SBARCO DEI MILLE A MARSALA di GIUSEPPE BUTTA’….Cappellano dell’esercito borbonico
L’epoca seconda di
queste memorie non sarà creduta da’ posteri. Io racconterò fatti incredibili,
ma veri.
Ora cominciano le diserzioni dei soldati e degli uffiziali, la viltà e le
inesplicabili ritirate de’ Generali, ove non si vogliano chiamare
vergognosissimi tradimenti.
Un’anima nobile e dignitosa rifugge da queste rimembranze: è troppo tristo ricordare come una prode armata di circa 100,000 uomini fosse stata distrutta non già dal nemico, ma da varii dei capi stessi, i quali disonorarono il proprio paese, e quella divisa gallonata, che con tanta burbanza indossavano.
La striscia di sangue che bagnò la via da Boccadifalco a Gaeta sgorgò solamente dalle vene de’ soldati, i figli del popolo, e dell’ufficialità subalterna e se non fosse stato per questi, l’onor militare del disgraziato Regno di Napoli sarebbe rotolato nel fango.
Gli scrittori garibaldini descrissero pugne omeriche; ma la storia imparziale dirà, che le bande garibaldine sarebbero valse meno delle bande siciliane, se non fosse stata l’ignavia, la viltà, e il tradimento di alcuni duci napoletani. I fatti che racconterò saranno una splendida prova del mio asserto.
Dopo le vicende guerresche di aprile, la truppa era
rientrata ne’ quartieri, e riprendea le sue abitudini, e tutto sembrava quieto.
Il 13 maggio, corse voce, che Garibaldi fosse sbarcato in Marsala con 600
uomini di truppa piemontese.
Questa notizia fu tenuta per una favoletta, una spiritosa invenzione. Tutti dicevano: l’hanno detta assai grossa.
Conciosiachè le relazioni diplomatiche tra Torino e Napoli fossero cordiali, e quindi non era da supporre che quel Governo volesse tentare un’invasione in un Regno amico, senza alcuna ragione, almeno apparente, e senza intimazione di guerra, come si usa ne’ paesi civili.
Tuttavia la sera di quel giorno 13, la notizia venne confermata ufficialmente, ma corretta in questo modo: che Garibaldi fosse sbarcato in Marsala con più di 1000 volontari vestiti con camicia rossa: che i legni di guerra napoletani, cioè la fregata Partenope, e i due vapori Stromboli, e Capri, non avessero potuto impedire lo sbarco di quei volontari, perché protetti da due legni di guerra inglesi, l’Intrepido e l’Argo, partiti due giorni prima dalla rada di Palermo: che Garibaldi non venisse in Sicilia a far la guerra per ordine del Governo Sardo, ma per aiutare la rivoluzione siciliana.
Queste notizie furono accolte con entusiasmo dalla truppa; tutti desideravano essere condotti a Marsala per combattere Carlobardi, così i soldati chiamavano Garibaldi farsi onore ed ottenere decorazioni e gradi militari. Vi era pure un certo dispetto, che uno straniero si venisse ad immischiare nelle nostre lotte politiche.
Garibaldi, in Marsala, non trovò cordiale accoglienza. Il Municipio andò via, i marsalesi agiati fuggirono, le vie erano deserte. Di che fortemente indignato fece occupare le porte della città dai suoi volontarii, e dichiarò lo stato di assedio.
È necessario qui notare, che Garibaldi appena toccata la terra siciliana, che dovea redimere dalla schiavitù, per primo atto del suo inqualificabile potere dichiarò lo stato di assedio in una città non ostile, ma riservata e indifferente alla libertà e redenzione che volea largirle.
Il 14 maggio, Garibaldi ed i suoi volontarii partirono per Salemi, paese 20 miglia dentro l’isola, ove fu incontrato dal celebre padre Pantaleo di Castelvetrano, frate de’ Minori osservanti, oggi ammogliato e libero pensatore.
