Situazione del Regno sotto la luogotenenza destituzione di Farini la reazione nelle provincie
Voglio ricordare che tale documento e stato scritto da un testimone dei fatti,quindi data la preziosa importanza del testo ne consiglio un attenta lettura.
Il nostro lavoro già si avvicina alla fine, altro non ci resta che raccontare gli ultimi avvenimenti di Gaeta che sono i più pietosi, i più sconfortanti, i più terribili, e ne’ quali si denuda da una parte l’umana nequizia, dall’altra parte la fede, il coraggio, l’abnegazione e la carità più sublime.
Napoleone III, che oggi l’Europa chiama il crimine coronato, il codardo vinto a Sedan, già si toglie la maschera di protettore di Re Francesco II, e fa vedere la sua laida faccia di settario e traditore. Egli, abusando di quella potenza che gli dava la nobile Francia, scese alla viltà d’ingannare e tradire il debole, la virtù sventurata! Ma vi è un Dio: e se l’insipiente disse nel suo cuore non esservi, fu perché avea il cuore corrotto, però la mente l’obbliga a riconoscerlo nelle sue stesse opere, dappoichè i cieli narrano la sua gloria. Napoleone III che si rideva della virtù e di Dio li riconobbe in sè nella sua terribile punizione; quando vilmente dovette depositare la spada e la corona, bruttate da delitti e da sangue, a piè del Re di Prussia: ed è da supporsi ch’egli abbia in quel momento esclamato con Giuliano apostata: hai vinto Galileo… !
Napoleone, che simulava la parte di protettore, avea isolato Francesco II da’ suoi naturali amici ed alleati; e così, vedendolo privo d’ogni umano soccorso, gl’impose l’armistizio da durare appunto quanto occorresse a montar nuove batterie ostili, abbandonandolo quindi per farlo seppellire sotto le fumanti ruine di Gaeta!
La mattina del 19 gennaio, vennero a Gaeta per mare, il generale Menabrea, e il colonnello Piola ad intimare la resa della Piazza, promettendo uscita libera al Re e alla Regina, offerendo onori di guerra alla guarnigione, soldo e riconoscimento di gradi a tutti gli uffiziali: ebbero negativa; insistettero, ed ebbero un secondo rifiuto.
La sera di quello stesso giorno 19 gennaio, la flotta francese abbandonò Gaeta. Il Re, sempre clemente e pietoso, lasciò libero agli uffiziali e soldati di andarsene alle loro case: tutti rimasero, solamente partirono tre uffiziali e centotrenta soldati, i quali, per l’affranta salute, piangendo lasciarono Gaeta.
Gaeta era già chiusa da terra e da mare: eravamo sopra un nudo scoglio separati dal consorzio degli altri uomini; abbandonati alla ferocia di un nemico che ci rinfacciava l’onor militare, l’abnegazione, la bravura; e di più ci minacciava castighi esemplari!
I giornali, così detti liberali del Regno, pubblicavano in que’ tempi contumelie contro i difensori di Gaeta, e contro il Re, dichiarandolo reo di lesa umanità, ed anche stolto lo proclamarono. E voi che cosa eravate e siete, scribacchini da un soldo?! voi che chiamavate stolto un giovine e valoroso Sovrano che salva l’onore di quella patria che avete venduta e rinnegata? Andate, con voi è tempo perduto il ragionare: voi scambiando il senso alle parole, chiamate virtù il vizio e vizio la virtù; voi siete i veri dannati di Dante, quelli che hanno perduto il ben dell’intelletto.Poco prima che la flotta francese partisse, molti Sovrani aveano dichiarato che non avrebbero riconosciuto il blocco di Gaeta; ma Napoleone III, con la sua temuta influenza, soffogava tutte le buone risoluzioni a favore di Francesco II. Persano, detto allora l’eroe di Ancona, oggi il vinto di Lissa, il padrone delle acque, sapendo che Napoleone era tutto pel Piemonte, il 20 dichiarò il blocco e l’annunziò al Governatore di Gaeta. Questo risposegli che il blocco non era legale, perché non vi era stata dichiarazione di guerra: del resto, soggiungeva, poichè avete aggredito il Reame con tanti mezzi d’iniquità, poco importa una illegalità in più.
Napoleone, il 17 gennaio, avea fatta pubblicare nel Moniteur, che la flotta lasciava Gaeta per ragione del non intervento, e per evitare la effusione del sangue. Cioè per farla meglio bombardare anche da mare!
Ma, qui gladio ferit glaudio perit: il non intervento, ch’egli proclamava sì alto nel 1860, dopo 10 anni servì contro di lui a farlo rotolare dal più possente trono del mondo nella più degradante abbiettezza. Ed egli ancor vivente vide i suoi protetti e le sue creature rendere a’ suoi carceriere, agli stessi nemici della Francia!
Partita la flotta francese, finito l’armistizio, si aspettava da un momento all’altro il principio della gran lotta, nella quale tante umane creature doveano essere mutilate e distrutte!
Quella tregua si protrasse fino alla mattina del 22. Sulle ore otto antimeridiane di quel giorno, la batteria Regina trasse il primo colpo, e tutte le altre batterie di fronte di terra seguirono l’esempio, tirando su quelle avverse del colle de’ Cappuccini, e colle Lombone; e siccome quelle batterie erano le più vicine alla Piazza, questa le ridusse al silenzio per più ore. Invece quelle del colle Tartano traevano alla sicura, perché i nostri proiettili non giungevano fino a quel Colle.
Tutti i proiettili che lanciavano i Piemontesi cadeano dentro Gaeta, ad eccezione di quelli che scoppiavano in aria, ed arrecavano più o meno danni; al contrario, quelli che lanciavano le nostre batterie, soltanto una quarta parte giungevano al segno, ed anche giungendo non arrecavano a’ nemici che poco danno perché privi di velocità e di forza.
Alle 11 antimeridiane, tutte le batterie del nemico traevano colpi disperati contro Gaeta, e gli assediati rispondevano energicamente. Gaeta era avvolta in un turbine di fumo e di fiamme, non si vedeva, non si sentiva più cosa alcuna, se non lo scoppio de’proiettili nemici, e il rombo de’ nostri cannoni, che formavano un frastuono continuo, lugubre e terribile. Le case riunivano ed ardevano, le strade erano impraticabili per le macerie e per lo scoppio de’ proiettili nemici.
Il Re, il conte di Trani e quello di Caserta dirigevano il fuoco sopra le batterie. La Regina Maria Sofia, montata a cavallo, accompagnata dal generale conte di Ruffano ed altri, correva ovunque in cerca di feriti e di sofferenti, e a tutti arrecava soccorsi e consolazioni.
