Alta Terra di Lavoro

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“Se penzano ca sò quarche pacchiano… …nun sanno ca io sò Napoletano!”

Posted by on Dic 27, 2022

“Se penzano ca sò quarche pacchiano…    …nun sanno ca io sò Napoletano!”

Nel pomeriggio di giovedì 22 dicembre, grazie ad una lodevole iniziativa dell’Associazione Culturale I Lazzari presieduta da Davide Brandi, si è celebrato nella Chiesa di Sant’Anna di Palazzo ai Quartieri Spagnoli, il 400° anniversario della morte di Giulio Cesare Cortese, padre della letteratura barocca napoletana.

Molti, a cominciare dal sottoscritto che qui ne fa pubblica ammenda, formatisi alla cultura ufficiale che a poeti e scrittori meridionali dedica nelle antologie e nei vari testi di storia della letteratura si e no una mezza paginetta (se non solo un cenno nelle note) conoscevano questo scrittore solo di nome. Addirittura il suo nome non è neppure accennato nella pachidermica Storia di Napoli che la ESI pubblicò (senza mai completarla) negli anni ’70! Ora, però, grazie alla tenacia ed alla determinazione di Davide Brandi che, praticamente, vive di Napoletanità, sappiamo chi veramente sia stato questo poeta e che posto occupa nella storia delle Lettere della nostra terra.

Nato probabilmente a fine 1572, Giulio Cesare Cortese venne battezzato il 6 gennaio successivo nella chiesetta di Sant’Angelo a Segno in via Tribunali. Amico di Giovan Battista Basile, dopo aver vissuto alcuni anni a Firenze alla corte del granduca Ferdinando I de’ Medici, fu assessore a Trani e governatore di Lagonegro; viaggiò molto e fu anche ospite della corte spagnola.

Tra le sue opere, tutte ispirate agli aspetti pittoreschi di Napoli, ricordiamo la Vajasseide, poema che racconta la vita, i costumi, gli amori e le rivolte contro i padroni delle serve napoletane; Micco Passaro ‘nnammurato, che narra le imprese di un “guappo” napoletano e dei suoi compagni sullo sfondo di una lotta contro i fuorusciti di Abruzzo; il Viaggio in Parnaso, poema in cui si intrecciano argutamente motivi critici ed autobiografici con fiabe e racconti popolari[1] ed il leggiadrissimo e focoso poema eroicomico intitolato Lo cerriglio ‘ncantato che tratta di una rinomata osteria frequentata da notai, mastrodatti (funzionari giudiziari) letterati e poeti improvvisatori.[2]

I suoi lavori, tutti in lingua napoletana, sono il prodotto di quella corrente culturale che fu il Barocco il cui fine era quello di suggestionare il lettore, alimentato soprattutto nei Paesi di più stretta osservanza cattolica. Napoli, e lo testimonia il numero elevato (forse esagerato) di chiese sparse sul suo territorio, era più che cattolica, per cui offrì un humus culturale assai fertile in cui potesse esprimersi quel linguaggio giocoso, ornamentale e bizzarro, dove – come scrive il Brandi – si esaltano persino il “brutto”, il grottesco, il macabro… ma sempre con un atteggiamento di profonda simpatia umana verso i popolani protagonisti.[3] In genere, a questo stile artistico e letterario si dà un’accezione negativa e decadente; nei versi del Cortese, invece, come nella prosa di Giovanbattista Basile, Barocco significò una maniera propria di espressione artistica colorita, pittoresca e ricca di effetti.[4]

Giulio Cesare Cortese scrisse in Napoletano anche e soprattutto per prendere le distanze dall’ambiente fiorentino dal quale s’era staccato, a quanto pare, per un evento personale alquanto traumatico; passando, quindi, dall’esaltazione della donna angelicata alla carnalità della vajassa e decantando la donna napoletana rispetto a quella fiorentina, esaltò metaforicamente la lingua napoletana contrapponendola alla favella toscana.

Grazie alla sua produzione letteraria ed alla frequentazione dell’Accademia Linguistica Napoletana Schirchiate de lo Mandracchio e ‘Mprovesante de lo Cerriglio, pare già attiva dal 1614, Giulio Cesare Cortese può essere dunque considerato uno dei primi grandi “sponsor”della Lingua Napoletana.

Morì a Napoli il 22 dicembre del 1622 dopo aver scritto tante altre opere che purtroppo sono andate perdute. Fu sepolto nella stessa chiesa in cui pochi giorni fa è stato commemorato.

In qualsiasi altro Paese, in qualsiasi altra città, l’anniversario della morte di un autore di siffatta levatura, di un concittadino così illustre non sarebbe certamente passato inosservato né tanto meno ignorato dalle “autorità” locali. In qualsiasi altro posto tranne che a Napoli, dove il Potere politico e amministrativo, perennemente condizionato dai suoi paraocchi ideologici, è nemico giurato di ogni “altro” sapere; anzi, ne è agli antipodi. Lo dimostra il fatto che, in questa occasione, il sindaco, pur essendo stato più volte invitato a partecipare, ha negato la sua presenza. Allo stesso modo hanno agito i suoi assessori e tutti i consiglieri comunali ai quali è stato rivolto l’invito.

E pensare che il nostro “primo” concittadino, da docente universitario qual era, ha pure riservato a se stesso la delega alla cultura… figùrate!

Erminio de Biase


[1] Mario Santoro – Le stagioni della civiltà letteraria italiana – Firenze 1970 – p. 322

[2] Carlo Celano – Notizie della città di Napoli – Napoli – 1970 – vol. III – p. 1452

[3] AA VV – Profilo di storia della letteratura – Bergamo 2005 –  IV – p. 41

[4] Mario Sansone – Disegno storico della Letteratura italiana – Messina 1962 – p. 182

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