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STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI VOL. IV (II)

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STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI VOL. IV (II)

ABBOCCAMENTO

TRA GARIBALDI E MAZZINI

(Pubblicato il 13 e 14 agosto 1862)

I.

Mentre Napoleone 111 si adoperava per avere un abboccamento col Re di Prussia, e per chiamare a Parigi l’Imperatore delle Russie, due altre persone si vedevano, si parlavano, si accordavano. Erano Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi, che il 6 di agosto, avevano fra loro una conferenza a Mistretta, come ci annunzia un nuovo giornale francese intitolato la Franco, giornale diretto dal visconte di La Gueronniere, e in diretta relazione colla polizia imperiale.

La notizia di quest’abboccamento tra Mazzini e Garibaldi ci venne annunziata dal telegrafo, ma se per altri potè essere una novità, noi fu certo per noi, che conosciamo da buona pezza l’amicizia e gli accordi tra il demagogo genovese e il nizzardo. E non li conosciamo mica pei ragguagli delle polizie, o per agenti segreti che ci servano. Noi sdegniamo mezzi siffatti, e la polizia nostra si riduce ai libri, ai giornali] ai documenti rivoluzionari, dove è pur tanto da imparare, e sol ci duole che il bisogno di scrivere quasi sempre, ci tolga il tempo necessario per leggere.

Tra i libri utilissimi a chi vuoi conoscere il passato, il presente, e indovinar l’avvenire del nuovo regno d’Italia sono gli scritti editi ed inediti di Giuseppe Mastini, de’ quali sta pubblicandosi oggidì in Milano un’edizione diretta dall’autore. L’editore è G. Durili, che dedicò gli scritti mazziniani a Giuseppe Garibaldi con una lettera sotto la data di Milano 22 marzo 1861, dove dice all ‘onorevole signor generale: «Ho ottenuto dal signor Mazzini la proprietà dei suoi scritti letterari e politici, e sto per intraprenderne un’edizione completa, la quale io vi offerisco e dedico (notale bene le due ragioni!) perché mi pare che vi appartenga e per l’antica amicizia, che vi lega all’autore, e per aver voi dato al mondo il più felice commento pratico de’ suoi principii» . Garibaldi rispondeva da Caprera il 3 giugno 1861 d’accettare con gratitudine la dedica degli scritti del Mazzini e di tenersene onorato.

Fermiamoci un po’ sulle due ragioni addotte dall’editore: ]’antica amicizia tra Garibaldi e Mazzini, e il pratico commento recato dal primo ai principii del secondo; e procuriamo di ricompensare con qualche nuovo ragguaglio la notizia dataci dalla France de La Gueronnière sull’abboccamento di Mistretta.

Sapete da quando data l’amicizia tra Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini? Data dal 1833. Il Garibaldi non avea tardato ad inscriversi nella società segreta creata dal Mazzini col titolo di Giovine Italia, e siccome tutti gli adepti avevano un nome particolare, un nome di guerra, così Garibaldi aveva preso quello di BOREI. Ne’ documenti di que’ giorni, dove trovate Borei leggete Garibaldi. Questo è positivo, giacché ci viene rivelato da Mazzini medesimo in una nota al terzo volume de’ suoi scritti (Milano, 1862, pag. 334).

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Garibaldi nell’ascriversi alla Giovine Italia ha prestato un solenne giuramento davanti l’Iniziatore, e la formola di questo giuramento ci vien riferita da Giuseppe Mazzini nel primo volume de’ suoi scritti, pag. 117, 118 e 119 (Milano, 1861). Eccola:

Giuramento di Garibaldi iniziato nella Giovine Italia.

«Nel nome di Dio e dell’Italia,

«Nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della tirannide, straniera o domestica,

«Pei doveri che mi legano alla terra ove Dio m’ha posto, e ai fratelli elio Dio m’ha dati – per l’amore, innato in ogni uomo, ai luoghi dove nacque mia madre e dove vivranno i miei figli – per l’odio innato in ogni uomo, al male, all’ingiustizia, all’usurpazione, all’arbitrio – pel rossore ch’io sento in faccia ai cittadini delle altre nazioni, del non avere nome né diritti di cittadino, né bandiera di nazione, né patria- pel fremito dell’anima mia creata alla libertà, impotente ad esercitarla, creata all’attività nel bene e impotente a farlo nel silenzio e nell’isolamento della servitù – per la memoria dell’antica potenza-perla coscienza della presente abbiezione- per le lagrime delle madri italiane, pei figli morti sul palco, nelle prigioni, in esilio – per la miseria dei milioni:

«Io Giuseppe Garibaldi

«Credente nella missione commessa da Dio all’Italia, e nel dovere che ogni uomo nato italiano ha di contribuire al suo adempimento;

«Convinto che dove Dio ha voluto fosse nazione, esistono le forze necessarie a crearla – che il popolo è depositario di quelle forze, – che nel dirigerle pel popolo e col popolo sta il segreto della vittoria;

«Convinto che la virtù sta nell’azione e nel sacrificio – che la potenza sta nell’unione e nella costanza della volontà;

«Do il mio nome alla Giovine Italia, associazione d’uomini credenti nella stessa fede, e giuro:

«Di consecrarmi tutto e per sempre a costituire con essi l’Italia in nazione Una, Indipendente, Libera, Repubblicana.

«Di promuovere con tutti i mezzi, di parola, di scritto, d’azione, l’educazione de’ miei fratelli italiani all’intento della Giovine Italia, all’associazione che sola può conquistarla, alla virtù che sola può rendere la conquista durevole;

«Di non appartenere, da questo giorno in poi, ed altre associazioni;abboccamento

«Di uniformarmi alle istruzioni che mi verranno trasmesse, nello spirito della Giovine Italia, da chi rappresenta con me l’unione de’ miei fratelli, e di conservarne, anche a prezzo della vita, inviolati i segreti;

«Di soccorrere coll’opera e col consiglio a’ miei fratelli nell’associazione,

«Ora E Sempre.

«Così giuro, invocando sulla mia testa l’ira di Dio, l’abbominio degli uomini e l’infamia dello spergiuro, s’io tradissi in lutto o in parte il mio giuramento».

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Mazzini scrive; «lo giurai primo, quello Statuto. Molti lo giurarono con me allora, e poi, i quali sono oggi cortigiani, faccendieri di consorterie moderate, servi tremanti della politica di Bonaparte e calunniatori e persecutori dei loro antichi fratelli, lo li disprezzo Essi possono abbonirmi, come chi ricorda loro la fede giurata e tradita; ma non possono citare un sol fatto a provare ch’io abbia mai falsato quel giuramento. Oggi come allora io credo nella santità e nell’avvenire di quei principii: vissi, vivo e morrò repubblicano, testimoniando sino all’ultimo per la mia fede».