Mentre eravamo in questo stato tristissimo ed indescrivibile, ecco Persano che si accosta alla Piazza con undici legni tra fregate e cannoniere, la maggior parte napoletane, per darci uno spettacolo terribile in apparenza, innocuo in realtà. L’eroe di Ancona, con tutte quelle navi da guerra, si fermò fuori tiro e cominciò a scagliare delle cannonate alla direzione della batterie Guastaferri e S. Maria; ma nessun proiettile vi giungeva, tutti cadevano nel mare da 100 a 150 metri lontani. Allora i marinari cannonieri napoletani saliti sopra i parapetti fischiarono que’ della flotta Sarda. Parecchi di que’ marinari affettavano posizioni indecenti e grottesche.
Dopo circa tre ore che Persano cannoneggiava inutilmente, dapoichè tutti i proiettili che intendea regalarci cadeano nel mare, e molti scoppiavano anche sott’acqua, una nave Sarda, la Conferenza, osò accostarsi a tiro, forse per castigare gl’insulti che faceano alla flotta i cannonieri napoletani, ma subito percossa dalla batteria Guastaferri, era per affondare, onde soccorsa d’altre navi, queste vennero a tiro de’ nostri cannoni.
Quelle navi, presente il Re e la Regina, ebbero tali danni che furono costrette a voltare non più verso Mola, ma dalla parte dell’isola di Ponza per iscansare i colpi delle altre batterie. Quelle bravate dell’eroe di Ancona misero il buonumore e l’allegria ne’ difensori della Piazza, che fu accresciuta dalla vista di moltissimi grossi pesci, che stavano a galla morti sotto le batterie. I soldati scesero immediatamente al mare e ne raccolsero una gran quantità. Que’ pesci, com’è da supporsi, erano stati uccisi da’ proiettili scoppiati sottacqua. E così il grande Ammiraglio Persano, invece di far la guerra a’ fratelli meridionali, la fece a’ muti abitatori delle onde. Tal circostanza ci fornì di un ottimo cibo desiderato in quei tempi di tante privazioni.
Il ripetuto eroe di Ancona, che avea detto: Gaeta cadrà come Gerico al rombo dei miei cannoni, per iscusare i soliti insuccessi piemontesi, disse poi che quella Piazza, dalla parte di mare, era meglio fortificata di Cronstadt. E volete una prova che Persano sia rimasto umiliato sotto Gaeta? egli tanto loquace e bugiardo nel raccontare nel suo Diario le bravate di Ancona, del Garigliano e di Mola, neppure fa cenno de’ suoi insuccessi del 22 gennaio e degli altri giorni dell’assedio e del blocco di Gaeta!
Però ben altro avveniva al fronte di terra. Le sedici batterie nemiche vomitavano ferro e fuoco sopra Gaeta; le nostre rispondevano con uguale energia, ma con cannoni antichi, i di cui proiettili giungevano solamente a percuotere tre in quattro batterie del nemico: i soli pochi cannoni rigati rispondeano alle altre batterie e non a tutte. In effetti quella batteria che dirigeva Cialdini in Castellone montata di cannoni detti cavalli, restava immune da’ colpi della Piazza perché lontana 4700 metri!
Una granata partita dalla Cortina S. Andrea ruppe sulle batterie de’ Cappuccini, e diede fuoco alle munizioni del nemico arrecandogli non lievi danni.
Quel giorno 22 gennaio, che fu uno de’ tre più terribili giorni di bombardamento che sostenne Gaeta, non avvennero scoppii di polveriere. Quel giorno la Piazza scagliò 10679 proiettili, il nemico ne scagliò circa la metà di più, e non caddero in Gaeta che quelli solamente che scoppiarono in aria. Le batterie soffersero poco, la città moltissimo. Le strade erano ingombre di macerie, ed in molte non poteasi transitare in alcun modo. Le fortificazioni del fronte di mare, grazie a Persano, rimasero incolumi.
Degli assediati morirono dieci soldati, e il maggiore Solimene che spirò all’Ospedale di Torrionfrancese mentre gli si amputava un braccio. Furono feriti centododici soldati, e tre uffiziali, cioè Taragioli, de Filippis e Bonocuore.
La fregata a vela Partenope, ancorata nel porto ebbe qualche danno da’ proiettili lanciati dalle batterie di Castellone. Il piroscafo Etna si affondò a metà, ed altri piccoli legnii della Dogana. La notte quando il nemico proseguiva a bombardare con la stessa furia del giorno, i soldati posero un poco a galla Y Etna e gli altri legni doganali.
La mattina del 23, le batterie nemiche, che aveano sofferto, sospesero il fuoco per riparare i danni; si tirava contro la Piazza da Castellone, d’onde ci mandavano quelle Charaphenel di un calibro straordinariamente grande.
La notte era meno fatale agli assediati, potendosi in parte scansare i proiettili, perché si vedevano venire con le micce accese: ma le Charaphenel, come ho detto, non si vedevano venire, si sentiva l’orribile fischio e scoppiavano immediatamente.
A tanti mali che ci circondavano, si aggiunse il tifo; dopo il 22 gennaio vi fu qualche giorno che perirono cento e più soldati di quel morbo. Il Re e la Regina, sprezzando il contagio, come sprezzavano le bombe, esponendosi a tutti i pericoli, visitavano gl’infermi degli ospedali.
Dopochè i Sardi, ripararono i danni alle batteria vicine la Piazza, cominciarono a far fuoco contro di noi senza interruzione, il giorno e la notte: essi sentivano rumoreggiare la reazione dietro le loro spalle, raddoppiavano gli sforzi per far capitolare Gaeta, sperando che il Regno si acquietasse, e la gente venisse ad ubbidienza dopo la partenza di Francesco II.
Dal 22 gennaio sino al 13 febbraio (meno due giorni) Gaeta fu bombardata continuamente. Io ora mi maraviglio come avessimo potuto mangiare, dormire e vivere in quelle 23 giornate e nottate d’inferno! Nelle città sopra le batterie, ed in tutta la penisola di Gaeta, si camminava sopra le schegge di bombe, granate e Charaphenel.
Cosa incredibile, ma vera; eravamo in carnevale, ad onta di tanti danni ed infiniti pericoli, i soldati non vollero tralasciare di sollazzarsi, e molti si vestirono in maschera. Era cosa veramente che facea ridere, vedere parecchi marinari cannonieri vestiti con acconciature strane ed allusive, stare sulle batterie e far fuoco contro il nemico. Spesso lasciavano i cannoni e passeggiavano sopra i parapetti per meglio farsi vedere da’ Piemontesi, ai quali faceano tante smorfie; e quando qualche proiettile scoppiava in aria o cadeva fuori la Piazza, cominciavano a fischiare da non finirla più. Si giuocava con la morte! I superiori e il Re tolleravano quelle buffonate per mantenere il buonumore della Piazza, e perché raddoppiavano l’energia de’ soldati. Io vidi de’ feriti vestiti in maschera condotti all’ospedale d’altri vestiti dallo stesso modo, che facevano ridere anche un Democrito.
