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STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI VOL. IV (IV)

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STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI VOL. IV (IV)

RATTAZZI E IL PARTITO D’AZIONE

(Pubblicato il 26 settembre 1862).

Una corrispondenza torinese della Gazzetta Austriaca reca i particolari di un presuntivo compromesso, proposto al governo italiano dal partito d’azione.

Eccone le basi: 1° Amnistia incondizionata per Garibaldi ed i corpi dei volontari. 2° Contemporanea abolizione dello stato d’assedio nelle provincie del Sud. 3″ Piena libertà di stampa. 4» Scioglimento della Camera – per isbarazxarsi dei^deputati imperialisti. 5» Nuova convocazione dei collegi elettorali per creare nuovi rappresentanti, che non rivolgano più il loro sguardo a Parigi. 6» Non interrotto aumento ed armamento dell’esercito. 7» Incorporamene nella truppa degli elementi atti alla guerra dei corpi garibaldini. 8» Ultimatum all’imperatore Napoleone per lo sgombero di Roma – ed in caso di rifiuto indilazionata rottura delle relazioni diplomatiche.

PROGESSO DI GARIBALDI E DEI GARIBALDINI

(Pubblicato il 26 settembre 1862).

Il ministero aveva deciso di fare il processo a Garibaldi ed ai Garibaldini davanti alla Corte d’Assisie. Ma non voleva farlo nelle provincie di Napoli, pel timore che i Giurati dessero ragione a Garibaldi e torto a Rattazzi, lo che sarebbe stato errar peior priore. Per lo che i ministri spedirono il seguente dispaccio telegraQco alla Corte di Cassazione di Napoli:

Al Procuratore Generate presso la Corte di Cassazione di Napoli.

Dovendosi a termine di legge procedere per gli ultimi fatti di ribellione, il governo non crede per ragioni di pubblica sicurezza instituire il processo avanti la Corte di Catanzaro, o qualsiasi altra Corte delle provincie napoletane e siciliane.

Di coerenza, ed a tenore dell’art. 760 del Codice di procedura penale, la S. V. è invitata a ricorrere tosto a codesta Corte di Cassazione, affinché venga il processo rimandato ad altra Corte.

– 51 –

Siccome però cotesta Corte di Cassazione non avrebbe giurisdizione fuori delle provincie napoletane, la S. V. nel ricorso domanderà che la Corte stessa nel suo decreto abbia a richiedere la Corte di Cassazione di Milano, onde venga dalla medesima designata la Corte d’Assisie, la quale dovrà giudicare invece di quella di Catanzaro.

Pel Ministro assente

Il direttore superiore, E. Robecchi.

La Corte di Cassazione di Napoli, osserva il Diritto, avea conoscenza di questo dispaccio il 15 settembre, precisamente nel giorno stesso che la Gazzella Ufficiale stampava quella famosa nota in cui, con una goffa affettazione d’ingenuità, si dichiarava che, quanto al processo di Garibaldi, il governo non aveva niente da fare e niente da dire, trattandosi di eseguire la legge e di lasciare che la giustizia abbia libero il suo corso!! Queste parole stanno degnamente a riscontro di quelle del dispaccio ministeriale, in cui esplicitamente è detto: il governo Non Crede, per ragione di pubblica sicurezza, Istituire il processo avanti questa o quella Corte. Ricevuto il dispaccio ministeriale, il pubblico ministero, rappresentato a Napoli dal sostituito procuratore generale G. De Falco, faceva la sua istanza alla Corte di Cassazione in questi sensi: «II sostituito procuratore generale, per delegazione del signor avvocato generale, funzionante da procuratore generale e dietro consulta dell’ufficio del pubblico ministero convocato a termini del regolamento;

Visto il dispaccio telegrafico del sig. ministro di grazia e giustizia così concepito:

(Segue il dispaccio)

«Sulle considerazioni, che le condizioni politiche di queste provincie napoletane con lo stato d’assedio consigliano, per assicurare intiera tutela all’indipendenza ed alla libertà del giudizio, che sia esso trattato presso una Corte, che non si trovi nelle medesime condizioni;

