SELVAGGI E FERRARELLI PER LA DIGNITA’ MILITARE DUOSICILIANA
Tra i libri più validi e curati per la conoscenza reale e non retorica – dolosamente retorica da parte dei conquistatori del nostro Sud – segnaliamo il classico studio di Roberto M. Selvaggi: “NOMI E VOLTI DI UN ESERCITO DIMENTICATO“ – GLI UFFICIALI DELL’ESERCITO NAPOLETANO DEL 1860 – 61 – Napoli, Grimaldi & C. Editori 1990.
La prefazione dell’autore che riportiamo, è un distillato del lavoro meticoloso
e certosino che ha contribuito alla restituzione della dignità militare
duosiciliana che la vulgata forzatamente indotta dalla educazione della Nazione
Italia ha con basso profilo e grande cialtroneria definito
“l’esercito di Franceschiello”.
Accanto a questo segnaliamo il libro di Giuseppe Ferrarelli “Memorie
Militari del Mezzogiorno d’Italia”, pubblicato da Laterza nel 1911 con
una prefazione di Benedetto Croce .
Ferrarelli fu un giovane ufficiale borbonico educato alla Nunziatella di
Napoli, la prestigiosa accademia militare officina di soldati di gran valore;
egli rappresenta emblematicamente quei militari duosiciliani che tradendo il
giuramento borbonico, aderirono all’esercito italiano.
Il Ferrarelli ebbe però il raro merito rispetto alla ufficialità camaleontica
meridionale di ricredersi e di rifiutare le umiliazioni e derisioni a cui i
vincitori graduati piemontesi li sottoposero: si ritirò ancor giovane, denunciò
“l’unificazione d’Italia che fu, negli anni seguiti al sessanta, compiuta
brutalmente, non fu italiana ma francese e giacobina, senza tener conto delle
diversità regionali che sono forze da non dispregiare, distruggendo a furia
formazioni storiche che potevano sopravvivere e cooperare efficacemente nella
nuova storia italiana…mentre prevalsero il piemontesismo e la livellazione…”.
Lo stesso Ferrarelli quantunque affiancato al criminale generale Pinelli nella
campagna di guerra – invero di conquista – del brigantaggio “costretto ad
assistere a fucilazioni talvolta precipitose di borghesi, chiese ed ottenne di
essere trasferito a Bologna, perché disse francamente al Pinelli ch’egli si era
preparato a far la guerra, ma non le fucilazioni.” (1); infine il Ferrarelli
trascorse la sua vita nella scrittura e commemorazione dell’esercito borbonico
e degli ufficiali educati dalla Nunziatella, seppure una sua mitezza di
carattere gli impedì di denunciare in modo netto talune responsabilità degli
stessi nella umiliazione di una tradizione militare meridionale, sarebbe stato
d’altro canto chiedergli troppo, egli stesso faceva parte della cordata…
(1) Cit. la prefazione di Benedetto Croce al libro “Memorie Militari…” e “PAGINE SPARSE” DI Benedetto Croce “Giuseppe Ferrarelli” pp.193-195, Ricciardi Editore Napoli, MCMXLIII. Croce era nipote di Ferrarelli.
Dal
testo di Roberto M. Selvaggi
…Il 20 maggio 1860, Giuseppe Garibaldi, con un migliaio di volontari, sbarcava a Marsala e iniziava la trionfale marcia verso Napoli, dove sarebbe entrato, il 7 settembre 1860, meno di cento giorni più tardi. Per fronteggiare l’aggressione, il governo napoletano poteva contare sulla prima flotta italiana e su di un esercito di più di cinquantamila uomini.
La truppa, ben addestrata, fedele alla dinastia, era desiderosa di combattere e soprattutto di vincere. L’ufficialità, a cominciare dalla classe dei generali, veri responsabili dello sgretolamento dell’esercito, sia in Sicilia che in Calabria, era profondamente divisa fra coloro i quali ritennero di dover contribuire alla disfatta, per agevolare la conquista garibaldina, e fra quelli che ritennero di dover difendere onorevolmente l’indipendenza del regno meridionale e la dinastia regnante.
Nel mezzo di queste due posizioni si collocò una nutrita parte di loro, che non fece nulla, se non attendere passivamente gli eventi per poi decidere, nel momento più opportuno, di passare con il cavallo vincente. in Sicilia, a cominciare dal primo impatto con Garibaldi a Calatafimi, dove il decrepito generale Landi, non impegnò che una piccola parte delle sue forze, rinunciando alla vittoria sin dal primo momento, pur di garantirsi la ritirata verso Palermo, i soldati si batterono bene quando furono guidati da ufficiali coraggiosi, come a Catania ed a Milazzo.
I generali non furono all’altezza del compito e, con i primi insuccessi, iniziò a serpeggiare il disfattismo strisciante che ebbe il suo culmine nello sfacelo delle truppe napoletane in Calabria.