Veniva di tratta in tratto in Gaeta un piroscafo spagnuolo con dispacci diretti al Ministro di Spagna. Persano non lo fece più passare a causa del blocco. Al contrario un altro piroscafo francese mercantile lo Sphynx, col favor delle tenebre, eludendo i guardiani del blocco, entrò pel porto di Gaeta, e sbarcò vettovaglie.
Simili soccorsi recavano alcune barche che venivano da Napoli, da Castellammare e da Ischia. Quelle barche ci portavano de’ viveri freschi, esponendosi a mille pericoli; rifacendo poi la via a dispetto della sorveglianzadell’eroe Persano.
Il 27 gennaio giunse un legno francese. Fu fatto passare perché portava una lettera dal Ministro della Marina francese, con la quale annunziava al Governatore di Gaeta, che il Viceammiraglio Barbier teneva in Napoli il piroscafo la Muette per imbarcare il Re Francesco II, ove Costui con telegrafo il richiedesse; non però quel legno verrebbe da Napoli a Gaeta se non quando la bandiera fosse alzata per capitolare. Era questo un indiretto consiglio di cedere la Piazza; era una nuova pressione, sotto forma cortese, che si facea allo sventurato Sovrano! Napoleone, mentre impediva gli altri Sovrani di soccorrere il Re di Napoli, gridando non intervento, si era tolto a sè il monopolio di soccorrerlo solamente quando lo avesse condotto a que’ termini che avea designato.
Il Re rispose che avea risoluto di sostenersi sino all’estremo, e dove avesse a capitolare avrebbe avvisato il Viceammiraglio Barbier col telegrafo.
Le navi della flotta sarda, che la maggior parte erano legni napoletani, la notte col favor delle tenebre si accostavano alla Piazza e lanciavano bombe, ma non fecero mai alcun danno, riportandone sempre la peggio.
Il 4 febbraio, a causa dello scoppio delle bombe nemiche, si accese molta paglia sotto la batteria Transilvania, era imminente il pericolo che le fiamme entrassero nella riserva delle munizioni. Un artigliere di nome Chiapparella, si fece legare con una fune, scese a metà del muro, e mentre smorzava l’incendio fu veduto da’ Piemontesi del colle de’ Cappuccini, che gli fecero un vivo fuoco addosso con palle piene e granata. Il Chiapparella, sprezzando quei colpi, smorzò l’incendio e fu tirato sano e salvo sopra la batteria.
La stessa sera una granata nemica sfondò la riserva della munizione della batteria Cappelletti, e diede fuoco a due cantaia di polvere. Lo scoppio rovesciò il muro, facendo una breccia di sei metri ed un cannone saltò in aria.
Lo scoppio più terribile avvenne il 5 febbraio alle quattro e mezzo pomeridiane alla Cortina S. Antonio. Quella Cortina è vicinissima alla porta di terra che dà su Montesecco, ed era la migliore costruita. Nella riserva erano quaranta cantaia di polvere, e quarantamila cartucce: tutto prese fuoco…! Lo scoppio fu tale che sembrò a tutti il totale esterminio della Piazza. Io in quel momento mi trovava a Torrionfrancese, e parlava col Comandante di quell’ospedale: ci urtammo corpo a corpo!
Lo sbalordimento fu per tutti orribile; conciosiachè ignoravamo la cagione di quel fragoroso scoppio. Un nembo fitto di fumo e di polvere coprì Gaeta, non più ci vedevamo; Torrionfrancese dista circa duecento metri dalla Cortina S. Antonio. Mentre eravamo tutti ansiosi di sapere qual disastro ci minacciava, giunse un ordi ne di accorrere sul luogo della catastrofe. Dio! quale spettacoloTutte le case del quartiere di porta di terra erano distrutte, erano un mucchio di ruine; non si sapea ove si fosse, ove si andasse in quella più che notte buia, rischiarata solamente ed orribilmente da’ lampi dello scoppio delle bombe nemiche. Nondimeno ci avan zammo in quelle macerie ed in quelle tenebre, che bastava la sola polvere persoffo carci; e mentre andavamo a soccorrere gli altri, spesso dovevamo chiamare aiuto per essere soccorsi noi medesimi, o perché feriti dalle schegge dei proiettili nemici, o perché caduti in qualche profondità di quelle ruine. Finalmente giungemmo sul luogo del principale disastro. Qui la penna mi cade di mano a rammentare quella scena di desolazione impossibile a descriversi. Mezza Cortina S. Antonio disfatta, la vicina batteria della Cittadella già isolata, screpolata e vacillante minacciava cadere: le casematte cadute, e sotto queste schiacciate molte compagnie di soldati; e da quel mucchio di ruine, anzi sepolcri, uscivano pianti, lamenti, strida pietose e dispera teSotto quelle casematte ruinate si trovavano più di quattrocento soldati sepol ti, la maggior parte vivi, e sotto le case cadute più di cento innocui ed innocenti cit tadini, donne e fanciulli.
I principi reali, il Re e la Regina accorsero immediatamene sul luogo del disastro, e, dando essi i primi l’esempio; tutti cominciammo la non facile opera di dissotterrare le vittime. E mentre ci mettevamo a scavare e salvare da certissima morte quegl’infelici sotterrati, ecco il barbaro nemico convergere il fuoco di tutte le sue batterie sopra il luogo del disastro: e non contento di questo si avvicina anche la flotta e vomita su di noi ferro e fuoco. Un grido orribile d’indegnazione e maledizione rimbombò in quelle ruine, animando il nostro coraggio che era quello della disperazione. Gli artiglieri furibondi corsero alle batterie e con energia suprema rispondono a’ colpi del nemico. Dio! che giorno! La flotta, sempre prudente, prese il largo. L’Ettore Fieramosca e il Fulminante percossi già legni napoletani furono lì lì per affondare.
Intanto le batterie di terra erano controbattute dalle nostre, ma non si poteano far tacere quelle fuori tiro, e fu necessario salvare parte degl’infelici sotterrati sotto una pioggia micidiale di proiettili. E mentre si salvava qualche soldato o cittadino sepolto sotto quelle ruine, cadeano spenti que’ generosi accorsi per salvarli! Io vidi atti sublimi di coraggio e di abnegazione, che mi fecero dimenticare la ferocia del nemico, ed esclamai: l’uomo è veramente l’immagine del suo creatore!Quanti episodii teneri e dolorosi non accaddero in quel giorno di terribile rinomanza! Io vidi una giovane madre, la quale era uscita di casa pria che scoppiasse la polveriera; avea lasciati due fanciulletti, al ritorno non trovò più la casa, e neppure sapeaci designare il luogo ove si trovasse. Essa ruggiva come un’orsa ferita; frugava in quelle macerie, spiegando una forza erculea, una volontà inalterabile per trovare i suoi nati. Quella vista ci commosse, e l’aiutammo nelle sue ricerche. Si trovarono i due fanciulletti in un angolo di una cameretta, e sebbene il tetto fosse rovesciato, avea però lasciato libero quel luogo ove si erano rifugiati que’ due angioletti. La madre quando vide i figli salvi, si slanciò su di essi con ansia estrema; li toccava, li frugava, rideva, piangeva, imprecava, benediceva! Lo stato della madre atterrì i figli, e noi fummo obbligati di strapparli a forza dalle sue braccia. Tutti credevamo che quella povera donna avesse perduto per sempre la ragione: ma no, dopo poche ore diede in un dirotto pianto, e ritornò quasi al suo stato normale. Quella furia del nemico durò per tutta la notte lanciando sempre proiettili sul luogo del disastro. La flotta non osò avvicinarsi. La notte di quel giorno si adoperò a dissotterrare cadaveri e feriti ad onta della ferocia di Cialdini.