E lo stesso Mazzini, nel volume III de’ suoi scritti, pag. 313 e seguenti, ci dà il nome di coloro che dopo di lui prestarono il giuramento medesimo. E lo prestarono Domenico Guerrazzi, che poi giurò lo Statuto, e Pietro Bastogi. che poi fu ministro di Vittorio Emanuele II, e Carlo Matteucci, oggi senatore e ministro, e Carlo Luigi Farini, cavaliere della Santissima Annunziata e cugino del Re, già vociferatore di stragi, ne’ convegni de’ popolani bolognesi; e Carlo Poerio, deputato, e Lorenzo Pareto, senatore, e Depretis, ministro, e Carlo Fenzi, e Cempini, Franchini, Maffei. Bellelli, Gallenga, Melegari, Massari, Ranco, Massimo Marnino, tutti deputati che, come avevano giurato entrando nella Giovine Italia, Ora E Sempre l’Italia una, indipendente, libera, repubblicana, così entrando nella Camera e nel Senato giurarono l’Italia monarchica e fedeltà al re Vittorio Emanuele II.

Ma parliamo di Giuseppe Garibaldi. Abbiamo detto che la sua amicizia col Mazzini datava dal 1833. Come si conobbero? dove? Si conobbero in Genova, in occasione d’una congiura. Sul finire del trentatré prepararono un movimento insurrezionale nella capitale della Liguria, che fallì, dice Mazzini «per l’inesperienza dei capi, buoni, ma giovanissimi e ignoti ai più. Giuseppe Garibaldi fu parto di quel secondo tentativo e si salvò colla fuga» (Scritti editi ed inediti, ecc. Milano 1862, vol. III, pag. 334). Chi avesse detto a Garibaldi quando allora fuggiva: – Tu ritornerai fra non molti anni, e in Torino, sotto gli occhi del figlio di Carlo Alberto, il Diritto del 12 agosto 1862, N. 212, stamperà di te che sei un datar di corone! 

Garibaldi tornò negli Stati Sardi nel 1848, e combatté prima per Carlo Alberto, e poi fu combattuto dal duca di Genova. Visse quindi vita privata finché il conte Camillo di Cavour chiamavalo nel 1859, come chiamava Napoleone III perché l’aiutassero a fare l’Italia. E Garibaldi aiutò prima in Lombardia, poi in Sicilia, poi a Napoli, e die’ al mondo il commento pratico dei principii del Mazzini, seconda ragione che induceva l’editore Daelli a dedicargli le opere dell’agitatore. E noi chiediamo licenza ai nostri lettori di fermarci alquanto sa questo proposito, e dimostrare con documenti che la nuova Italia non è altro che il pratico commento delle dottrine mazziniane, commento che si avvicina alla sua conclusione, la Repubblica.

II.

Garibaldi non fe’ altro che apporre un commento pratico agli scritti del Mazzini. Fedele al giuramento prestato alla Giovine Italia la servì, e fu servito dai ministri del Piemonte e dall’Imperatore dei Francesi. Tutto ciò che avviene nella Penisola dal 1859 in qua, non è altro che l’esecuzione precisa delle idee stampate da Mazzini.

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Apriamo di fatto il giornale la Giovine Italia che Mazzini pubblicava nel 1832, e vi troveremo gli stessi concetti che più tardi figurarono in tanti proclami regii ed imperiali. Una volta era difficilissimo avere copie di questo giornale, ma ora si ristampa in Milano.

Nel 1830 Mazzini trova vasi carcerato nel forte di Savona, e là ideava la Giovine Italia, dandole per capitale la Roma del popolo italico! Simbolo dell’Associazione era un ramoscello di cipresso, vaticinio forse delle rovine e delle fucilazioni avvenire.

Nel 1833 pubblicava l’Istruzione generale per gli affratellati, la quale incominciava dal definirei limiti della nuova Italia. «L’Italia comprende: 1° L’Italia continentale e peninsulare fra il mare al sud, il cerchio superiore dell’Alpi al nord, le bocche del Varo all’ovest e Trieste all’est; 2° Le isole dichiarate italiane dalla favella degli abitanti nativi e destinate ad entrare, con un’organizzazione amministrativa speciale, nell’unità politica italiana» (Serici, ecc. Milano, 1861. Voi. 1, pag. 108).

Sventola oggidì sulle nostre torri la bandiera tricolore; e Mazzini diceva, nel 1831: «I colori della giovine Italia sono il bianco, il rosso, il verde» . Si combatte tra noi la federazione italiana; e Mazzini la combatteva fin dal 1832. Si vuole oggidì assolutamente l’Italia una, e Mazzini già da trentanni grida: «La Giovine Italia è unitaria, perché senza unità non vi è veramente nazione, perché senza unità non vi è forza». Si studia ogni mezzo per avere Roma, e Mazzini ci studia da lustri, e fin dal 1832 scriveva agli Alemanni ed ai liberali francesi: «Da Roma solo può muovere per la terza volta la parola dell’unità moderna, perché da Roma sola può partire la distruzione assoluta dell’unità antica». Si vuoi distruggere il dominio temporale dei Papi, e Mazzini l’ha voluto sempre. Insomma, in tutto e per tutto il programma di Mazzini fu effettuato; benedetta la rivoluzione, rinnegato il diritto antico, divinizzato il popolo. In una parte sola non fu ancora eseguito il programma del Mazzini, nel rendere l’Italia repubblicana.

E non è Giuseppe Mazzini che nel 1831 scriveva a Carlo Alberto di Savoia una lettera famosa, che noi veggiamo oggidì pienamente compiuta? «Ponetevi alla testa, dicea Mazzini a Carlo Alberto, della nazione, e scrivete sulla vostra bandiera: Unione, Libertà, Indipendenza! Proclamate la santità del pensiero! Dichiaratevi vindice, interprete de’ diritti popolari, rigeneratore di tutta l’Italia! Liberate l’Italia dai barbari! Edificate l’avvenire! Date il vostro nome ad un secolo! Incominciate un’era da voi! Siate il Napoleone della libertà italiana! L’umanità tutta intera ha pronunziato i Re non mi appartengono; la storia ha consacrato questa sentenza coi fatti. Date una mentita alla storia e all’umanità; costringetela a scrivere sotto i nomi di Washington e di Kosciusko, nati cittadini; v’è un nome più grande di questi; vi fu un trono eretto da venti milioni di uomini liberi che scrissero sulla base: A Carlo Alberto nato re l’Italia rinata per lui!»

Ciò che non avvenne sotto Carlo Alberto, lo veggiamo avvenuto oggidì. La santità del pensiero è proclamata, i diritti popolari sono interpretati, la nuora era è incominciata, l’Italia è rinata. Ma i rivoluzionari non sono contenti, o almeno sono contenti quelli soltanto che pescano nel mare del bilancio. Mazzini e Garibaldi ricordano il loro giuramento di repubblicaneggiare la Penisola!