«Ciò non pertanto la Corte di Cassazione di Napoli, non potendo delegare la causa ad una Corte che sia fuori i limiti della sua giurisdizione, non le rimane che invitare altra Corte di Cassazione del regno a designare una Corte d’Assisie; presso la quale si potesse, a termini di legge, instituire il processo; visto l’art. 760 del Codice di procedura penale; d’ordine del ministro di grazia e giustizia: fa istanza che la Corte di Cassazione, per motivi di sicurezza pubblica, inviti la Corte di Milano a designare una Corte d’Assisie del regno, presso In quale si possa procedere nei termini di legge per la causa suddetta, invece di quella di Catanzaro.

« Il sost. proc. generale: G. De Falco».

La Corte di Cassazione eli Napoli, presidente Niutta, relatore Nicolini, dimenticò clic nel silenzio della legge, al di sopra di lei, del governo e del pubblico ministero, sta il potere legislativo; ed accolse le istanze del signor De Falco, emanando la seguente deliberazione:

– 52 –

«Vista l’istanza del pubblico ministero concepita ne’ seguenti termini, ecc

La Corte di Cassazione, deliberando in Camera di Consiglio sul rapporto del consigliere Nicolini, deputato dal presidente; veduti gli articoli 753 e 760 del Codice di procedura penale vigente;

«Accogliendo la domanda del pubblico ministero, dichiara che il processo pei fatti, di cui si tratta, non possa per motivi di sicurezza pubblica aver luogo presso alcuna delle Corti delle provincie napoletane, ed invita la Corte di Cassazione di Milano a designare all’uopo una delle Corti site nel territorio di sua giurisdizione.

«l’atto, ecc. »

Sono questi documenti preziosissimi, che noi abbiamo voluto raccogliere perché si conosca quale legalità regni in Italia, e come sia veridico il ministero.

PERDONO AI GARIBALDINI E PROCESSO CONTRO I MINISTRI

(Pubblicalo il 3 ottobre 1862)

Domenica prossima, e forse anche più presto verrà pubblicato il decreto d’amnistia, che assolve pienamente tutti i Garibaldini, e li rimette in libertà. Le ragioni di quest’amnistia sono le seguenti:

1° Il consiglio del principe Napoleone, il quale venuto in Torino perle feste del matrimonio, persuase Rattazzi che, pel suo migliore, ottenesse l’amnistia ai Garibaldini.

2° La difficoltà di trovare un tribunale che voglia processare i ribelli, e il pericolo di vedere la Corte di Cassazione di Milano rispondere a quella di Napoli con una dichiarazione d’incompetenza.

3° Il bisogno di far cessare ogni memoria di Aspromonte, di riamicarsi coi Garibaldini, e provvedere insieme alle sorti d’Italia, gridando dove occorra, e gridandolo fortemente: O Roma o morte, O morte o Roma.

Ma se l’amnistia troncherà ogni processo contro i Garibaldini, avrà però la virtù d’iniziarne uno contro i ministri. Il ministero che perdona, dee tosto rispondere alle seguenti accuse:

1° Perché ha permesso che la spedizione di Garibaldi si combinasse, e partisse, e si allargasse (ino al punto di rendere necessario un esercito per arrestarla? Il ministero fu cieco, fu debole, fu connivente? Renda conto della sua condotta. Mostri ch’egli non andò mai d’accordo coi Garibaldini, che fe’ tutto il possibile per impedire il male ne’ suoi principii, che non è colpa sua se si sparse sangue e si sciupò tanto danaro.

2° Perché ha arrestato i deputati Riordini, Fabbrizi e Calvino? Perché il lasciò in arresto per tanto tempo? Favorivano essi la ribellione di Garibaldi? Andavano contro il Re, acuì avevano giurato fedeltà? Vennero colti in flagrante delitto! Qual è questo delitto?

– 53 –

Giustifichi il ministero la sua condotta. Mostri che non ha violato Io Statuto, né offeso i privilegi dei rappresentanti del popolo.