Lo scoppio della Cortina di S. Antonio uccise 300 soldati, due uffiziali, i tenenti Guarriello e Troiano. Di quest’ultimo si trovò il torace attaccato ad un brandello del soprabito con dentro l’orologio.
L’infaticabile e valoroso vecchio Tenentegenerale Traversa, che avea sostenuto altri assedii in Gaeta, anch’egli restò sepolto sotto quelle macerie. La gloriosa e disgraziata fine di quel prode, è un ricordo di onore pe’ difensori di Gaeta. Morirono inoltre presso a cento cittadini. Il tenentecolonnello Paolo de Sangro fu sbalzato in un luogo inaccessibile, e si disse che morì senza soccorso. Ma io sono stato assicurato in contrario dal Cappellano del 16° cacciatori, D. Domenico Gelormini, il quale assistette negli ultimi momenti quel militare prode e religiosissimo. Il Gelormini così si esprime in una sua lettera: «Basta dirvi che il de Sangro, nelle ultime ore della sua vita, si mostrò un vero martire cristiano: mi edificò quella sua ultima e scrupolosissima confessione. La sua tranquillità d’animo senza un minimo lamento, quel suo viso angelico, quelle sue parole di pace e di perdono che dicea agli astanti, da’ quali era ammirato e compianto, saranno per me un salutare ricordo della mia vita.» Ecco, io soggiungo, come muore il soldato cattolico, con l’arma in pugno, senza odio e senza risentimento contro i nemici; e dopo di averli combattuti da valoroso, spira col perdono sulle labbra…!
Da quel terribile scoppio furono sbalzati nel mare sei cannoni e molti artiglieri: si aperse una lunga breccia anche sul mare, e non molto lungi dal Piano di Montesecco.
Il tenente di artiglieria Francesco Corsi si trovava sopra la batteria che andò per aria; un momento prima dello scoppio fu chiamato abbasso dall’uffiziale dello Stato Maggiore, Davide Winspeare per comunicargli un ordine; e mentre tutti e due parlavano sotto un archetto, avvenne la catastrofe, e per combinazione rimasero illesi. Quando il Re chiese conto al tenente Corsi degli uffiziali e soldati della distrutta batteria, costui, vergognandosi di essere rimasto in vita, mesto rispose: Sire, salvo…. io solo…! Il tenente Francesco Corsi è un ufficiale di sperimentato coraggio.
È tuttavia un mistero, per quelli che sono addentro alle segrete cose, la cagione vera dell’incendio della riserva di polvere e di cartucce. Si sospettò che quello scoppio non fosse stato accidentale, dappoichè si trovò tra’ rottami un ordigno di corda a cilindro con polvere dentro. Il custode della polveriera, che dovea trovarsi sempre colà vicino al suo ufficio, nel momento dello scoppio stava lontano dal luogo del disastro. Taluno in Roma profetò il giorno dello scoppio della polveriera di Gaeta; e si vuole che per cause simili cadde la fortezza di Ancona. Il certo si è che l’Europa ritenne come un altro tradimento l’incendio della polveriera della Cortina S. Antonio; il ministro Casella, e lo stesso Re lo pubblicarono come tale.
Il 5 febbraio fu uno de’ tre giorni di più accanito bombardamento, gli altri giorni furono l’8 gennaio e il 22 dello stesso mese; quel giorno però fu il più terribile.
La sera ritornata all’ospedale trovai un altro biglietto del generale Bosco, col quale m’invitava a nome del Re a recarmi sotto la casamatta regia per assistere il tenene-generale duca Riccardo de Sangro aiutante generale del Re, perché era attaccato dal tifo e moribondo. Per questo secondo invito lasciai senza dispiacere i feriti dell’Ospedale di Torrionfrancese, stantechè mi supplivano a maraviglia il Segretario Monsignor Silvestri, l’Uditore Monsignor Agnozzi, e il Nunzio Apostolico Monsignor Arcivescovo Giannelli.
Giunto alla casamatta regia trovai il buonissimo e nobile duca de Sangro in uno stato sconfortante. Nella cameretta ove giacea il moribondo vi era il servo di costui, e il capo chirurgo Gaeta; questi mi disse: l’opera mia è oramai inutile, lo lascio nelle vostre mani, e se ne andò.
La cameretta ove giacea il Duca era una casamatta divisa a piccole stanze con intavolature: la finestra, o sia troniera guardava Mola, il letto del moribondo avea la testa verso il sud, i piedi al nord; e quel letto occupava quasi la metà della stanza, nella quale vi erano tre sedie, una poltrona ed un piccolo tavolino.
Il duca comprendeva poco; io lo preparai alla meglio e gli somministrati la Estrema unzione. Un Monsignore si fece vedere nel corridoio senza entrare nella cameretta del moribondo; si trattava di tifo! fece di fuori l’ufficio del chierico, rispondendo amen ec. indi sparì. Anche il servo sparì pria della mezzanotte. Umane vicende! Al duca de Sangro, tanto amato da’ figli, l’uomo che avea prodigato tanto bene, il signore tanto ricco di virtù e di averi, che mai rimanevagli delle umane affezioni e grandezze? un povero prete….! digiuno, affranto di fatiche, lacero, imbrattato di fango e di sangue, che ritornava allora dal dissotterrar feriti e cadaveri! Ma quel prete avea un cuore sensibile, e, sebbene indegno, avea però nell’anima sua il carattere indelebile ed il potere di metterlo sotto le grandi ali del perdono di Dio! E che potrebbe di più desiderare il cattolico moribondo? Oh! quante ascetiche e morali riflessioni io feci in quella notte…. Io servii il moribondo con affetto di figlio, e con quella poca ma verace carità sacerdotale che trovasi nel mio cuore.
Nelle prime ore della sera, il Re, accompagnato da Bosco, venne a visitare il duca de Sangro; ma se ne andò subito, perché un uffiziale di Stato maggiore gli comunicò una notizia.