– 38 –

«La Giovine Italia, dicea Mazzini nell ‘Istruzione per gli affratellati pubblicata nel 1831, è repubblicana ed unitaria. Repubblicana, perché teoricamente tutti gli uomini d’una nazione sono chiamati, per la legge di Dio e dell’umanità, ad esser liberi, eguali e fratelli; e l’istituzione repubblicana è la sola che assicuri quest’avvenire, – perché la sovranità risiede essenzialmente nella nazione, sola interprete progressiva e continua della legge morale e suprema, – perché, dovunque il privilegio è costituito a sommo dell’edificio sociale, vizia l’eguaglianza dei cittadini, tende a diramarsi per le membra, e minaccia la libertà del paese, – perché dovunque la sovranità è riconosciuta esistente in più poteri distinti, è aperta una via alle usurpazioni, la lotta riesce inevitabile tra questi poteri, e all’armonia, che è legge di vita alla società, sottentra necessariamente la diffidenza e l’ostilità organizzata – perché l’elemento monarchico, non potendo mantenersi a fronte dell’elemento popolare, trascina la necessità d’un elemento intermediario d’aristocrazia, sorgente d’ineguaglianza e di corruzione all’intera nazione – perché, dalla natura delle cose e dalla storia è provato, che la monarchia elettiva tende a generar l’anarchia, la monarchia ereditaria a generare il dispotismo – perché dove la monarchia non si appoggia, come nel medio-evo, sulla credenza, oggi distrutta, del diritto divino, riesce vincolo mal fermo d’unità e d’autorità nello Stato – perché la serie progressiva dei mutamenti europei guida inevitabilmente la società allo stabilimento del principio repubblicano, e l’inaugurazione del principio monarchico in Italia trascinerebbe la necessità d’un’altra rivoluzione tra non molti anni» (Loc. cit. , voi. i, pag. HO).

E questo è il compimento del disegno mazziniano, a cui si lavora presentemente, e Mazzini e Garibaldi ci lavorano insieme, e ci lavora anche il ministero di Torino co’ suoi errori. Notate bene i principii enunziati dal Mazzini per dimostrare che l’Italia dee essere repubblicana: sono principii già ammessi anche dai pretesi difensori della Monarchia, sono principii che oggidì si cerca di chiarire coi fatti, in attesa del tempo opportuno per tradurli in pratica. L’opportunità si aspetta dal nostro governo per ispodestare il Papa, ma anche l’opportunità si aspetta, e si cerca per ispodestare il Re. Hanno distrutto il diritto divino per dimostrare che la Monarchia «riesce vincolo mal fermo d’unità e d’autorità nello Stato».

Tutti veggono che noi c’incamminiamo a gran passi alla repubblica, e su questa trova ancora qualche ostacolo, sapete perché? Perché in Roma comanda ancora Pio IX. Fate che questi abbandoni l’Eterna Città, e v’entri la rivoluzione, e allora le due parti del programma mazziniano avranno il loro compimento. L’Italia sarà non solo unitaria, ma anche repubblicana. E ciò è nell’ordine logico dei fatti, giacché non può comprendersi un’Italia monarchica dopo i mezzi e le dottrine che si adoperarono per renderla unitaria. Quelle dottrine e quei mezzi conducono direttamente alla repubblica.

E per la repubblica abbiam detto lavorano concordi Mazzini e Garibaldi. La France del signor Lagueronière ha aspettato un po’ tardi ad informarci che il 6 agosto Garibaldi e Mazzini s’erano abboccati a Mistretta. Essi eransi visti ed accordati molto tempo innanzi. Già abbiamo detto come s’intendessero e cospirassero insieme fin dal 1833, ma qui vuoisi aggiungere che nel giugno passato s’intesero in Lombardia.

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Quando Garibaldi viaggiava trionfante per le terre lombarde, quando Rattazzi ordinava ai prefetti d’accogliere l’eroe con ogni dimostrazione d’onore, ebbene allora Garibaldi e Mazzini si visitavano, si parlavano, e combinavano insieme la presente impresa della Sicilia. E ne abbiamo il documento in una circolare sottoscritta da Giuseppe Mazzini datata da Berna, 23 luglio 1862-, controsegnata per copia conforme, Maurizio Quadrio.

In questa circolare Mazzini informa i suoi amici della prossima impresa di Garibaldi, e vuole da loro la somma di trecentomila lire. «Per quanto, dice Mazzini, un uomo sia grande e potente, non può far tutto, non può sostituirsi al paese. Per quanto sia capace non può compire le missioni le più diverse. Garibaldi può vincere dove altri cadrebbe, può mutare una piccola impresa in una grande, può far molto dal poco, ma non può creare dal nulla. 1 materiali per l’impresa devono esser raccolti dagl’Italiani, poi affidati per l’azione a Garibaldi. L’impresa nazionale ha due parti che non possono confondersi senza danno: l’organizzazione preparativa e l’azione; queste duo parti devono affidarsi a due centri, a due uomini diversi. Garibaldi, noto, temuto, invigilato come è, non può occuparsi dei preparativi che devono esser condoni nel segreto e da uomini non noti e sospetti. Egli dev’essere chiamato ad assumere il comando dell’impresa preparata che sia: io credo poter assumere la parte preparatoria. Se gl’Italiani vogliasi dell’azione lo credono, s’accentrino a me, se noi credono, cerchino altri, ma non s’ostinino a voler confondere le due parti. A quei che accetterebbero d’affidarmi la parte organizzatrice, non ho bisogno di dire che è necessario un fondo d’azione, questo fondo dev’essere almeno di L. 300, 000. Questo fondo non può sperarsi dai versamenti che sono fatti al Comitato dell’Associazione Emancipatrice. L’Associazione non può vivere senza spese, spese di apostolato, di corrispondenze, di stampa, ecc. I fondi che entrano a poco a poco nella sua cassa devono a poco esaurirsi. E dunque necessario che il fondo per l’azione sia raccolto a parte e nel più breve tempo possibile – versate in mie mani».

E non sappiamo se le trecentomila lire sieno state versate nelle mani di Mazzini, ma questo sappiamo e veggiamo che Garibaldi è in Sicilia, e vi compie l’opera sua; opera che in pari tempo Urbano Rattazzi e Giacomo Durando cercano di compiere diplomaticamente, scrivendo note per ottenere la completa esautorazione del S. Padre. Rattazzi, Garibaldi e Mazzini non sono che tre divisioni del grande esercito della rivoluzione. Tutti tre. vanno d’accordo contro Roma, e voler Roma è voler la Repubblica. E questo ha confessato lo stesso Terenzio Mamiani quando nel 1849 disse all’Assemblea Costituente: «Signori, siamo schietti e fuggiamo le sottigliezze e gli equivoci. In Roma non v’ha alcuna via di mezzo; in Roma non possono regnare che i Papi o Cola da Rienzo. Siamo dunque franchi e sinceri. Dichiarare la decadenza dei Papi vuoi dire stabilire in Roma il governo repubblicano» (Atti dell’Assemblea Costituente, Romana seduta 3, pag. 12, col. 1°).