Ognuno capisce da sé che i ministri possono bensì perdonare a Garibaldi ed a’ suoi, ma non possono perdonare a loro medesimi. Sa i documenti del processo non si mettono fuori giuridicamente, debbono almeno venire in luce sulla Gazzetta Ufficiale. I ministri se hanno un po’ di sangue nelle vene, debbono provare che stava in loro potere far condannare i Garibaldini, ma che generosamente ottennero loro il perdono. Debbono provare che quelli erano i rei, ma essi sono innocenti. Il ministero deve sostenere un processo, non solo in faccia all’Italia, ma anche in faccia all’Europa.

Pochi giorni fa il marchese Giorgio Pallavicino Trivulzio, grande amico di Garibaldi e favorevolissimo a tutte le sue idee, pubblicava una lettera per giustificare il suo contegno come prefetto di Palermo. E la più bella ragione che il Pallavicino addusse in sua difesa fu questa, che Rattazzi conosceva il suo pensare, e lo assunse tuttavia alla carica di prefetto. Che se il Ministero avesse potuto dimenticare le opinioni del Pallavicino, o illudersi intorno a queste, il prefetto di Palermo avrebbe dovuto toglierlo d’inganno co’ suoi dispacci.

Difatto, il 24 di giugno, Pallavicino scriveva una. lunga lettera, e fra le altre cose diceva: «Rattazzi mio, parliamoci chiaro. Voi ed i colleghi vostri siete pentiti di avermi nominato prefetto di Palermo. Ma voi tutti conoscevate i e principii incrollabili, dai quali mi sarei guidato, accettando l’amministrazione di questa provincia. Dunque l’errore fu vostro, – tutto vostro. Perché mandare in Sicilia un vecchio rivoluzionario, un amico di Garibaldi! Del resto, tranquillatevi, signori ministri: se commetteste un errore, potete facilmente rimediarvi. Richiamatemi, richiamatemi, vi ripeto, dacché stimerei atto di tristo cittadino il dimettermi nelle presenti congiunture».

E prima ancora del 24, vale a dire, fino dal 15 di giugno, lo stesso prefetto avea scritto al commendatore Rattazzi: «È in balia del governo l’avere qui nel partito d’azione un appoggio od un ostacolo forse insuperabile. In quel giorno che il governo rompesse con Garibaldi, l’alleato diventerebbe nemico, ed io, impotente a reggere la provincia che mi avete affidata, vi trasmetterei le mie dimissioni».

Ora notate bene le date: Rattazzi era stato avvertito fin daH5 e dal 24 di giugno che Pallavicino stava con Garibaldi e col partito d’astone. E perché lo lasciò stare prefetto a Palermo fino al 25 di luglio, giorno in cui si accettarono le sue dimissioni? In quel tempo Rattazzi non solo non volea opporsi ai Garibaldini, ma li secondava. Quando poi giunsero gli ordini assoluti di Parigi, allora prese quelle determinazioni che lo portarono fino alla grande impresa di Aspromonte!

Comunque sia, non è possibile tener nascosta la storia del luglio e dell’agosto del 1862. Essa vuoi essere rivelata in qualche modo. Si accordi, se così si crede, una piena amnistia a Garibaldi ed ai Garibaldini, ma i ministri insaniscano subito contro loro stessi un severo processo, e cerchino di purgarsi, se è possibile, dalle più gravi accuse che pesano sulla loro riputazione.

– 54 –

DEGRETO PER L’AMNISTIA DI GARIRALDI

(Pubblicato il 7 ottobre 1862).