Alle 3 del mattino, intesi stridere la porta della stanza, mi voltai e vidi il Re solo dietro le mie spalle! mi disse: come va? Maestà, agonizza, risposi. Egli si assise sul letto e guardava fitto il moribondo con uno sguardo di suprema angoscia. Indi si alzò e gli toccò la fronte, quegli aprì gli occhi, e suppongo che abbia conosciuto il suo amato Sovrano. Non rispose alle parole del Re, rischiuse gli occhi un’altra volta! Francesco II rimase in piedi avanti quel letto di morte, sempre guardando il suo fedele Generale, il suo affettuoso amico. Strane vicende della mia povera vita! Il caso, le circostanze, mi riunivano sotto una casamatta, in una città assediata e quasi distrutta, con due soli uomini: con un primo gentiluomo del Regno moribondo, e con un giovine Sovrano discendente di tanti monarchi, che stava per lasciare il più bel trono d’Italia. Oh! dissi allora tra me stesso, il mio posto è qui, il posto del sacerdote cattolico, in mezzo a’ moribondi ed a’ tribolati!
Il Re si trattenne per circa dieci minuti. Pria di partire mi disse: siete rimasto solo? Maestà, risposi, non occorrono altre persone; è vero! soggiunse; diede l’ultimo indescrivibile sguardo di affetto al moribondo e partì. Intesi che si allontanava frettoloso. In quella notte fatale, quel giovine Sovrano era presente in tutti i luoghi più tristi e pericolosi.
Il duca de Sangro agonizzò per tutta la notte; spesso apriva gli occhi e li girava attorno a quella casamatta come se l’avesse veduta per la prima volta; forse sperava rivedere il suo amato Sovrano, o le persone a lui care. Spesso, non potendo parlare, mi stringeva la mano, mostrandomi segni non dubbii del desiderio che avea ch’io gli parlassi della vita futura e di Dio. Sul rompere dell’alba quel fido soldato spirò!
Fatto giorno venne il servo, e gli dissi di prendersi in custodia gli oggetti che erano nella cameretta. Diedi l’ultimo pietoso sguardo a quel cadavere che sembrava dormire il sonno del giusto, e partì.
Giunto nel piano dell’Ospedale, dopo di aver scansato una pioggia di proiettili, scoppiò vicino a me una Charaphenel che mi coprì di terra, però l’aria di una grossa scheggia mi portò via il cappello senza toccarlo; quella scheggia invece andò a ferire il giardiniere del Re, che trovavasi in mezzo la porta piccola dell’Ospedale, strappandogli mezza faccia. Quell’uomo, pel dolore, cominciò a ruggire in un modo che mettea spavento; accorsero quattro soldati, ma non poteano trattenerlo perché si dibatteva come un ossesso: dopo poche ore morì ne’ più atroci tormenti. Quello stesso giorno morì anche di tifo sotto la casamatta del Re, il confessore della Regina, l’abate Eicholler.
All’Ospedale trovai due ordini, che mi riguardavano, uno che mi recassi subito allo Spalleggiamento fuori la Piazza, l’altro di recarmi anche subito all’Ospedale de’ soldati attaccati di tifo. Dissi al Comandante, che mi comunicava quegli ordini, che io non ero S. Vincenzo Ferreri o altro Taumaturgo che avesse il dono della bilocazione. Fui scelto per lo Spalleggiamento. Traversai il fronte di terra sotto il più terribile bombardamento; appena giunsi al luogo che mi si era designato, mi buttai nel fango, ed affranto di fatica e di sonno, dormii soporitamente. Grazia di Dio!
Lo stato di Gaeta era spaventevole, altro non si vedea che ruine, muli e cavalli morti e feriti, uomini moribondi e cadaveri orridamente sfracellati. Gli animali stessi faceano pietà: si vedevano muli e cavalli ridotti scheletri prossimi a morir di fame. Quelle povere bestie, non trovando più da mangiare sulla montagna di Gaeta, perché solcata e ricoperta di schegge, se ne scesero in Città, ed andavano pietose di porta in porta come se domandassero la elemosina. I soldati, qualche volta lor davano un pezzetto di pane, allora accorrevano tutte, come i polli appresso la massaia che li governa, seguendo colui che dato avea quel poco di pane. Quei muli e que’ cavalli rosicchiavano le cortecce degli alberi, le porte, i rastrelli, e non trovando altro da mangiare, si mangiavano l’un l’altro le code e le criniere!
Intanto il bombardamento proseguiva con la medesima atrocità che il giorno precedente.
I Piemontesi miravano costantemente alle polveriere ed agli ospedali. Si erano estratti molti cadaveri e feriti di sotto le ruine della Cortina S. Antonio; ma si sentivano lamenti nelle profondità; perlochè il governatore Ritucci scrisse a Cialdini e chiese due giorni di sospensione d’armi per disotterrare quegl’infelici sepolti vivi; l’ottenne, a patto però che ne’ due giorni non si lavorasse a rifare la Cortina. Già la sera precedente si erano messe delle botti piene di terra per parapetto sulla breccia fatta dallo scoppio della polveriera, e per non darsi motivo di lagnanze al nemico furono tolte, ed in cambio vi andò di guardia il 6° Cacciatori, comandato dal bravo maggiore Raffaele del Giudice, al quale il Re affidò quel posto di onore, e sì pericoloso in una Piazza assediata.
Cialdini accordò quella tregua perché avea bisogno di riparare i danni fatti alle sue batterie; in effetti non tenendo conto de’ patti dell’armistizio, in que’ due giorni le riparò senza alcuna molestia.
Quella tregua però valse a salvare la vita a tanti soldati e cittadini già sepolti vivi, i quali nel rivedere la luce la prima cosa che domandarono fu l’acqua!
Il tifo infieriva, e gli ospedali riboccavano d’infermi. Si chiese a Cialdini di mandare quattrocento soldati infermi aTerracina, e quel duce rispose che li avrebbe ricevuti a Mola; difatti ne ricevette duecento e si negò poi pei restanti. A richiesta del Governatore, Cialdini mandò un poco di neve tanto necessaria a’ feriti.
L’8 febbraio, prima che finisse la tregua, il Re riunì la Commissione di difesa per decidere se la Piazza fosse in istato di resistere ancora; tutti risposero affermativamente; e che, se il nemico avesse osato salir la breccia, si sarebbe respinto con le baionette.
Il 9 infuriò di nuovo il bombardamento. Arse una blinda innanzi un magazzino di munizioni, e sulle ruine della Cortina S. Antonio si accesero tutti que’ legni che colà si trovavano; ma l’operosità e il coraggio dei soldati scongiurò nuovi danni; si estinsero le fiamme in mezzo a gravi pericoli.
In Gaeta tutto rovinava. Le mura e i tetti erano scossi e vacillanti, appena urtati dal più piccolo proiettile andavano in ruina. Il camminare nella città si rese difficile e pericolosissimo.