– 39 –

MINACCIE DI GARIBALDI A NAPOLEONE III

(Pubblicato il 15 agosto 1861).

Garibaldi il 6 di agosto recitò un discorso a Rocca Palumba, che la Discussione ci die’ assai travisato. Eccone il testo preciso, quale ci vien recato dai giornali siciliani:

«lo mi consolo di questo entusiasmo, giacché quando ben si comincia, ben si finisce. Sì, Roma o morte, noi manterremo la parola – (Poi rivolto a molte donne che gridavano a Roma) – Si, a Roma, anche a voi spetta una parte nella rivendicazione dell’indipendenza nazionale – Voi – invece di piangere, invece d’impedire ai vostri di prender parte al riscatto nazionale, dovete, come le donne spartane, spingerli al campo, e se renitenti scacciarli, perché altrimenti invece di far figli voi farete cavoli. – Meglio morii che schiavi. – Lo rammentate 1849: per mancanza di braccia il Borbone vi rimase a Messina ed ebbe agio di tornare allo stato primiero. – Al 1860 però noi per abbrancare la belva andammo sino alla tana, quantunque quel di Napoleone ce lo voleva impedire, e se non fosse stato per l’Inghilterra e qualche altra potenza amica, il Borbone avrebbe transatto con il governo di Torino, e si sarebbero rinnovati i fatti del 1849. – Non contento poi di aver arrestato i miei passi alla Cattolica, mi s’impedì di proseguire la marcia sul Volturno, ed oggi quell’uomo cerca d’impedirci di andare a Roma, l’aspirazione dell’intera nazione. – Ma noi vi andremo, giacché abbiamo una solidarietà con tutti i popoli oppressi – ed il popolo francese che è nostro fratello, è sotto il giogo della tirannia di quel…

– Ma gliela serviremo noi la messa!»

FUOCO CONTRO GARIBALDI

(Pubblicato il 17 agosto 1862).

Egli pare che il ministero abbia proprio deciso di far fuoco contro Garibaldi.

Gel dice il Diritto del 16 di agosto: «Si assicura che gli ordini… per la Sicilia sono partiti». E cel confermala Monarchici Nazionale dello stesso giorno 16, Num. 224. Leggete come ragiona bene quest’ultimo giornale:

«Si è parlato di messaggeri spediti al generale Garibaldi e di trattative con lui avviate sulle basi di alcune proposte. Appena occorre dire che queste voci sparse ad arte da partiti ostili al governo sono destituite d’ogni fondamento.

«La condizione rispettiva del generale Garibaldi e del governo italiano è chiara e netta. Il generale Garibaldi usurpando le prerogative della Corona e del Parlamento, ha raccolto intorno a sè armi ed armati per tentare una spedizione, che porrebbe a cimento le sorti dell’intera nazione.

«Il Re col proclama del 3 agosto ha richiamato Garibaldi e i suoi seguaci all’osservanza dello Statuto, avvertendoli che altrimenti la risponsabilità delle conseguenze e il rigore delle leggi cadrebbero su di loro. Ciò posto, al generale Garibaldi non rimanevano che due vie: o piegare il capo alla voce del Re, o resistere ad essa.

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«II governo non aveva che un partito a prendere: eseguire puramente e semplicemente il proclama del Re. Il generale Garibaldi non ha ottemperato agli ordini del Re e alle deliberazioni del Parlamento. Laonde il governo ha preso tutti i provvedimenti necessarii per costringere Garibaldi e i volontari al rispetto della legge, disperdendoli, occorrendo, con la forza.

«Ecco tutto; all’infuori di ciò non v’ha più verità. Il governo non poteva e non doveva far che questo. Il governo non aveva proposte a fare, né patti a proporre, né accomodamenti a negoziare. Non si patteggia sul rispetto della legge; con chi si rivolta alla legge, qualunque siano le sue intenzioni, non v’ha che una severa ammonizione, e poscia l’uso della forza.

E procedendo innanzi su questo metro, la Monarchia Nazionale viene a questa conclusione: «Se le nostre informazioni non errano, la soluzione della crisi è assai vicina. L’intimazione ai volontari di cedere all’autorità legittima sotto pena di vedersi dispersi con la forza è imminente, se già non èstata l’atta».

Tutto bene codesto. Ma chi ha dato tanta forza a Garibaldi? Non è Rattazzi che ne ha invocato il patrocinio? Non è Rattazzi che per far piacere a Garibaldi ha mandato il marchese Pallavicino prefetto a Palermo? Non è Rattazzi che ha dato ordine alle autorità lombarde di ricevere Garibaldi cogli onori reali? Se Garibaldi è forte, chi gli diè questa l’orza? Non è quel governo stesso che lo combatte? Ah I. vi educaste la serpe in seno, ed oggi vi lagnate perché vi morde, e volete schiacciarle la testa? Potrebbe darsi che più non foste in tempo. Principi e governi, che vi servite della rivoluzione, pensate quanto costino cari i suoi servigi!

ARRINGA DI GARIBALDI A MARIANOPOLI

(Pubblicato il 20 agosto 1862).

Togliamo dal Precursore di Palermo del 15 agosto l’arringa con cui Garibaldi accolse a Marianopoli gli uffìziali della guardia nazionale di Santa Caterina. Fra le altre cose è degno di attenzione ciò che Garibaldi dice contro l’esercito chiamandolo verme roditore della proprietà dello Stato, spauracchio delle, libere istituzioni. Ecco le sue parole:

«La concordia, ei disse, fa la forza dei popoli: badate a che condussero l’Italia le gare municipali de’ tempi di mezzo, come l’Italia riesci vittoriosa quando i suoi figli rinsaviti si strinsero in un sol patto! La Spagna anche ne ammaestra sulle funeste sorti che preparano ai popoli le insanie civili. Però concordia e fratellanza. E questa non solo fra noi Italiani, ma altresì di noi Italiani cogli altri popoli dell’universo. Quando questa fratellanza veramente esistesse, a me poco peserebbe sull’anima che la mia Nizza fosse da questa o da quella parte, mentre le nazioni non sarebbero che le membra di una sola umana famiglia.

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Concordia però non vuoi dire, non esige il piegare a codardi consigli, l’accettare, per paura di lotta, una indegna obbedienza. Così si arriva al servaggio, non alla fratellanza dei popoli, e tale è la via per cui il servidorame di Rattazzi e la costui malignità spinge la rappresentanza nazionale e vorrebbe cacciare la tradita Italia. Ma indarno sono gli empii propositi, gli Italiani hanno capito che questa volta è tempo di farla finita… che senza Roma Italia non è, che senza Roma non mai avremo pace, sicurezza, libertà interna, considerazione al di fuori. E la faranno finita. Avutasi Roma dagli Italiani e ogni serva provincia, chiamate le nazioni tutte a libertà ed a fratellanza si scioglieranno pure gli eserciti stanziali, questi vermi roditori della proprietà dello Stalo, questi spauracchi delle libere istituzioni; mentre, senza guerre all’estero, cessa la necessità ed ogni utile loro, poiché l’ordine e la tranquillità interna devono unicamente salvaguardarsi dalle milizie cittadine».

