore Mancini, presente nella Galleria di Tiverton, quando ha scoperto questi petroglifici.

“Ho scoperto l’arte rupestre degli Anasazi e di altri Indiani del sud-ovest degli Stati Uniti, nel 1986. Ho viaggiato attraverso questa regione, per quattro volte, senza vedere un solo litoglifo. Non avevo idea che antichi disegni potessero trovarsi nel paesaggio americano e che potessero avere significato spirituale. Ho scovato un opuscolo del Parco Nazionale ed ho osservato l’arte rupestre preistorica ivi illustrata. Subito ho ordinato dei libri per informazioni dove tali disegni si trovassero. E’ divenuta un’ossessione, come le altre mie spedizioni fotografiche. Le tradizioni e la primitiva storia americana, come tali, mi interessavano come punto di partenza. Inseguendo questi disegni in Arizona, Colorado, New Mexico ed Utah volevo crearmi un archivio personale.”

-Perché lei è attratto dai luoghi sacri ?

“Io ho un gran desiderio di partecipare ai più oscuri recessi della divinità. Considero i petroglifici come testimonianze di vite passate, per cui, fotografandoli, entro in intima relazione spirituale con gli antich incisori. La mia vita coincide con loro, quando mi trovo davanti alle pietre e guardo intensamente le maschere, i guerrieri, le stelle, i serpenti, che mi fissano. Nel creare, l’ombra della mia mano contro la roccia sembra corrispondere alla mano antica che è incisa sulla roccia stessa. Rivivo le esperienze di gente che non conosco, cercando di comprendere il significato del loro mondo. Le mie fotografie, come anche i disegni, sono dei tracciati che continuano a narrare la storia e le cosmologie di generazioni che sono passate da lungo tempo. Con la mia macchina fotografica libero i litoglifi dai loro luoghi per portarli verso il resto del mondo. Nel procedimento cerco di perdere l’essenza del mio essere uomo moderno, di oggi, abbandonando la maggior parte delle cose che mi qualificano come uomo del tardo ventesimo secolo. Seguendo le linee sulla pietra, cancello i miei stessi contorni. Ho così la romantica illusione di diventare, io stesso, un primitivo.”

-Quando ha scoperto i litoglifi, cosa le suggerivano ?

“Le mie immagini mi suggerivano miti comparabili ad altre mitologie. Ero conscio che gli indiani stessero, tuttavia, mostrando un’altra concezione dell’universo, un’altra cosmologia, che potesse ricongiungersi con l’egizia, con la greca e con la romana. e che sopravvivesse in futuro insieme a mitologie popolari, attraverso i “mass media” della nostra era tecnologica.”

-Quando visitava i luoghi ?

“Di solito visitavo i luoghi solo alla luce del giorno ed avvertivo una piacevole affinità con i disegni ed i loro artefici. Cercavo di non farmi coinvolgere dai presunti spiriti a dimorare in un luogo. Avevo le mie ragioni per stare lì, ma non avevo mai pensato che la psiche di un luogo potesse irritarsi per la mia presenza ? Quando tornai a San Cristobal, vicino a Santa Fé, per riprendere alcune immagini di notte, con il flash, ogni cosa ritornò nel caos : pipistrelli si affollavano sulla mia testa, si impigliavano nei miei capelli ; ogni immagine aveva un dopo-immagine, che si incideva nel mio cervello in un effetto vibrante, illuminandosi e scomparendo. La mia mente s’inondava di maschere, serpenti, orsi, che mi guardavano ed urlavano contro di me da tutti gli angoli e fessure. Fui preso dal panico e scappai via, battendo contro pietre e cespugl, timoroso di calpestare serpenti. Tutto questo era reale, per me, e mi faceva scoppiare il cuore. Non so se fosse l’effetto delò flash o se gli spiriti mi stesseto chiedendo di partire. Quella notte a San Cristobal le maschere esercitarono su di me un terribile potere diabolico.”

-Fotografando le incisioni rupestri, lei non stabilisce un’interrelazione con i tempi remoti e con le culture del passato ?

“Fotografando i litoglifi, sono un uomo moderno in cerca di rinnovarsi nei rapporti con l’antico passato. Fuori dal paesaggio, rabbrividendo dal freddo, nel mio sudore, e dalla spossatezza, cerco di poter rivivere una smarrita connessione con un mondo più vecchio, con una più essenziale armonia delle cose. Ciò che potrebbe sembrare minaccioso in una regione selvaggia, assume una nuova chiarezza quando uno l’attraversa per testimonianza di uomo. In qualità di artista, sento una profonda connessione con i più antichi fra gli artisti. Il loro disegnare è una rete attraverso cui io posso passare ed iniziare a vedere un’immagine riflessa di me stesso. Il mio amore per queste immagini sta nel fatto che, piuttosto che rivelare le loro vere storie, esse mi includono e mi permettono di rispondere intuitivamente all’immensa forza della loro presenza.”

Alfredo Saccoccio

 

 

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