La Gazzetta ufficiale del 6 ottobre pubblica il decreto d’amnistia per Garibaldi ed i suoi complici colla relazione che lo precede. Ristampiamo questo documento, contentandoci per oggi di osservare che il Ministero adduce per ragione di accordare l’amnistia che ogni, pericolo è svanito, e che ora 1 Italia è rassicurata contro le improntitudini delle fazioni. Se così è, perché adunque si Conserva ancora lo stato d’assedio in Napoli, e perché il dittatore di Palermo ha pubblicato nuovi e più severi bandi per aggravare lo stato d’assedio in Sicilia? Inoltre il Ministero, dopo aver dotto: «L’oblio che da ogni par te s’implora per l’autore principale, si chiede con tanta maggior ragione in favore di coloro che, trascinati dal prestigio che circonda il suo nome, lo seguirono nella malaugurata intrapresa» ; esclude dall’amnistia i soldati di terra e di mare, che seguirono Garibaldi. Forseche sono più colpevoli di Garibaldi stesso? Forsechè non furono anche essi trascinati dal prestigio che circonda il suo nome?

Relazione a S. S. M. in udienza del ottobre 1862.

Sire,

Le cause per cui il vostro governo si vide finora costretto a consigliarvi di resistere ai generosi impulsi del vostro animo verso il generale Garibaldi ed i suoi complici sono cessate. L’impero delle leggi si va dovunque assodando; la fiducia nella franca, quanto prudente politica da voi iniziata, ha temperate le impazienze che spinsero questo generale per la via della ribellione, alla catastrofe d’Aspromonte, dove ha potuto accorgersi che, se combattendo in vostro nome i nemici della patria e della libertà potò compiere prodigi, non era così quando, dimenticati i suoi doveri, impugnava, qualunque ne fosso il fine, le armi contro i vostri diritti.

Da questo deplorabile esempio sorge un salutare insegnamento per noi tutti.

Ora l’Italia rassicurata contro le improntitudini delle fazioni, e memore dei servigi resi dal generale Garibaldi alla causa dell’unità nazionale, desidera ardentemente di dimenticare che vi fu un momento in cui egli si fece sordo alla voce del dovere, ai vostri ammonimenti ed alla legge. A questo voto del paese fan eco dovunque nel mondo civile quanti caldeggiano la causa della libertà ed unità dell’Italia, e nulla tanto temono per lei quanto il ritorno delle intestine discordie, che la tennero per così lungo tempo divisa e la resero sì facile preda alle straniere ambizioni.

L’oblio che da ogni parte s’implora per l’autore principale, si chiede con tanto maggior ragione in favore di coloro, che trascinati dal prestigio che circonda il suo nome, lo seguirono nella malaugurata intrapresa.

– 55 –

Non è più necessario resistere a cotesti voti. Dal loro esaudimento acquisterà vigore l’indirizzo del governo, senza che ne scapitino le condizioni dell’ordine politico che ha posto nelle vostre reali mani la facoltà di soddisfare al sentimento nazionale ed a quello del vostro cuore senza scalzare le leggi sulle quali riposa la pace pubblica.

Quando si trattava di rintuzzare la ribellione, di restituire l’impero alle leggi oltraggiate e di assodare le ragioni dell’ordine, il vostro Consiglio non esitò a proporvi i provvedimenti più energici; ogni pericolo essendo svanito, si fa di buon grado oggi l’interprete del voto generale, ed implora da Vostra Maestà un atto di clemenza che, cancellando la memoria di uno degli episodi più dolorosi del nostro risorgimento nazionale, abbia per risultato di non lasciar sussistere che il ricordo dei servigi resi alla patria ed alla Dinastia.

Soli i nemici d’Italia, cui arridevano le minaccie di guerra civile, vedranno con dolore quest’atto destinato a mantenere unite ed incolumi tutte le forze, come tutte le glorie della nazione.

Il vostro governo, avrebbe bramato che l’amnistia fosse intera, e che tutti coloro che all’occasione dell’intrapresa repressa nei campi di Aspromonte sono incorsi nelle pene comminate dalle leggi, fossero prosciolti da ogni debito verso la giustizia.

Senonchè la necessità di confortare in ogni incontro il sentimento degli alti doveri che a sicurezza di tutti i diritti e di tutte le libertà sono imposti alle milizie, non permette di comprendere nel novero degli amnistiali i soldati di terra e di mare che, in quest’occasione, o violarono le leggi che particolarmente li riguardano, o fallirono alla fedeltà dovuta al Principe.