DUE DISCORSI DI GARIBALDI

CONTRO IL PAPA

(Pubblicalo il 29 agosto 1862).

Riceviamo il Precursore colla data del 21, esso ci arreca due discorsi di Garibaldi, pronunziato l’uno a Caltanissetta e l’altro a Pietraperzia in chiesa. Essi, e principalmente il secondo, sono ripieni di tali sacrileghe espressioni, che fanno rabbrividire. Ne togliamo un brano del primo pronunziato dal balcone della casa della Società Unitaria di Caltanissetta. Dopo salutata la popolazione: «Noi vogliamo, disse, noi vogliamo il nostro, nient’altro che il nostro. E Roma o morie è l’espressione del nostro fermo volere, che faremo compiuto ad onta dello straniero che lo contrasta, che tuttor tiene in catene i nostri fratelli. Vogliamo il nostro, e nostra o Roma; e lo sa colui che ce la contende, colui che empiamente la vuole per sé. Sono due anni che promettono dare Roma, che ci pascono di vane speranze… Ma poiché la diplomazia persiste nella sua ostinazione, e le preghiere non giovano ed avviliscono un popolo qual è l’italiano, è tempo, è necessità che si ricorra al ferro… E col ferro la diplomazia diventerà liscia e pieghevole… E col ferro otterremo Roma, col ferro… Essa a noi si appartiene! È la capitale dataci da Dio, nessuno ce la può torre. L’Italia senza Roma è un corpo senza cuore, è un corpo scemo del capo.

«Son sicuro che questo popolo sarà costante nel suo principio di nazionalità. Però non vi lasciate ingannare da coloro che hanno interesse di sfalsarlo. Tra costoro sonovi i preti e precisamente il gran Prete di Roma e i suoi Cardinali, ni ninni di superstizione e dei governi tirannici» .

– 42 –

A Pietraperzia poi dopo il P. Pantaleo, innalzava egli pure nella chiesa la sua voce e pronunziò un discorso, di cui non crediamo bene che riprodurrte alcuni brani. «Quando io dissi, parlò egli con voce vibrata, che questo è il popolo dalle grandi iniziative, io non dissi che il vero. Un tal vanto nessuno lo può negare al popolo di Sicilia… L’Italia lo vedrà, e già lo vede, iniziare anche questa volta un movimento destinato a compiere l’unità della nazione» Ecco là, soggiunse dopo breve pausa, affissando ed additando il crocifisso. Ecco là il nostro precursore, Cristo, il primo maestro di vera libertà allo genti. Il suo martirio fu immensamente fecondo sopra la terra… fu desso che in modo miracoloso operò il riscatto dell’umanità…

«I falsi leviti osarono fare della religione di Cristo un infame strumento di basse e condannate passioni. Essi pervertirono il senso della divina missione, essi hanno travolto a mondani interessi le massime eterne, sulle quali il Cristo incardinava la sua religione di amore.

«Però essi che hanno rivolto al male gli stromenti, poi quali si opera il bene, essi non sono i ministri del Cristo, ma noi piuttosto, noi che predichiamo la vera sua dottrina colle parole e coi fatti, noi che affrontiamo volentieri il martirio, perché gli uomini sieno effettivamente liberi ed eguali, come egli li volle, noi che abbiamo gli stessi principii, noi che teniamo scolpite nel cuore le massime del Cristo.

«A lui però bastava bandirli colla sola, ma potente sua parola. A noi, per assicurarne il trionfo, non basta la sola predicazione, ma è necessario appoggiarla, avvalorarla con questo (e qui prendeva tra mani la sciabola d’un uffiziale della guardia nazionale) sì, col ferro appoggiare ed avvalorare la nostra parola.

«Col ferro noi sapremo ritogliere Roma alle infami de’ preti e del forestiero occupatore; col ferro sapremo restituirla all’Italia ed all’umanità, cui è destinata a giovar tanto; col ferro sapremo ricollocarla in quel grado di grandezza e di splendore, al quale fu predestinata da Dio; sapremo infine ritornarla alla purezza della religione cristiana. L’Italia è figlia primogenita dell’umanità, quindi i suoi destini, e i suoi nemici sono i destini, sono i nemici di questa, quindi la nostra opera è bene accetta a tutte le nazioni. Forti del costoro appoggio, a noi tarda compiere il nostro dovere. L’umanità tien fissi gli occhi sopra di noi; ma ci vedrà vincere anche una volta in nome de’ santi principii proclamati dal Cristo. Sì, vinceremo, che la vittoria è fedele ai forti, che incedono in nome della giustizia. Vinceremo, né questa volta sia chi ci possa arrestare nò al Volturno, né altrove! A niuno è possibile contrastare la marcia gloriosa ed irresistibile d’un popolo, che vuoi cacciare dalla sua capitale i nemici dell’umanità e di Dio!!!»

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L’APOTEOSI

E LA GOGNA DI GARIBALDI

(Pubblicato il 30 agosto 1862).

Non sono ancora quindici giorni passati che il nomo di Garibaldi era sommamente glorioso, e dal gabinetto del ministero al deschetto del ciabattino era dappertutto un inneggiare, un osannare a Garibaldi. Noi non potevamo, senza sentirci rivoltare lo stomaco, vedere persone probe, assennate, od almeno in voce di probe ed assennate, cantar le lodi dell’eroe di Caprera, comechè credessero dover far certe loro riserve a proposito dei sensi religiosi del gran capitano.

Ed ora quell’uomo grande, quell’eroe, della cui fama si empievano tutte le bocche, e il cui nome era come una scintilla elettrica che faceva brillar di gioia le fronti dei nostri politici da caffè e da trivio, o divenuto l’oggetto di esecrazione di tutta quella turba d’imbecilli che l’avevano incielato. L’eroe è un ribelle, è un bandito, o un brigante, secondo la frase della Discussione.

Noi che abbiamo vigorosamente combattuto Garibaldi quando era sul suo piedestallo, come diceva in que’ tempi la Gazzetta del Popolo, non gli daremo il calcio dell’asino ora che è posto al bando de’ suoi adoratori. Noi condannammo Garibaldi quando era sul trono, e la faceva da re, anzi da Dittatore: lo condanniamo ora che la la da ribelle. Ma diciamo che Garibaldi è lo stesso oggi che era ieri: è lo stesso Garibaldi che fu l’idolo degli italianissimi, e che ora ne a l’esecrazione. Non è lui che ha cangiato, cangiarono i suoi adoratori, e invece dell’incenso, ora gli scagliano pietre. Nuova lezione di quanto valga la gloria del mondo. Più d’una volta, quando Garibaldi era all’apogeo di sua gloria, pronunziammo che tra breve quella gloria si volgerebbe in ignominia: e coloro che lo careggiavano, che lo inneggiavano, gli avrebbero gridato: Dalli! Dalli!