Nel giugno del 1860, Francesco II concedeva la costituzione perdendo il controllo dell’armata che passava al ministero della guerra affidato al generale Giuseppe Salvatore Pianell. A lui spettò il compito di organizzare la difesa delle province continentali.
La sua condotta ambigua e oscillante, la scelta dei comandanti di brigata, la dislocazione dei reparti, i meno affidabili dell’esercito, fece sì che la resistenza non ci fosse affatto e
Garibaldi, in sole diciassette giorni, poté giungere indisturbato a Napoli.
Francesco II decise, riprendendo le sue prerogative, di abbandonare la capitale e la difesa sulla linea di Salerno. Lo fece per un motivo preciso ignorato dagli storici. Volle poter tentare un’ultima resistenza, potendo contare su una ufficialità fedele e decisa a giocare le ultime carte con coraggio e con valore.
Non a caso affidò il comando dell’esercito, forte ancora di trentamila uomini bene equipaggiati, a un generale, forse non dotato di particolari qualità strategiche, ma sicuramente devoto alla dinastia ed al paese.
Il 7 settembre fu l’ora della verità per l’ufficialità napoletana e molti preferirono dare le dimissioni dal servizio, molti passarono con Garibaldi e la maggior parte si riunì sulle rive del Volturno dove, con spirito di sacrificio, affrontò valorosamente l’ultima campagna che si concluse con l’eroica difesa di Gaeta, chiudendo con onore l’ultima pagina della sua storia.
La storia militare di quegli ufficiali ebbe termine con la res di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, mentre iniziava la diaspora voluta dai piemontesi che si comportarono da conquistatori e non da italiani.
Soltanto i due generali Pianell e Nunziante vennero immediatamente ammessi nell’esercito italiano col grado corrispondente a quello che avevano nell’esercito napoletano.
Tutti gli altri vennero affidati a uno scrutinio selettivo, a seconda del loro grado di italianità o, per meglio dire, di lealtà verso la deposta dinastia. Ad essi vennero riconosciuti i gradi avuti fino al 7 settembre del 1860, quasi che i successivi atti di valore e la fedeltà ad un giuramento, fossero motivo di biasimo e di punizione.
Fu così che uomini valorosi giunti ad aver meritato fino a due promozioni, al termine dell’assedio di Gaeta, dovettero scegliere tra il congedo e l’umiliante ammissione nell’esercito italiano con il vecchio grado.
Ufficiali di giovane età vennero messi a riposo, non senza averli prima costretti a giurare fedeltà al nuovo governo, in maniera che, se avessero preso le armi o la semplice parola contro il nuovo ordine di cose, sarebbero stati giudicati da un tribunale militare. Molti varcarono così le porte delle carceri militari del Piemonte per il solo motivo di essersi rifiutati di prestare giuramento.
Molti subalterni si dettero alla macchia e parteciparono alla resistenza armata, comunemente battezzata “brigantaggio”, rischiando la vita davanti ad un plotone di esecuzione. Molti dovettero condurre una vita di stenti e di miseria.
Quelli poi che furono ammessi come effettivi nell’esercito italiano furono sottoposti allo scherno ed al sarcasmo dei colleghi piemontesi e furono inviati in lontane guarnigioni dell’alta Italia o, peggio, furono destinati alla lotta al “brigantaggio”, trovandosi costretti a combattere contro i propri concittadini per poter sopravvivere.
A questo amaro destino non si poterono sottrarre nemmeno quelli che avevano contribuito fattivamente alla conquista garibaldina. Non pochi furono i casi di suicidio e di espulsione dall’esercito per “viltà” nella lotta al “brigantaggio”. Le istituzioni militari dell’antico regno, come quelle civili, vennero spazzate via dal governo unitario e con la distruzione sistematica e spesso violenta della memoria, sull’esercito napoletano cadde un velo d’oblio.
E’ stato difficile persino poter ricostruire i nomi dei caduti nelle campagne del 1860, perché ai napoletani non fu consentito di onorarne la memoria. Senza l’acquisizione da parte dello stato italiano, in tempi ancora recenti, dell’archivio di Francesco II, questo libro non avrebbe potuto essere scritto perché, il lavoro di distruzione fu meticoloso e completo nel periodo successivo all’unità.
E’ utile ricordare che negli anni che vanno dal 1861 al 1870, nelle province meridionali, era sufficiente avere in casa un ritratto dei sovrani spodestati o semplicemente una medaglia o una uniforme, per non parlare di una sciabola, per essere processati e incarcerati.
Con un paziente lavoro anagrafico e di ricerca ho cercato di riscrivere quella storia le biografie di quei militari dimenticati, sia di quelli che dettero il loro contributo alla formazione dello stato unitario che di quelli che ritennero di dover difendere l’autonomia meridionale combattendo fino all’ultimo.
La ricerca non ha pretese letterarie e scientifiche ma potrà essere di valido aiuto a chi vorrà approfondire la storia della fine del Regno di Napoli….
Sebastiano Gernone