L’onore della nostra bandiera ci vieta di ravvisare nei fatti che loro sono imputali le circostanze attenuanti, che stanno in favore di coloro che non erano stretti nei vincoli del servizio militare.

I vostri ministri non si dissimulano quanto l’eccezione, che propongono e nella quale insistono, debba costare al paterno vostro cuore.

Questo indulto, o Sire, non è senza precedenti nei nostri ordini liberi.

Il consenso tacito che il Parlamento e la pubblica opinione diedero in altri tempi a consimili alti, persuadono il Consiglio della Corona a proporvi un decreto che faccia fede all’Italia ed all’Europa della vostra magnanimità, della forza del governo e dello spirito di concordia onde sono animati i popoli che van lieti di avervi a un tempo per padre e per Re.

VITTORIO EMANUELE III

Per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia.

Visto l’ari. 8 dello Statuto;

Sulla proposta del presidente del Consiglio, ministro dell’interno ed intenzionalmente incaricato di reggere il ministero di grazia e giustizia;

Sentito il Consiglio dei ministri,

Abbiamo decretato e decretiamo quanto segue:

Art. 1. Gli autori ed i complici dei fatti e tentativi di ribellione, che ebbero luogo nello scorso mese di agosto nelle provincie meridionali, e non colpevoli di reati comuni, sono prosciolti da ogni debito incorso per questo titolo verso la giustizia.

– 56 –

Art. 2. Sono però eccettuati dal benefizio di questo indulto i militari di terra e di mare.

I nostri ministri sono incaricati ciascuno per la parte che lo concerne, della esecuzione del presente del presente decreto, che ordiniamo sia inserto nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e farlo osservare.

Dato a Torino, addì 5 ottobre 1862.

VITTORIO EMANUELE

U. Rattazzi.

GARIBALDI E LA DEA RAGIONE

(Pubblicato l’8 e 9 ottobre 1861).

I.

Soventi volte fu diretta ai rivoluzionari questa domanda:-Volete distruggere il Papa, e impossessarvi di Roma papale. E sia. Ma quando il Papa non esisterà più, e voi comanderete in Roma, che cosa darete al mondo invece del Vicario di Gesù Cristo? – E non si rispose mai categoricamente a questa interrogazione, finché, il 28 di settembre, parlò dal Varignano Giuseppe Garibaldi, in un suo indirizzo alla Nazione inglese disse chiaro e tondo che volevasi mettere in luogo del Papa La Dea Ragione! Garibaldi lodò la Francia che nel 93, m quel punto solenne «die al mondo la dea Ragione, rovesciò nella polve la tirannide, e consacrò tra le nazioni la libera fratellanza». Pianse sulla Francia d’oggidì, che «sulle rovine del tempio della Ragione si affatica a puntellare quella mostruosità nefanda, immorale, che si chiama Papato»; e si conchiuse esortando la Britannia a non perdere tempo, a sorgere presto, e «colla fronte alta additare alle nazioni la via da percorrere» .

Questa via secondo Garibaldi, è doppia, una di distruzione, l’altra di riedificazione: distruggere la mostruosità nefanda, immorale che si chiama Papato; riedificare il tempio della dea Ragione, quel tempio che la Francia diè al mondo in sul cadere del secolo passato. Il programma è chiaro e netto da ogni infingimento ed ipocrisia. E per comprenderlo in tutta la sua ampiezza non s’ha da far altro che metter mano al Moniteur di Parigi ed agli storici della rivoluzione francese, e ricercare clic cosa fosse la dea Ragione, sorta in Francia sulle rovine della tirannide. Siffatte ricerche noi ora intraprendiamo abbandonando le argomentazioni per attenersi semplicemente a’ fatti. I quali dimostreranno la bontà moralità della dea Ragione, che vuole sostituirsi «alla mostruosità nefanda e immorale, che si chiama Papato!».