La sera del 10, si avvicinò una barchetta con parlamentari, e consegnò una lettera dell’Imperatrice di Francia diretta alla Regina Maria Sofia, nella quale diceva in riassunto: che la difesa di Gaeta era durata abbastanza, non avere più scopo lo scempio di tanti uomini; non sperasse soccorso dall’Europa.Quel dettato mosse gli animi sensibili del Re e della Regina; però essi non voleano imporre altri sacrifizii all’abnegazione di tanti fidi soldati, i quali valorosamente s’immolavano all’onore, al dovere, all’amore del proprio Sovrano. Il cuore paterno del Re si volse a considerare i danni di Gaeta, le sue rovine, e come i magazzini di polvere fossero esposti a’ colpi del nemico, la morte che mieteva vite umane col fuoco, col ferro e col tifo, fece deciderlo a dar fine a quell’assedio. Fece chiamare Ritucci, onde costui avesse domandato al nemico una sospensione d’armi per trattare la resa della Piazza. Cialdini rispose, non cesserebbe dalle offese se non firmati i patti, tale essere stato sempre il suo costume, e raddoppiò il bombardamento.
La dimani, Ritucci mandò a Mola i due generali Antonelli e Pasca, e il tenentecolonnello delli Franci con lettera pel Cialdini, nella quale gli dicea: essere una inaudita novità di guerra il proseguire le offese capitolando, e protestava a’ contemporanei e alla Storia la necessità che spingeva la Piazza a rispondere con offese alle offese, versando sangue inutilmente.
Cialdini proseguì a bombardare con più barbara ferocia, ed inebbriato dalla prospera fortuna, volle discendere sino ad insultare la sventura di chi dichiaravasi vinto! Egli scrisse al Governatore Ritucci la seguente lettera: «Dovevate parlare di umanità il 19 gennaio, quando vi proposi buoni patti, allora rifiutaste; ora perduta la speranza parlate di risparmiare il sangue; ma io non temo né i contemporanei né la Storia.»Quando altri argomenti mancassero basterebbe questo brano di lettera per qualificare il generale Cialdini. Egli o non capì, o finse di non capire che Ritucci non volea versar sangue inutilmente trattandosi già della resa della Piazza. Il vincitore che proditoriamente vince, rinfaccia al caduto la sua eroica resistenza. Logica nuova di un duce piemontese, il quale impone che si scambi la gloria con l’ignominia, il coraggio con la viltà, l’onore con l’onta e la vergogna.
Cialdini non teme né i contemporanei né la Storia? Certo la Storia non dà bastonate, né mena bombe materialmente, quindi non fa maraviglia se taluni non la temano. Ma cancelli, se ‘l può, il sig. Cialdini con tutti i suoi cannoni rigati e cavalli quella pagina d’inesorabile Storia che parla di lui qual Generale assediante in Gaeta e in Messina nel 1860 e 1861, e di duce in ritirata in Bologna nel 1866! Un po’ più di luce del libro del generale La Marmora, mi auguro che abbia illuminato il sig. Cialdini.
Quella lettera diretta a Ritucci finiva col rinfacciargli di aver mandato a Gaeta neve e mignatte. E qui vi è anche la parte triviale che ripugna ad ogni anima nobile e generosa. Son questi gli uomini che celebrò la rivoluzione. Bisogna pur dirlo: Garibaldi non discese mai a simili ricordi….!
Il Re risoluto ad arrestare l’effusione del sangue fece dimettere da Governatore Ritucci, affinchè il personale dissidio tra costui e Cialdini non nuocesse a’ patti della capitolazione; ed invece o sostituì l’antico Governatore, il vegliardo ed onorato tenentegenerale Milon.
Erano già stipulate le condizioni della resa di Gaeta, solo mancava la trascrizione del lungo testo. Nonpertanto la mattina del 13 febbraio il nemico smascherò nuove batterie, le quali unite alle altre bersagliarono orribilmente la Piazza. Gaeta per onorare la difesa rispondea con uguale furore, e spesso facea tacere quelle batterie vicine. Milon fece sentire più volte a Cialdini di darsi fine a quella lotta crudele ed insensata; ma costui sordo proseguì a bombardare con più furore.
Quando già i patti della Capitolazione erano firmati da ambe le parti, sulle ore tre pomeridiane, un proiettile nemico diede fuoco alla polveriera della batteria Transilvania, e mandò per aria muraglie, cannoni e quanti si trovavano colà. Un denso fumo coprì tutta la Piazza, e si vedeano cadere sopra Gaeta e nel mare a grandi distanza, pietre, legna, ferro frammisti a membra umane….! Un grido di gioia echeggiò su’ vicini colli di Gaeta, erano i Piemontesi che godeano di quello esterminio…! Oh! il mio cuore si strazia a quella rimembranza, ed è una delle più funeste che mi abbia lasciato il Viaggio da Boccadifalco a Gaeta. Perché tanto feroce odio contro i soldati napoletani? Costoro nessun male aveano fatto a’ Piemontesi, solamente aggrediti in casa propria, si difendevano da valorosi; e quando furono sciolti, e poi chiamati a servire l’Italia riunita, invece di accorrere, si unirono a’ reazionarii del Regno, perché memori di quell’odio che la truppa sarda avea loro dimostrato. Fu questa una delle ragioni per cui il Reame di Napoli fu per più anni insanguinato dalla guerra civile e dal brigantaggio. Appena scoppiò la polveriera della batteria Transilvania, il nemico converse tutti i suoi tiri sul luogo del disastro per togliere qualunque soccorso agl’infelici sepolti sotto quelle ruine. Però i soldati napoletani fatti maggiori dalle sventure e dall’ingiustizia di un feroce avversario, sprezzando tutti i pericoli corrono a salvare i proprii compagni ed i morenti cittadini: e per provare che il valore napoletano non era fiaccato dall’avversità della fortuna, l’artiglieria della Piazza rispondeva con più sorprendente energia.
I soldati, tra un nembo di proiettili nemici, si slanciano al soccorso de’ sotterrati; si compiono incredibili azioni generose con disperato valore e con sublime abnegazione. Si salva un artigliere gettato sopra uno scoglio sporgente nel mare; e si salva no molti soldati e cittadini che richiedevano un pronto soccorso. E mentre si salva no i sotterrati vivi, cadono molti generosi accorsi in loro aiuto…!
In quest’ultimo atto di barbarie voluto dal nemico senza alcuno scopo militare, perirono quattro cittadini ed una intiera famiglia! Perirono due uffiziali, Pannuti e Giordano, quindici soldati ed altri venticinque furono feriti. Fra gli altri fu ferito un giovanetto della Nunziatella e venuto a Gaeta per servire il suo amato Sovrano. Quel prode giovanetto è Ferdinando Lanza della più distinta aristocrazia siciliana, il quale ebbe rotto un piede; soffrì coraggiosamente l’amputazione, ed oggi vive in Napoli fiero della sua gloriosa sorte toccatagli in Gaeta.
