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Se riparte il Sud di Fiorentino Bevilacqua

Posted by on Ago 5, 2019

Se riparte il Sud                       di Fiorentino Bevilacqua

Se riparte il Sud – si sente alla radio, in TV, sui giornali, nel web – riparte il Paese”.

Almeno una volta nella vita lo hanno detto tutti: politici, economisti, commentatori, giornalisti.

Siccome la frase non è di questi giorni, ma va in giro da molti lustri, viene da chiedersi come mai il Sud non sia già ripartito…

E’ quasi come dire… “Se prendo l’aspirina, mi passa il mal di testa”; ma l’aspirina non la prendo e quindi il mal di testa mi rimane. Perché non prendo l’aspirina? Semplice: non la assumo perché sono allergico ad essa.

Allora, perché il paese Italia non prende l’aspirina della ripartenza del Sud? C’è forse qualche forma di…allergia?

Si potrebbe anche pensare che la colpa sia della politica che, capace di trovare le soluzioni giuste, è poi incapace di attuarle. Oppure che, come nel caso dell’aspirina, ci sia qualche controindicazione, qualche effetto collaterale, un “costo”, insomma, in termini economici e politici, che ne sconsiglia l’ “assunzione”.

Quale può essere questo “costo” e chi, eventualmente, lo pagherebbe?

Analizziamo quella affermazione…

Che vuol dire che riparte il Sud?

Vuol dire che il Sud dovrebbe avere un apparato produttivo, in termini di piccola, media ma anche grande impresa, pari, almeno, a quello del Nord: un “diffuso” apparato di “opifici”, come quello che aveva prima del 1860, prima dell’arrivo dei Garibaldesi-Piemontesi1; vorrebbe dire anche che il Sud dovrebbe avere, nei rapporti commerciali tra il paese Italia e l’estero, quelle stesse facilitazioni e corsie preferenziali riservate, dagli ultimi accordi, per il 99%, alle attività produttive del Nord.

Ma se questo fosse attuato, se il Sud fosse capace di prodursi gran parte di quello che gli serve, sicuramente ne trarrebbe beneficio: avrebbe più posti di lavoro, più introiti, molte più infrastrutture e così via.

Ma tutto ciò potrebbe avere un costo, un ritorno negativo per qualcun altro?

Per rispondere a questa domanda bisogna vedere come stanno oggi le cose, da dove vengono quei prodotti che il Sud oggi acquista da “fuori Sud” e un domani si produrrebbe nel suo territorio (magari esportandoli in parte altrove).

Questo ci aiuterebbe ad individuare chi sarebbe penalizzato dalla rinascita del Sud e, quindi, chi svilupperebbe una sorta di “allergia” nei confronti di essa.

Tenuto conto, per esempio, che nel periodo 1995-2005 il 60% del PIL della Lombardia è stato generato dal prodotti da questa regione venduti al Sud (e che lo stesso può dirsi, sia pure con percentuali diverse, del Veneto e di altre regioni), tenuto conto dei fondi europei destinati al Sud e finiti al Nord; dell’assassinio delle Banche del Sud – a fronte dell’inverecondo salvataggio di cadaveri di banche del nord-nord est – e che questo consente, a banche del Nord, di drenare il risparmio del Sud e di investirlo soprattutto o totalmente al Nord (cosa questa iniziata appena dopo il 1860), si capisce che il mal di testa del Paese è, in realtà, il mal di testa del Sud e che l’aspirina della ripartenza farebbe bene al Sud ma causerebbe un’orticaria economica, politica e sociale al Nord.

Dunque, la “controindicazione”, l’effetto collaterale che impedisce al Sud di guarire è l’effetto che questa guarigione avrebbe sul Nord.

Se riparte il Sud, in questa Italia nata male, il prezzo lo paga il Nord.

In fondo, a rileggere bene la storia, l’Italia una per questo è nata. Per far ripartire chi, allora, era sull’orlo del baratro economico (il Regno di Sardegna) a spese e a danno di chi, avendo attuato una politica non guerrafondaia, più accorta e lungimirante, aveva meno debiti, più riserve e un “PIL” migliore: quel Regno delle due Sicilie che diventerà “Sud” a partire dal 1860, ma che già prima lo era nelle idee e nelle intenzioni di coloro che questo progettavano: <<Napoli starà peggio, ma noi staremo meglio>> si sentì dire Francesco Proto, a Firenze, prima dei fatti unitari2.

Nata così, col “mal di testa” generatore dell’Italia fintamente unita, questo malessere non poteva che diventare costituzionale, essenziale e, perciò, permanente: se salta, salta l’Italia “unita” così come l’abbiamo conosciuta finora.

Fino ad adesso, per generare (contro il volere dei nostri avi di allora) e tenere in piedi questa Italia falsamente “una”, il prezzo lo abbiamo pagato noi del Sud, ex Regno delle Due Sicilie (trasformati, oltretutto, in una massa di inconsapevoli, funzionali, negri da cortile, nella quale, fino a pochi anni fa,pochi, pochissimi, conservavano accesa la fiammella della conoscenza e della speranza).

Ma è lecito dubitare che il Nord sia disposto a pagare la sua quota di sofferenza economica, sociale e politica per costruire, oggi, un’Italia veramente unita.

Quest’ultima ha, dunque, il suo vero nemico non nei revisionisti del Sud, non nel Sud che reagisce, che vuole ciò che è suo, ma nel Nord attaccato alle sue prerogative molto poco unitarie.    

Come se ne esce allora?

Forse serve una generazione di politici nostri, espressi dai nostri territori, che, formata alla verità storica, quella che emerge delle riletture dei tanto ostracizzati revisionisti (marxisti, neoborbonici, borbonici, legittimisti, insorgenti, identitari etc.) abbia a cuore le sorti dei Territori che rappresenta e non sia disposta a svenderli agli interessi del Nord né a nessun altro interesse spurio, anche locale, anche di “gruppo”.

Questi politici potrebbero non essere mai passati nella fila di questi movimenti revisionisti; l’importante è che siano passati per la cultura che dal revisionismo emerge, traendo da essa spunto e fondamento.

Non è facile; ma nemmeno è impossibile.

Fiorentino Bevilacqua

04.08.19

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  1. De Crescenzo, G., Le industrie del regno di Napoli, Grimaldi & C., 2012
  2. Proto, F., La mozione d’inchiesta per le province Napoletane. Al Primo parlamento d’Italia, Napoli, Alessandro Polidoro, 2015

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