– 57 –

Correva il giorno 9 di novembre dell’anno 1793 e regnava in Parigi la Convenzione, assemblea legislativa, che ottenne grandi elogi nel primo Parlamento italiano, dove il 19 di giugno del 1861 fu detta dal sig. Cordova, ministro del commercio, un’assemblea benedetta da tutto il mondo civile, che ha fondato la Nazione francese sollevato la democrazia in tutte le parti l’Europa (1). Mentre la convenzione stava deliberando, eccoti al di fuori sorgere un rumore indescrivibile di applausi, di battimani, di grida, di moltitudine che s’appressa.

È una folla innumerevole di rivoluzionari; gli uni sono vestiti bizzarramente di abiti sacerdotali, gli altri si tirano dietro e trascinano nel fango gli stendardi e le croci; e v’hanno meretrici che bevono nei calici e nelle pissidi, molti asini coperti di piviali e di pianote, e uno tra questi con una mitra episcopale attaccata agli orecchi (9).

Tra gli scellerati v’è un pseudo Vescovo, Gobel, e una mano di preti tristissimi, che dopo d’essersi separati dai loro superiori e aver dato consigli al Papa, aveano finito per mettersi in così bella compagnia! Tutti costoro entrano nell’assemblea, e Gobel sale sulla tribuna e dice: «Oggidì non dee sussistere altro culto nazionale eccetto quello della Libertà e dell’Eguaglianza; io rinunzio alle mie funzioni di ministro del culto cattolico, e i miei Vicari fanno la stessa dichiarazione. Noi deponiamo sul banco della presidenza le nostre patenti di sacerdoti. Possa quest’esempio consolidare il regno della Libertà e dell’Eguaglianza: Viva la repubblica I B A queste. parole rispondono applausi fragorosi e grida frenetiche dall’assemblea e dalle tribune; gli abbracci, gli strepiti, le acclamazioni durano per lungo tempo; e sarebbesi detto, conchiude uno storico, che l’apostasia salvava la Francia!

La Convenzione vuole che l’universo intero conosca questi fatti, e che l’ Europa venga illuminata ani progressi della Ragione. Epperò decreta, che tutte le apostasie sacerdotali, le quali provano i progressi della filosofia, verranno conservate in un registro pubblico, indirizzate a tutti gli spartimenti, spedite al Papa per guarirlo da’ suoi errori, tradotte nelle lingue straniere, e diffuse tra i diversi popoli dell’Europa (fi). Come si vede è vezzo antico dei rivoltosi trarre partito dagli scandali sacerdotali, pagare i Giuda, e assoldare gli apostati, gettandoli poi in faccia al Romano Pontefice. Né si ha da prendere scandalo per colali scelleratezze-, noi le raccontiamo come gli Evangelisti ci raccontano il mercato e il tradimento dell’lscariota.

Rinnegato il Cattolicismo, la Convenzione pose mano a cancellarne le reliquie. Pena le morte chi dirà S. Antonio, S. Dionigi, S. Germano, ecc. : ogni cittadino è obbligato a nominare i sobborghi, le chiese e le strade”di Parigi: Sobborgo Antonio, Sobborgo Dionigi, tempio Germano, tempio Lorenzo, tempio Rocco; strada Guglielmo, strada Onorato, strada Giacinto. Tra noi finora il solo Comune di Schiavi nel Napoletano mutò il nome e chiamossi Comune di Liberi (4). In Francia Saint-Denis chiamasi Franciade,

(1) Atti Ufficiali della Camera dei Deputati, N» 201, pag. 775.

(1) Histoires Pittores. de la Convention, Tom. ni, pag. 190.

(2) Decreto del 18 Brumaire, anno it. Moniteur, T. XVIII, da pag. 309 a pag. 124.

(3) Vedi Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, 25 di settembre 1862.

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Saint-Malò dicesi Port Malè, e Saint-Aignan piglia il nome di Carismont. Anzi la Sessione della Croce Rossa a Parigi «temendo che questa denominazione perpetui il veleno del fanatismo, dichiara al Consiglio del Comune che vi sostituirà quella di Sessione del Berretto Posso (1)» .