Sarebbe pur curioso il porre a riscontro gli onori che Garibaldi s’ebbe da quattordici anni in qua, cioè dal 1849 lino al 1862, coi vituperi ufficiali e semiufficiali che si ebbe interpolatamente, e specialmente col marchio di ribelle, di bandito, di brigante più o meno ufficialo, con cui è bollato nell’agosto di quest’anno. Altro che « due volte nella polvere – Due volte in sull’altar!»

Noi non ricorderemo che i punii principali della carriera gloriosa di Garibaldi. Il conte di Cavour, il 17 di maggio 1860, faceva stampare queste parole: «Il governo ha disapprovato la spedizione del generale Garibaldi, ed ha cercato di prevenirla con tutti quei mezzi che la prudenza e le leggi gli consentivano. La spedizione ebbe luogo nonostante la vigilanza dello autorità locali; essa fu agevolata dalle simpatie che la causa della Sicilia desta nelle popolazioni. Appena conosciutasi la partenza de’ volontari, la flotta reale ricevette ordine d’inseguire i due vapori e d’impedire lo sbarco. Ma la marineria reale non lo potè fare, nella guisa stessa che non Io potè quella di Napoli che pure da parecchi giorni stava in crociera nelle acque di Sicilia.

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Del resto l’Europa sa che il governo del Re, mentre non nasconde la sua sollecitudine per la patria comune, conosce e rispetta i principii del diritto delle genti, e sente il debito di farli rispettare nello Stato, della sicurezza del quale ha la responsabilità».

Ma di queste ingiurie e di questi insulti al grande eroe, il conte di Cavour fece onorevole ammenda nella tornata della Camera del 2 ottobre dello stesso anno. Ecco le sue parole: « Il governo del Re non poté fallire all’assunto di secondare la fortuna d’Italia e compiere ardite imprese. – Altri undici milioni di Italiani hanno infranto le loro catene. – Il ministero è al tutto alieno dall’attribuire unicamente a se stesso il inerito di sì mirabili eventi. – A rispetto di Napoli e Sicilia è dovuto al concorso generoso dei volontari, e più che ad altra cagione AL MAGNANIMO ARDIRE DELL’ILLUSTRE LORO CAPO IL GENERALE GARIRALDI. Il ministero si restringe a notare che questi memorandi casi furono conseguenza della politica proseguita per dodici anni dal governo del Re. Garibaldi è un GENEROSO PATRIOTA. L’autorità e l’impero di Napoli e Palermo stanno nelle mani gloriose di Garibaldi, il quale ha reso segnalati servizi alla patria» (Atti ufficiali, N° 138, pag. 539, 540). Così l’ illustre capo dei volontari, il generoso patriota era messo a cielo per il magnanimo suo ardire. Ed il governo del Re vedeva così alto Garibaldi, che appena timidamente osava mettersi a suo paragone, ricordando che da dodici anni proseguiva la medesima politica di Garibaldi.

Pochi giorni dopo, cioè il 9 ottobre, il Farini d’accordo con Cavour metteva in bocca al Re, nel suo proclama dato da Ancona, queste parole: «Era cosa naturale, che i fatti succeduti nell’Italia settentrionale e centrale sollevassero più e più gli animi nella meridionale. In Sicilia quest’inclinazione degli animi ruppe in aperta rivolta. Si combatteva per la libertà in Sicilia, quando un prode guerriero, devoto all’Italia ed a me, il generale Garibaldi, salpava in suo aiuto. Erano Italiani, che soccorrevano Italiani: io non poteva, non doveva rattenerli. La caduta del governo di Napoli raffermò quello che il mio cuore sapeva, cioè quanto sia necessario ai Re l’amore, ai governi la stima dei popoli».

Dodici giorni dopo, cioè il 21 ottobre dello stesso anno, il governo di Sicilia pubblicava un decreto firmato dal pro-dittatore e da dieci ministri, per cui è stabilito quanto segue: «La stanza da letto occupata dal generale Garibaldi in Palermo nel padiglione annesso al palazzo reale sopra porta Nuova sarà conservata in perpetuo nello stato, in cui presentemente si trova, e coi mobili di cui è attualmente fornita». Ed il governo si diede premura di pubblicare l’inventario dei mobili fatto dal pro-dittatore Mordini, assistito dal ministro dell’interno Parisi, e dal governatore del real palazzo Giovacchino Ondes. Nell’inventario figura in secondo luogo un orinale di porcellana colorata rossa.

Non recheremo qui la litania di nomi gli uni più onorifici degli altri, con cui venne lodato Garibaldi, il Salvatore, il Redentore, il Messia, il Dio dell’Italia. Ricorderemo ciò che leggevasi nella Nazione di Firenze del 10 settembre 1861:

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«Ferdinando P… del Santomoro, uomo di principii retrivi, eccitato, al solito, dal pretume, per isfogar la sua ira contro il generale Garibaldi pose, in segno di sprezzo, il nome dell’illustre Italiano ad un suo somaro, e passando più volte per Cadeglia, fu udito dire, percuotendo la bestia: can di Garibaldi, maledetto Garibaldi. Il sotto-prefetto di Pistola ha fallo, per misura preventiva, carcerare codesto miserabile». Ciò era naturale conseguenza della divinità di Garibaldi. Se questi era Dio, era bestemmia contaminarne il nome.

Ricorderemo brevemente come Garibaldi venne promosso ai più alti onori dello Stato, gli fu offerto il collare dell’Ordine Supremo della SS. Annunziata, ed una grassa pensione. Garibaldi nella sua modestia, dissero i suoi idolatri, rifiutò ogni cosa, contento d’aver donato l’Italia a se stessa. In fatto però Garibaldi trovò che ogni onore era inferiore a’ suoi meriti, eccetto la Dittatura. Più volte egli proclamò che è repubblicano. Ma quanto a sé, non volle altro che la Dittatura! Repubblicano veramente curioso!

Che diremo poi delle feste, delle luminarie, delle ovazioni, dei trionfi dell’eroe? Basti ricordare gli ultimi allori raccolti quest’anno poco prima della commedia di Sarnico. E gli inni? Le bande musicali dell’esercito, come gli strimpellatori del violino e della chitarra pei trivii e per le bettole, facevano echeggiare gli inni all’eroe. E i nostri bimbi, che appena sanno spiccare le prime parole, non cantano Garibaldi marcia in fretta?

Insomma, non sapremmo qual uomo privato ricevette in Italia maggiori onori di Garibaldi. Or bene: colui che non ha guari era chiamato il Taumaturgo, un Arcangelo, un Essere sopranaturale, il Messia, un Dio, ora non è più che un limone spremuto, come lo chiama la Gazzetta del Popolo, la quale pure prodigò tanti elogi all’eroe!