Alcuni duci gallonati di Palermo invece di attendere ed arrestare la marcia di Garibaldi, si bisticciavano tra loro: aveano perduta la bussola prima di mettersi in mare. Nondimeno dovendosi decidere a qualche cosa, si decisero pessimamente, cioè mandarono il generale Landi a combattere Garibaldi. Il Landi era stato comandante del 9° cacciatori, ed io non avea inteso buone notizie intorno alla sua delicatezza amministrativa e capacità militare.
Landi partì per Alcamo; il 14 maggio radunò in quella piccola città più di 3000 uomini di truppa scelta, avidissima di battersi: avea cannoni, cavalleria, e tutto quello che fa di bisogno ad un piccolo corpo di esercito in campagna. Il contenersi del Generale in Alcamo era come se si trattasse di una passeggiata o parata militare, in che riuscivano mediocri non poca parte de’ duci napoletani. Landi non prendeva alcuna precauzione, non dava quegli ordini che si richiedevano, avendo il nemico quasi di fronte: stava inoperoso.
Spinto dagli ordini urgenti del Luogotenente Castelcicala, si partì d’Alcamo per Calatafimi. Il 15 maggio anche Garibaldi con i suoi volontari, e le squadre siciliane, che avea raccolte, si spinse verso Calatafimi.
BATTAGLIA DI CALATAFIMI
Garibaldi si fermò prima di giungere a Calatafimi, e
sembrava incerto di ciò che si dovesse risolvere. Vedendo la truppa di fronte,
cercò scansarla; lasciò la via e prese i monti.
Landi per mostrare di far qualche cosa, prima che comparisse Garibaldi, avea
spinto verso Salemi il maggiore Sforza comandante l’8° cacciatori, ma con
quattro sole compagnie, per fare una ricognizione militare, e se attaccato,
ritirarsi.
Giunto lo Sforza non più lungi di un tiro di fucile da’ garibaldini, vide che lasciavano la via e prendevano i monti per evitare un combattimento. A questo i soldati non si contennero e si diedero a gridare che volevano battersi ad ogni costo. Il comandante Sforza protestò che avea altri ordini dal Generale, ma lo scambio delle fucilate cominciava, e lo Sforza finì di secondare il desiderio de’ suoi soldati, spingendosi alla loro testa ed attaccò vigorosamente i garibaldini.
La mischia fu terribile: i garibaldini si erano appiattati a terra, ed in quellaposizione facevano un fuoco ben nutrito. Prevalse però la bravura e disciplina delle quattro compagnie, e le bande rosse furono sgominate ed inseguite.
Menotti Garibaldi che portava una magnifica bandiera tricolore, venne ferito ad un braccio, ed obbligato di consegnarla ad uno de’ suoi compagni. Questi fu ucciso da un soldato napoletano di nome Angelo de Vito, il quale s’impadronì della bandiera che poi fu portata a Palermo. Era certa la disfatta di Garibaldi; de’ suoi, chi fuggiva, chi combatteva in disordine.
Il Landi, che certamente tutto vedea ed osservava da lungi, invece di spingere altri battaglioni che avea disponibili per compiere la non dubbia vittoria, diede l’ordine della ritirata, e cominciò a retrocedere verso Alcamo, senza avvertire il maggiore Sforza, il quale inseguiva i garibaldini. Costui avvertito che la colonna si ritirava verso Alcamo, non volle crederlo; quando poi si accertò con i suoi propri occhi, credè prudente anch’egli di ritirarsi, chè già cominciava a difettare di munizioni.
I garibaldini vedendo quella inesplicabile ed inattesa
ritirata della colonna Landi, presero animo: coadiuvati dalle squadre siciliane
che non aveano preso parte in quel combattimento, diedero addosso a’ regii, e
la scena cambiò totalmente.