La Capitolazione di Gaeta contiene 23 articoli. Accordava a’ Napoletani gli onori militari; prescriveva che essi doveano depositare le armi sull’istmo di Montesecco; che sarebbero prigionieri di guerra sino alla caduta della Cittadella di Messina e di Civitella del Tronto. Agli uffiziali si rilasciavano le armi e i proprii cavalli, si accordavano due mesi di paga, e due mesi di tempo per deliberare se avessero voluto servire l’Italia, o ritirarsi con la pensione, oppure dimettersi.
Come il Piemonte adempisse que’ patti è da tutti conosciuto, io e tanti altri uffiziali capitolati di Gaeta ne siamo un esempio vivente: ci tolsero quello che per dritto doveano darci, anche la pensione di giustizia, adducendo quelle ragioni che suole addurre il forte al debole: sic volo, sic jubeo…! E così, il nuovo governo italiano, che compendia l’egoismo e la spoliazione, condannò tanti onestissimi e prodi uffiziali alla miseria; ed oggi li vediamo stendere la mano per ricevere la elemosina!
IIRe Francesco divise il danaro che avea alle vedove e agli orfani de’ militari. Agli uffiziali diede da trenta ducati sino a cento, secondo i gradi: era tutto quello che restava a quel cuore gratissimo e generoso!
Il maggiore Francesco Gottscher comandante il 9° Battaglione Cacciatori avea una buona somma di danaro, frutto dell’economia sulle spese di amministrazione di quel Battaglione, che nessuno sapea; da gentiluomo, quale sempre si dimostrò, la divise a tutti gli uffiziali suoi dipendenti.
Quest’ultimo assedio di Gaeta durò meno de’ precedenti, ma li superò per importanza d’armi, offese ed isolamento. E lo rende singolare, perché si trovarono assediati il Re, la Regina, due Principi reali ed i ministri delle potenze straniere.
La guarnigione servì con amore; non iscarsezza di vitto, di paga o di vestimento la fecero mormorare. Le straordinarie fatiche, gli incendii delle polveriere, le ferite e le morti atroci e strane, non abbatterono mai il coraggio e la costanza di que’ soldati. Costoro avrebbero voluto protrarre la difesa, ma il Re, vedendosi abbandonato dall’Europa, non volle versare più sangue inutilmente.
L’espugnazione di Gaeta non fu un vero assedio, ma un bombardamento continuato e blocco. Questo modo di espugnare le Piazze, in altri tempi, era reputato barbaro, perché reca poco danno a’ bastioni, e molto ne fa alle sostanze ed alla vita de’ soldati e de’ cittadini. Il Piemonte l’usò in pieno secolo XIX, ed ebbe fama di civilizzatore e progressista! Esso, fornito di grossi cannoni rigati, allora inventati in Inghilterra ed in Francia, potè collocarli sino a 4700 metri lontani dalla Piazza, ed i più vicini ad 850 metri, cioè ove gli altri precedenti assedii eransi cominciati. Gli assedianti non fecero parallele, non lavoro di approcci, e neppure pensarono agli assalti; usarono il solo bombardamento, mezzo comodissimo per distruggere sicuramente.
L’assedio durò dal 13 novembre al 13 febbraio, cioè tre mesi, tra’ quelli 25 di blocco. In 51 giorni, i Piemontesi gittarono dentro Gaeta sessantamila proiettili di diverso calibro, ruinando case, Chiese, ospedali, ed arrecando poco danno alle fortificazioni. La flotta sarda nulla fece di rilevante, ad eccezione del blocco; mentre avrebbe potuto far molto, se Persano avesse voluto esporsi a’ proiettili degli assediati; le fortificazioni di fronte di mare rimasero incolumi.
Gaeta trasse contro il nemico trentacinquemila duecento cinquanta proiettili, i quali arrecarono poco danno o perché non giungevano, o perché non colpivano sempre al segno. Al contrario i proiettili del nemico, eccettuati quelli che caddero nel mare, o scoppiarono in aria, colpivano sempre, se non gli uomini, i fabbricati.
Dalla Piazza si fecero poche sortite per la configurazione del terreno, e per la ragione più essenziale che oggi gli assediati debbono cercare il nemico a quattro chilometri lontano, e ciò riesce difficile e pericoloso.
Morirono nell’assedio di Gaeta diciassette uffiziali, tre Cappellani militari, cioè Chiarca, Egitto e Palmieri. Morirono ottocentonove soldati e circa duecento cittadini. Sopravvissero alle ferite ventisei uffiziali e cinquecentoquantatre soldati.
Il Re pria di partire diede la seguente proclamazione di addio alla guarnigione:
Generali, uffiziali e soldati da Gaeta! La sorte della guerra ne separa. Abbiamo combattuto insieme cinque mesi per la indipendenza della patria, sfidando e sofferendo gli stessi pericoli e disagi;
debbo in questo momento metter fine a’ vostri eroici sacrifizii. La resistenza era divenuta impossibile. Se il desio di soldato spingeami a difendere con voi l’ultimo baluardo della Monarchia, sino a caderne sotto le mura crollanti, il dovere di Re e l’amore di padre oggi mi comandano di risparmiare tanto generoso sangue, la cui effusione or non sarebbe che l’ultima manifestazione d’inutile eroismo.
Per voi, miei fidi compagni, pel vostro avvenire, per premiare la vostra lealtà, costanza e bravura, per voi rinunzio al bellico vanto di respingere gli ultimi assalti d’un nemico, che questa piazza difesa da voi non avrebbe presa senza seminare di cadaveri il suo cammino.
Voi da dieci mesi combattete con impareggiabile coraggio. Il tradimento interno, l’assalto di rivoluzionarii stranieri, l’aggressione d’uno Stato che dicevasi amico, niente v’ha domato, né stancato. Tra sofferenze d’ogni sorta, passando per campi di battaglia, affrontando tradimenti più terribili del ferro e del piombo, siete venuti a Capua e a Gaeta, segnando d’eroismo le rive del Volturno e le sponde del Garigliano, sfidando per tre mesi in queste mura gli sforzi di un nemico padrone di tutta la potenza d’Italia. Per voi è salvo l’onore dell’esercito delle Due Sicilie; per voi il vostro sovrano può tenere alto il capo, e nella terra dell’esilio, dove aspetterò la giustizia di Dio, il ricordo della vostra eroica lealtà gli sarà dolcissima consolazione nelle sventure.
Sarà distribuita una medaglia speciale che ricordi lo assedio; e quando i miei cari soldati torneranno in seno alle loro famiglie, gli uomini di onore s’inchineranno al loro passaggio, e le madri mostreranno a’ figliuoli come esempio i prodi difensori di Gaeta.