Ora Garibaldi ha alzato la bandiera della rivoluzione; ha posto il suo braccio e la sua rinomanza al servizio della demagogia europea. Pertinacemente sordo alla voce del suo dovere egli non si è commosso al pensiero d’accendere la guerra civile in seno alla patria. In poche parole: lo Stato gli bandisce la croce addosso; mette in stato d’assedio i paesi dove la sua voce è ancora ascoltata; l’esercito italiano tutto quanto è rivolto non contro l’Austria, ma contro Garibaldi che fulminò cento volte colle sue arringhe l’Austria. E quel paese, il quale non aveva nulla di più bello, di più grande, di più glorioso che Garibaldi; ora non ha nemico più pericoloso che Garibaldi. Annibale non faceva più terrore ai Romani.

In meno d’un mese Garibaldi passò dall’apoteosi alla gogna. Ecco il fatto che abbiamo sotto gli occhi. Quante lezioni vi sarebbero da trarre da ciò che vediamo! Ma le notizie che quasi ad ogni istante ci giungono, mentre scriviamo, di tumulti, di moti, di rivolture a Genova, a Firenze, ecc. , ci fanno cadere la penna di mano, e non abbiamo il coraggio dì fare altre riflessioni.

Ci contentiamo di dire che tale è sempre la fine di coloro che muovono guerra a Dio ed al suo Vicario in terra. Quando sono al colmo della loro gloria e si credono potenti da sfidare non che tutte le potenze della terra, l’onnipotenza di Dio, ad un soffio dell’ira del Signore sono prostrati; e coloro stessi che hanno innalzalo l’idolo sull’altare la fanno a pezzi. Et nunc… intelligite, erudimini qui iudicatis terram.

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DICHIARAZIONE DI GARIBALDI

(Pubblicato il 19 settembre 1862).

Il Diritto del 12 settembre pubblica a nome del generale Garibaldi questa precisa e categorica dichiarazione: « L’Alleanza nel suo numero 31, addì 14 «settembre, assevera che l’Inghilterra per rompere, od almeno affievolire l’alleanza franco-italiana, appoggi con parole e con danari l’impresa del generale Garibaldi. Ciò è assolutamente contrario alla verità».

A noi non pare tè precisa  categorica codesta dichiarazione. La parola Inghilterra può significare il governo inglese, o semplicemente gl’Inglesi: e significando governo inglese, potrebbe distinguersi tra appoggio morale e materiale, ed anche appoggio ufficiale, od ufficioso, e via via. Del resto ci ricorda che lord Palmerston rispondendo ad una interpellanza, dichiarò che il governo non aveva mandato danari a Garibaldi; ma sapeva che privati cittadini gli avevano spedito non sappiam più quali somme. Se il governo non mandò danari, poté mandar altro equivalente e forse più influente.

IL DANARO DI S. PIETRO E IL DANARO DI GARIBALDI

(Pubblicato il 20 settembre 1862).

L’Unità Italiana del 19 di settembre pubblica un appella del Comitato garibaldino di Londra agli operai inglesi, in cui questi sono eccitati a sottoscrivere al danaro di Garibaldi, come fanno gli amici del dispotismo e del Papato col Danaro di S. Pietro. Abbiamo già veduto che il deputato Ricciardi avea proposto il Danaro d’Italia per contrapporre al Danaro di S. Pietro. Ma la proposta fu trovata ridicola, e non se ne fece caso veruno. Ora il Comitato garibaldino vuoi tentar la prova ad accattar soldi per il suo eroe, e per non far fiasco completo si contenta della misera moneta d’un soldo: date obulum Garibaldino. L’appello termina così: «Facciamo intendere a Garibaldi che la sua voce ha trovato un’eco nei nostri cuori, e sappiano i tiranni che noi pure chiediamo giustizia per l’Italia. Cometa causa del dispotismo e la stessa in tutto il mondo, così pure è la causa della libertà.

«Gli amici del dispotismo e del Papato hanno firmato in ogni paese, e perfino in Inghilterra, per il Danaro di S. Pietro. Noi v’invitiamo a mostrare la vostra simpatia per ii generale Garibaldi e per la causa, di cui egli è campione.

«Noi abbiamo quindi aperto una sottoscrizione di un soldo (10 centesimi) a tale intento.

«Noi uomini del lavoro, non siamo ricchi, ma numerosi. Se non possiamo mandare migliaia di lire ai nostri fratelli d’Italia, possiamo però dar loro milioni di soldi, e innalzare nello stesso tempo da un’estremità del paese all’altra il grido che oggi passa come una bufera sull’Europa: Roma per l’Italia! Roma o morte.

«In nome del Comitato per gli Operai, per il fondo di Garibaldi.

I. Sfarkhali, segretario» .

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Gli operai inglesi muoiono di fame ed hanno altro in testa che mandare il loro soldo a Garibaldi! Crediamo che quest’appello avrà lo stesso esito di quello di Mazzini, con cui chiedeva i famosi 300, 000 franchi e con cui si rendeva mallevadore di pigliar Roma alla barba di Napoleone III.

PETIZIONE PER LA LIBERAZIONE DI GARIBALDI

(Pubblicato il 20 settembre 1862).

Il partito mazziniano riavutosi dallo sbalordimento cagionatogli dalla catastrofe di Aspromonte si è messo coll’arco della schiena ad agitare nuovamente il paese. Ora ha messo fuori una petizione per la liberazione di Garibaldi, eccitando gli amici a firmarla ed a farla firmare. Ecco questo documento pubblicato dall Unità Italiana del 19 settembre.

AI MINISTRI

« Signori,

« Giuseppe Garibaldi è gravemente ferito ed è prigioniero.

« Noi non intendiamo ora discutere sulle cagioni che lo condussero a tale. Diciamo che sono nella vita delle nazioni fatti ed uomini da non potersi, senza disonore e colpa di tutti, sottoporre alle norme comuni.

« Tale è Garibaldi: tale è il fatto pel quale ci giace prigioniero e ferito.

« Garibaldi ha combattuto tutte le battaglie dell’unità italiana. Garibaldi ha dato a quell’unità dieci milioni di cittadini. Garibaldi è il simbolo vivente del voto dell’intera nazione.

«La sua ferita fu colta, mentr’ei moveva, non contro voi, ma verso terre sulle quali vive, proclamato da voi e negato dallo straniero, il diritto italiano; – non per mutare gli ordini dello Stato o combattere il vostro programma, ma per compire l’uno o l’altro.

« Voi potete, signori, giudicare prematuro, non colpevole, quel fatto invocalo da tutta Italia: potete impedire, non punire chi lo tentava. L’Italia intiera è fedita e prigioniera con lui.