In quella disordinatissima ritirata della truppa cadde una mula che portava un
obice. I soldati lo buttarono in un burrone, e di colà fu poi raccolto da’
garibaldini che ne menarono gran vanto.
Nella ritirata di Landi fu grandissima confusione. I battaglioni disorganizzati marciavano alla ventura, mischiati con carri, artiglieria o cavalleria: vi era un caos! Giunti ad Alcamo furono attaccati da’ ribelli che tiravano fucilate dalle finestre e da’ balconi: i soldati risposero con incendiare molte di quelle case ove si facea fuoco vivissimo. Lo stesso avvenne al passaggio di Partinico.
Il Landi fuggiva alla testa di quella truppa che avea
disorganizzata, e demoralizzata, e cambiava strada appena avea notizia di
qualche piccola banda che lo inseguiva.
Fu il primo ad arrivare a Palermo, ove fu seguito poi dalla sua colonna in
massimo disordine ed affamata.
Garibaldi a Calatafimi perdette centodieci volontari. Se le sole compagnie dell’8° Cacciatori, equivalenti a meno di cinquecento uomini, lo sbaragliarono e gli fecero quel danno, qual sarebbe stata la fine della temeraria impresa del futuro dittatore delle Due Sicilie, se Landi si fosse battuto con tutti i suoi?
Ma Garibaldi avea forse certezza che il duce napoletano si sarebbe condotto come realmente si condusse, ove si volesse ammettere come vera la notizia non mai smentita, e che io come semplice cronista riporterò: cioè che Landi avesse ricevuto da Garibaldi per prezzo della sua condotta, una fede di credito di quattordicimila ducati, che il Banco di Napoli trovò poi falsa, cioè, era di soli ducati quattordici; e che ne morì di dolore sorpreso da un colpo apoplettico.
Il fatto d’armi di Calatafimi segnò la caduta della Dinastia delle Due Sicilie; imperocchè il generale Landi non fu chiamato a dar conto della sua vergognosissima condotta, ed inesplicabile ritirata; ma quello che fa più meraviglia si è, che rimase al comando della brigata che avea disorganizzata e demoralizzata. Questo esempio incoraggiò i duci, o vili o traditori, a tradire impunemente.
INSEGUIMENTO DI GARIBALDI
Dopo Calatafimi, Garibaldi ingrossando sempre le sua bande di nuovi rivoluzionari, marciò per Alcamo, Partinico, e fece alto in un piccolo villaggio detto il Pioppo, tre miglia incirca sopra Monreale, meno di sette da Palermo, ove si trovavano ventimila uomini di buona truppa, e benissimo equipaggiata.
Dopo il fatto d’armi di Calatafimi il Luogotenente Castelcicala si dimise dall’alta sua carica e partì per Napoli. Corse voce nell’armata che si sarebbe recato a Palermo con l’alter ego il Conte generale Giuseppe Statella. Questa notizia fu accolta con entusiasmo, dapoichè il nome degli Statella era popolarissimo in tutta l’armata.
Quel Generale nato da una famiglia assai distinta, e di una antichissima aristocrazia siciliana, oltre di essere sufficientemente istruito, avea quelle qualità che si richiedevano alle condizioni dell’Isola: fedeltà incrollabile a’ Borboni, ereditaria nella famiglia Statella, un coraggio da reggere a qualunque prova, attivissimo, una fermezza di carattere ammirabile, severissimo per la disciplina militare: del resto uomo semplice e cordiale.
Era un uomo che non sarebbe venuto meno in qualsiasi difficoltà militare o diplomatica, perché in que’ casi avrebbe operato sempre alla soldatesca; oso affermare che avrebbe disubbidito al proprio Sovrano, se costui gli avesse dato un ordine da compromettere la Dinastia, o la dignità militare. Lo Statella si sarebbe fatto condannare da un alto consiglio di guerra anzichè eseguire un ordine pregiudizievole al Regno, alla sua dignità di gentiluomo e di Generale.