Generali, uffiziali e soldati, io vi ringrazio; a tutti stringo le mani con affetto e riconoscenza; non vi dico addio, ma a rivederci. Serbatemi intatta la vostra lealtà, come eternamente vi serberà gratitudine e amore il vostro Re Francesco.»
La medaglia che promise il re in questo addio fu coniata in Roma; è quasi della grandezza di una piastra di cinque lire; da un lato vi è Gaeta in rilievo, dall’altro l’effigie del Re e della Regina. Di quella medaglia onorevolissima furono fregiati solamente coloro che si trovarono in Gaeta presenti alla rivista del 1° febbraio 1861.
La mattina del 14 febbraio alle ore sette antimeridiane, il Re, la Regina, i Principi reali, i ministri esteri, e tutto il seguito della Corte lasciarono le casematte, e passarono tra doppie file di soldati che stavano schierati dalla casamatta regia sino a porta di mare, ove il Re andava ad imbarcarsi e prendere la via dell’esilio…! Fu quella una scena commoventissima che io non potrò dimenticare giammai. Il Re e la Regina erano calmi e sorridenti, ma appena videro i soldati e gli uffiziali che piangevano come fanciulli, le loro fronti si annuvolarono, e le lagrime comparvero negli occhi di quella augusta coppia. Tra’ soldati altro non si sentivano che voci disperate, repressi singhiozzi. Que’ valorosi commossi gridavano: Viva il nostro Re, viva la nostra Regina! Molti lasciavano le fila e si gittavano a’ piedi degli augusti ed amati Sovrani per baciarli. La Regina era assai commossa, si tergeva le lagrime!
Il Re sforzavasi a sorridere, ma avea gli occhi pregni di lagrime; a tutti stringeva la mano indistintamente ed amorevolmente.
Quel giorno memorando confermò che Francesco II era amato, e che la sua regia potestà non era eclissata; Egli imperava su’ cuori, il più bello dominio a cui possa aspirare un Sovrano. Quel valoroso giovine Re, mi sembrò più grande, più glorio so quando lo vidi in mezzo alle reliquie del suo fedele esercito, anzichè il giorno che lo vidi cingere la più bella e ricca Corona d’Italia tra gli splendori di un augusto trono, e circondato da’ grandi del suo Regno. Oh! quante verità ci rivela la sventura, e come la virtù si eleva in mezzo alle colpe altrui, tra le viltà e i tradimenti, tra l’egoismo e la iniquità politica dei potenti della terra
Re Francesco, con tutti il suo seguito, s’imbarcò sopra la Muette, avviso francese venuto a bella posta da Napoli. La batteria S. Maria fece la salva reale di addio, salutandolo con 21 colpi di cannone. Quando il legno che conduceva il Re nell’esilio trascorse il promontorio di Torre Orlando, si abbassò la bandiera delle Due Sicilie…. e si alzò quella del Piemonte…. Va, prode Monarca, io dissi, va pure nella terra dell’esilio! Sei giovine, sentirai altre catastrofi. Sii certo, che ti accompagneranno le nostre preghiere e le benedizioni de’ tuoi buoni sudditi.
Un sepolcrale silenzio regnò in Gaeta dopo la partenza del Re. Noi eravamo in certo modo simili a Caio Mario; costui profugo sulle ruine di Cartagine, noi vinti
su quelle di una città che avevamo difesa ad oltranza; la mente delirava il cuore
sanguinava Ma, la speranza la religione ci raddolcirono con quel balsamo
salutare ignorato dagli scettici e dagli atei.
I Piemontesi trovarono in Gaeta 701 bocche a fuoco, di cui 298 di bronzo, 2612 cantaia di polvere, 10858 armi bianche, 58212 da fuoco, 209859 proiettili, 200000 cartucce. Provvisioni di bocca ne trovarono poche, perché i soldati pria di lasciar Gaeta scassinarono i magazzini di viveri e parte ne gittarono nel mare e parte ne dissiparono.
La mattina del 15 febbraio, presente il Principe di Carignano, una brigata Sarda si schierò sull’istmo di Montesecco, e la guarnigione di Gaeta con armi, bandiere spiegate e musica in testa uscì dalla Piazza e depose le armi per turno. Per quella operazione ci tennero a disagio per tutta la giornata; a sera tarda venne l’ordine per essere condotti prigionieri nelle isole vicine.
Il comando generale piemontese comunicò che i Generali, Chirurgi e Cappellani napoletani fossero liberi di andare a Napoli. Io scelsi di accompagnare nella prigionia il 9° Battaglione Cacciatori col quale era stato in tempo di pace, ed avea fatto poi tutta la campagna militare da Boccadifalco a Gaeta. Quel Battaglione fu trasportato all’Isola d’Ischia assieme ad altri due battaglioni, il 6° e il 7°, ed ivi ebbi occasioni di rendermi utile a’ colpiti di tifo, dappoichè quel micidiale morbo ci accompagnò sino ad Ischia!
Però i naturali di quell’Isola si mostrarono con noi amabili e caritatevoli. Molti borghesi e donne del popolo portavano biancheria negli ospedali, ed assistevano i soldati in modo edificante. Sia gloria a que’ filantropi e caritatevoli isolani che benevolmente mitigarono le nostre sventure; ed oggi con piacere pubblico tutto in queste pagine.
Dopo la capitolazione della Cittadella di Messina e Civitella del Tronto ci misero in libertà; ed io ebbi la consolazione di accompagnare il Battaglione al quale apparteneva sino nella Darsena di Napoli ove fu sciolto.
Appena i capitolati di Gaeta ritornarono alle loro case, furono sorvegliati da una polizia sospettosa e crudele; tutte le loro azioni erano qualificate di reazionarie. Si giunse a perseguitare anche coloro che portavano al dito un anello di ferro o di zingo, che era innocente e cavalleresco ricordo di Gaeta. L’origine di quell’anello è il seguente: Nel mese di novembre, trovandosi la Regina Maria Sofia al balcone, nel sottoposto piano scoppiò una Charaphanel; una scheggia ruppe i vetri, e questi la ferirono leggermente in una gota. Si raccolsero i pezzi di quella Charaphenel e si fecero degli anelli, ov’era inciso: Gaeta 1860 e 61.In seguito si fusero molti altri anelli d’altre Charaphenel.
Taluni poi portavano quell’anello per devozione alla Madonna per averli liberati dai pericoli dell’assedio.
Molti capitolati di Gaeta per non essere messi in carcere fuggirono all’estero, e ritornarono quando furono dichiarati innocenti da’ tribunali. Intanto il Governo rigeneratore non volle liquidare la pensione di giustizia a non pochi di quelli che si erano salvati in estranei paesi, adducendo per ragione, ch’erano stati più di 15 giorni fuori del Regno senza regolare permesso: ed io appartengo a questa categoria!
fonte
http://associazione-legittimista-italica.blogspot.com/2012/09/le-verita-sulle-vicende-risorgimentali.html