« Noi chiediamo, signori, ” la libertà di Garibaldi. In nome del voto d’Italia, in nome della riconoscenza che voi, ‘con noi, gli dovete, noi chiediamo ch’ei possa curare la propria ferita circondato dall’amore de’ suoi, fuori di un carcere che ricorda all’Europa il carcere di Colombo».

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NOTA DIPLOMATICA

SULLA DISFATTA DI GARIBALDI

(Pubblicato il 23 settembre 1862).

Pubblichiamo il testo della Nota del ministro Durando che forma l’argomento del nostro primo articolo. La Corrispondenza Bullier nel riferirne un sunto dice: t Noi chiediamo al gabinetto di Torino se gli e permesso di mettere in accusa Garibaldi dal momento che la parola d’ordine dei volontari esprimeva il bisogno imperioso della nazione.

«Se Garibaldi non ha l’alto che rispondere ad un bisogno imperioso della nazione, noti è la Corti: di Cassazione di Napoli, né quella di Milano che bisogna convocare per giudicarlo. Dopo la circolare del ministro Durando, Garibaldi non può più estere processato, poiché non avrebbe, per difendersi, che a leggere questa circolare, ove si trova la sua giustificazione, anzi la sua riabilitazione completa. Non è egli evidente d’altra parte che, se Garibaldi meritasse d’esser giudicato e condannato per aver voluto Roma, il governo che occupa Roma è legittimamente fondato a conservarla e a rimanervi, qualunque sia la forma sotto la quale gli si domanda d’uscirne?»

Ecco la nota circolare che porta la data di Torino, 10 settembre, ed è indirizzata alle nostre legazioni all’estero:

«L’altitudine presa dal governo del Re dopo il tentativo di Sarnico dava luogo a credere che il generale Garibaldi avrebbe d’ora innanzi rinunciato ad imprese incompatibili coll’ordine stabilito, e tali da compromettere l’Italia nelle sue relazioni coi governi stranieri.

Quest’aspettativa è stata delusa. Fuorviato da sentimenti che il rispetto della legge a una più giusta estimazione della situazione avrebbero dovuto contenere, e troppo accessibile agli eccitamenti d’una setta più conosciuta per le sue vittime, che per i suoi successi, non indietreggiò avanti alla prospettiva d’una guerra civile, e volle farsi l’arbitro dell’alleanza e dei destini dell’Italia.

«La mercé delle ricordanze lasciate in Sicilia per gli avvenimenti del 1860 ha potuto riunire in quest’isola dei corpi di volontari; le popolazioni incerte tra la simpatia che dovea svegliare in esse una rivendicazione di Roma, e il dolore di vedere questa rivendicazione prendere il carattere d’una rivolta, non lo videro passare in mezzo ad essa che con inquietudine e tristezza; il Parlamento lo disapprovava; il Re stesso, di cui non cessava d’invocare il nome, lo chiamava alla sommissione alle leggi; lutto fu inutile. Percorse la Sicilia e entrò in Catania, trovando dappertutto un accoglimento pieno di salutari avvertenze che egli non seppe intendere; da Catania infine passò sul continente con tremila uomini, obbligando così il governo del Re di venire ad una repressione immediata e completa. È allora che, raggiunto da un distaccamento dell’armata, fu preso con tutti i suoi.

– 49 –

«I fatti che io sommariamente vi richiamo alla mente, non lascieranno, o signore, altra traccia fra noi che una dolorosa memoria: l’unione degli spiriti, fondata su d’un attaccamento unanime a principii superiori, non potrebbe essere turbata.

«Essi hanno frattanto un significato che voi farete rimarcare al governo, presso il quale voi siete accreditato. Essi sono un attestato della maturità politica di quelle popolazioni libere da ieri soltanto, de! desiderio che l’Italia prova di vedere i suoi destini compiersi per vie regolari, o dei legami indissolubili che uniscono la nazione alla monarchia costituzionale, espressione suprema della volontà del paese. Essi sono infine una nuova prova della fedeltà e della disciplina dell’armata, costante e sicura guardiana dell’indipendenza nazionale.

«Non ostante i gabinetti europei non debbono ingannarsi sul vero significato di cotesti avvenimenti.

«La legge ha vinto; ma il motto d’ordine dei volontari è stato questa volta, bisogna riconoscerlo, l’espressione d’un bisogno più imperioso che mai. La nazione tutta intera reclama la sua capitale; essa non ha testò resistilo allo slancio sconsiderato di Garibaldi, se non perché essa è convinta che il governo del Re saprà compire il mandato che egli ha ricevuto dal Parlamento riguardo a Roma. Il problema ha potuto cambiare d’aspetto; ma l’urgenza non ha fatto che divenire più potente.

«A fronte delle scosse sempre più gravi che si ripetono nella Penisola, le Potenze comprenderanno quanto sia irresistibile il movimento che spinge l’intera nazione verso Roma. Esse comprenderanno che l’Italia ha fatto uno sforzo supremo ed ultimo trattando da nemico un uomo, che pure aveva resi sì splendidi servigi, e aveva sostenuto un principio che è nella coscienza di tutti gl’Italiani: esse comprenderanno che, secondando senza esitanza il loro Sovrano nella crisi che hanno attraversalo, gl’Italiani hanno inteso di riunire le loro forze intorno al rappresentante legittimo dei loro diritti, perché sìa resa loro finalmente giustizia.

«Dopo questa vittoria riportata in questa guisa sopra se stessa, l’Italia non ha più bisogno di dimostrare clic la sua causa è quella dell’ordine europeo, essa ha dimostrato abbastanza a quali sacrifici sappia assoggettarsi per mantenere i suoi impegni, e l’Europa sa segnatamente che essa manterrà quelli che ha assurto ed è pronto ad assumere rispetto alla libertà della Santa Sede.

«Le Potenze quindi debbono aiutarci a dissipare le prevenzioni che ancora impediscono che l’Italia possa trovar riposo e rassicurare l’Europa.

«Le nazioni cattoliche, la Francia sopratutto, che si è costantemente adoperata per la difesa degl’interessi della Chiesa nel mondo, riconosceranno il pericolo che vi è nel mantenere più a lungo tra l’Italia ed il Papato un antagonismo, di cui la sola causa risiede nel potere temporale e nello stancare lo spirito di moderazione e di conciliazione, da cui le popolazioni italiane si sono finora mostratc informate.

– 50 –

«Un tale stato di cose non è più sostenibile, esso riescirebbe pel governo del re a conseguenze estreme, la cui responsabilità non potrebbe aggravarsi su noi soli, e che comprometterebbe gravemente gl’interessi religiosi della cattolicità e la tranquillità d’Europa.

«V’invito, signore, a dare lettura del presente dispaccio al signor ministro degli affari esteri di e di lasciargliene copia.

«Vogliate, ecc.

« Segnato: Giacomo Durando».

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa/vol_02_01_margotti_memorie_per_la_storia_dei_nostri_tempi_1865.html#Abbiamo

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