Oh! se il generale Statella fosse andato a comandare l’armata di Sicilia con pieni poteri, oggi Garibaldi non si chiamerebbe da’ suoi ammiratori liberatore e redentore dell’Italia Meridionale. Ma la setta che circondava il giovine sovrano, invece di mandare in Sicilia uno de’ pochissimi Generali che avrebbe salvata la Dinastia e il Regno, scelse il generale Lanza, che finì di uccidere l’armata di Palermo.
Il 20 maggio giunse in Monreale il colonnello Won Meckel col 3° cacciatori esteri, detti svizzeri, ma erano un’accozzaglia di svizzeri, francesi, boemi e bavaresi, de’ quali molti aveano combattuto sotto Garibaldi nel Varese.
Giunsero altri battaglioni e si formò una brigata sotto il comando di Meckel con i seguenti battaglioni: 3° esteri, 2° cacciatori, comandato dal maggiore Murgante, 9° cacciatori comandato dal maggiore Bosco, quattro compagnie del 5° di linea comandate dal maggiore Marra, quattro cannoni di montagna, pochi cacciatori a cavallo, e la compagnia d’armi di Palermo comandata dal capitano Chinnici. Tutti incirca quattromila uomini. In Monreale rimasero altri tre battaglioni sotto il comando del colonnello Buonanno.
Il 21 maggio la brigata Meckel marciò sul Pioppo. Sopra la Casina di Buarra trovammo gli avamposti di Garibaldi, erano bande siciliane. Appena cominciò il fuoco coteste bande si ritirarono sopra la montagna. Io vidi due soldati esteri che conducevano, anzi strascinavano un prigioniero, un’uomo già disarmato, e tra loro vi era un diverbio animatissimo.
Temendo che quel prigioniero patisse qualche sinistro, chiamai due soldati napoletani e corsi ad incontrare que’ tre. Il malcapitato era un uomo su’ 30 anni, senza cappello, in gran disordine. Gli aveano strappato il fucile, e se l’avea preso uno dei soldati esteri:gridava come un energumeno, dicendo: vili satelliti della tirannide, lasciate libero un cittadino che combatte per la libertà della sua patria, ed altre parole diceva, contro i soldati e contro il Sovrano.
Fortuna per lui che i soldati esteri neppure intendevano l’italiano, sebbene i due soldati napoletani capivano benissimo il dialetto siciliano, ed uno di questi alzò il fucile per darlo in testa al prigioniero: io lo contenni. Seppi che quel prigioniero faceva la professione di notaio in un paese vicino, ebbi a pregarlo e minacciarlo perché tacesse. Egli cercava di convertire i soldati e me con essi: io gli dissi di nuovo di tacere, altrimenti l’avrei abbandonato al suo destino, perché i soldati napoletani cominciavano a mormorare contro di me. Persuasi i soldati esteri a cedermi il prigioniero, lo ricondussi alla retroguardia raccomandandolo ad un uffiziale mio amico. Forse altri direbbe, quel notaio prigioniero essere un gran patriota, ed io affermo ch’era un gran fanatico, un gran pazzo da catena.
La brigata Meckel si avanzava baldanzosa contro il Pioppo. Una compagnia di cacciatori, comandata dal capitano Giudice, spiegata da fiancheggiatori, era giunta sopra l’alta collina che domina il Pioppo. Io vidi che i garibaldini fuggivano in disordine verso Partinico, e vidi che più di 50 carri di equipaggi aveano presa la stessa via. In quella sento la nostra tromba battere a ritirata. Io non volea credere né ai miei occhi, né a’ miei orecchi. Ritirata…! e perché? Vedo venire Bosco con una faccia che mettea paura: martirizzava il cavallo su cui montava, era al colmo dell’irritazione. Io che non era soggetto alla disciplina militare quanto erano soggetti gli uffiziali, ed avendo molto confidenza col Bosco, gli dissi: ritirarci, e perché? mi rispose con parole sdegnose ed inintellegibili e passò via.
Non ho avuto mai sicura certezza della vera causa di quella inesplicabile ritirata. Il Meckel non potea esser sospetto né di viltà né di tradimento; quindi non si parlò che di un ordine superiore venuto da Palermo, cui tutti attribuivamo quella ritirata che sembrava inesplicabile.
Intanto i soldati mormoravano e cominciavano a profferire la parola tradimento, e non si faticò poco a farli ritornare alla volta di Monreale.
Il capitano del Giudice mi dicea: dal sommo della collina, ove mi trovavo, avrei potuto distruggere la metà de’ garibaldini, facendo scorrere delle grosse pietre sopra di loro, ed avrei potuto benissimo tagliar la ritirata sopra Palermo: ma fu necessità ubbidire e ritirarmi.
Si giunse in Monreale; e lasciato tranquillo il nemico più pericoloso, che ormai avevamo nelle mani, si risolvette di mandare il capitano del Giudice con la sua compagnia a sorvegliare la valle di S. Martino ch’è dietro i monti di Monreale al Nord-Est. Costui giunto in quella valle fu assalito da una moltitudine di bande siciliane guidate da Rosolino Pilo, il quale fu ucciso in quel conflitto.
Garibaldi al Pioppo aspettava la rivoluzione di Palermo, e vedendo che non iscoppiava, come gli aveano promesso, trovandosi seriamente minacciato da’ regii, la notte del 21 maggio, riunì i suoi già dispersi per la paura che aveano avuta del tentato attacco della colonna Meckel, prese la via de’ monti a destra e marciò versoParco, piccolo paese fabbricato a metà della costa di una gran montagna, dirimpetto Monreale dalla parte del Nord-Est.
Fece una divisione in due colonne, una comandata da
lui accampò sull’alta montagna in un luogo detto Pizzodelfico, l’altra
comandata dall’ungarese Turr occupò Parco.
In Monreale era molta truppa e stava in ozio, perché si attendeano gli ordini
da Palermo. Intanto i soldati erano condannati a stare a bracciarmi in quella
che vedeano i garibaldini a Parco o su la montagna, occupati pacificamente alle
manovre militari.
Le mormorazioni de’ soldati cominciavano ad inquietarci, e non avvenne una rivolta militare perché né Bosco, né Meckel poteano cadere in sospetto di tradimento. Questa condizione di cose durò tre lunghi giorni. Se quello fu un tempo prezioso per Garibaldi, io lo lascio pensare a quelli che conoscono i raggiri della setta, e l’attività del duce nizzardo.
ENTRATA AL PIOPPO E IN PARCO
Finalmente la sera del 23 venne l’ordine da Palermo di attaccare i garibaldini. La brigata Meckel marciò la mattina seguente per la via di Renna per prendere i garibaldini di rovescio. Il generale Colonna partì da Palermo con un’altra brigata per attaccarli di fronte. Verso le 6 del mattino i soldati di Meckel avevano raggiunto Pizzodelfico, e si scagliarono contro i garibaldini, ma questi non opposero che piccola resistenza, e fuggirono inseguiti sulla cima della montagna, ove soffersero non poco danno a causa de’ luoghi alpestri e scoscesi: i soldati erano avvezzi a quelle marce, vantaggio che non aveano i nemici.
Un grosso distaccamento entrò in Parco dalla parte dell’ovest: Turr e i suoi fuggirono sulla montagna. Il generale Colonna era intanto alle mani con le bande siciliane fortificate nella semipianura sotto Parco, dalla parte di Palermo; dopo di avere fugate quelle masse di gente armata che combattea da dentro le case di quella campagna, si avanzò su Parco, ove non trovò più nemici da combattere.
In cambio d’inseguire un nemico che fuggiva in disordine, e tanto più che le bande siciliane cominciavano a sciogliersi, e dar la volta verso i loro paesi, si diede ordine che la truppa restasse lì ove era; e così il nemico ebbe il tempo di riaversi e riordinarsi. Si vide che il generale Lanza che comandava da Palermo non volea far davvero.
Io entrai in Parco, e trovai che il paese era stato manomesso da’ garibaldini e dalle bande siciliane. La maggior parte degli abitanti erano fuggiti all’arrivo de’ garibaldini. Le povere donne e i fanciulli rimasti si erano rifugiati nelle Chiesa madre, altre donne e fanciulli nell’unico monastero che vi era in quel paese.
Mi diressi a quelle poche persone che incontrai, e seppi ove si erano rifugiate le donne ed i fanciulli. Mi recai alla Chiesa, trovai uno spettacolo tristo: il sacro tempio era gremito di quegli infelici spaventati e piangenti. Io feci di tutto per confortarli, e li persuasi a seguirmi, assicurando loro che li avrei ricondotti nelle proprie abitazioni. In fatti mi convenne far molti viaggi per condurli in diversi punti del paese. Le povere monache mandarono una persona a pregarmi che mi recassi subito al monastero, ove trovai un’altra scena desolante. La maggior parte di quelle donne, riparatesi nel monastero, erano ammalate, quali svenute, tutte spaventate.
Molte di quelle donne mi seguirono, ed io le condussi alle proprie case. Però le derelitte monache stavano sempre in gran paura, perché la sera precedente si era tentato scalare le alte mura del monastero. Io a volerle difendere da qualunque aggressione, me ne andai subito a pregare il comandante Bosco che mi assegnasse un distaccamento di soldati da me scelti per guardare quel monastero, per quietare la paura delle monache. Il Bosco non se lo fece dire, mi diede subito 30 soldati, ed un sergente di mia fiducia, i quali si posero a far la guardia intorno al monastero.
Ne’ tre giorni che i garibaldini dimorarono in Parco, furono scassinati non pochi magazzini, in particolarità quelli che conteneano vino, e tutto era stato messo a saccheggio. Ladri del paese, garibaldini e squadre siciliane, tutti aveano saccheggiato, chi più chi meno.
Qui debbo avvertire che i soldati della brigata Colonna, i quali rimasero nel paese commisero azioni indegne non solo di chi veste una divisa militare, ma di chi è nato in paesi civili. Quei soldati istigati da’ ladri del paese, e sommamente digiuni, perché la truppa tante fiate restava digiuna per la incuria de’ comandanti, finirono di saccheggiare magazzini già saccheggiati, e ne saccheggiarono altri.
Alcuni compagni d’armi rubavano pure nelle case deserte de’ proprietarii. La sera del 24 maggio il Parco era un disordine indescrivibile. I soldati della brigata Colonna erano quasi tutti ubbriachi, e non sentivano più né preghiere né minacce. Io mi rivolsi a molti uffiziali perché mi aiutassero a mettere a dovere i soldati, ma nulla ottennero. Il male lo fecero i duci, i quali lasciarono così affamata la truppa in un paese mezzo saccheggiato. Io non credo di errare se dico, che alcuni duci napoletani fomentassero indirettamente que’ disordini per disonorare la causa del proprio sovrano, che fingevano di difendere.
Fortuna per le povere monache che il distaccamento
datomi da Bosco, vegliò intorno al monastero per tutta quella infausta notte.
Io addolorato e vergognoso di que’ disordini che vedea, e che non potea impedire,
uscì dal paese salì un poco la montagna, e mi recai al Camposanto, ov’era
accampato il 9° cacciatori, ed ivi passai la notte coricato sopra le sepolture.
La mattina del 25 di buon’ora battè la generale, e tutti partimmo per la piana de’ Greci. La truppa si riunì tutta sulla montagna, cioè tra le due brigate di Meckel e l’altra di Colonna, e da lì marciò in ordine di battaglia.