Questi erano i preliminari della dea Ragione. I rappresentanti del popolo ne preparavano la nascita coi decreti e coi discorsi. Jacob Dupont avea detto: «Credete voi, cittadini legislatori, di fondare e consolidare la repubblica con altari che non sieno quelli della patria? La Natura e la Ragione, ecco i Dei dell’uomo, ecco i miei Dei (2). E la Vicomterie: «La morale non fu mai in quest’ammasso gotico e barbaro di distinzioni e di sofismi dei Tommasi, degli Agostini e dei Gerolami. Questi ciarlatani (sic) già così riveriti hanno indegnamente confuso tutte le nozioni del giusto e dell’ingiusto. Questi reverendi pazzi (sic) hanno riempiuto per mille cinquecento anni l’Europa della loro demenza… Io caccio dalla mia presenza questi fantasmi bizzarri e crudeli, e metto in loro luogo le leggi primitive; la Ragione, l’Umanità, la Natura, ecco le divinità che io adoro (3)».

E la dea Ragione sorse la domenica del 10 di novembre del 1793. Di buon mattino il tamburo in tutte le strade di Parigi chiamava il popolo alla festa della Nuova Divinità che doveva celebrarsi nella chiesa di Nostra Signora, e, giunta l’ora prestabilita, il festivo convoglio partiva dal palazzo di città. Vedeasi la dea della Ragione, che era la signora Maillard, ballerina dell’Opera, assisa su d’un seggiolone dorato, fregiato di ghirlande di quercia e portato da quattro sansculottes vestiti di rosso. Avea un berretto rosso sulla testa, i capelli sparsi sulle spalle, e una bianca tonaca mezzo ricoperta da un manto di color celeste. Impugnava colla destra una picca, colla sinistra un ramo di quercia, e, orrendo a dirsi! calpestava coi piedi un crocifisso (4). Circondavanla un gruppo di giovani cittadine vestite di bianco, cinte di nastri tricolori e coronate di fiori. Seguivano i principali attori della festa, e i deputati d’ogni sezione coperti di rosso berretto. Ed eccoli entrare tutti nella chiesa di Nostra Signora già prima spogliata d’ogni statua e d’ogni simbolo cristiano.

Nell’interno del Santuario, presso al coro, era stata elevata una montagna, e sopra un tempio. Sulla facciata di questo leggevasi A La Philosophie; e vedevasi sul davanti la statua della filosofia circondata dai busti degli antichi sapienti, che più contribuirono colle loro opere al trionfo della Ragione. Sul versante della montagna stava un altare circolare riservato alla dea. In mezzo una torcia accesa che chiamavasi la face della verità. A diritta e sinistra della montagna pigliano posto le autorità costituite; la musica suona un inno repubblicano; giovani vestite di bianco scendono dalla montagna con una fiaccola in mano, s’inchinano davanti l’altare della Ragione, e poi risalgono sulla sommità della montagna medesima. Sono le ninfe della dea; e questa finalmente arriva e si asside sull’altare per ricevervi gli omaggi di quegli uomini rigenerati, che non hanno piti Papa, non hanno pili Dio, e stanno per adorare una ballerina!

(1) Moniteur, del 5 di ottobre 1793.

(2) Moniteur, del 16 dicembre 1792.

(3) Moniteur, del 20 vendemiaire, an IR.

(4) La Harpe, Du Fanatisme dans la langue rèvol. pag. 61.

– 59 –

Cominciano i fanciulli ad incensarla coi loro turiboli, e poi ciascuno degli astanti viene ad adorarla. Durante l’adorazione, si cantano inni, e si stendono le braccia verso la dea. Quindi si recitano discorsi analoghi al nuovo culto, finché la Ragione scende dalla montagna, e mostra agli adoratori il suo grazioso e benevolo aspetto.

Ma a questa festa mancava ancora la Convenzione. Fin dal mattino una deputazione dello spartimento di Parigi erasi recata all’assemblea per invitarla a congiungersi col popolo. Dufournoy, oratore della deputazione, avea detto: «La razza umana s’è finalmente rigenerata; il fanatismo e la superstizione disparvero, e la sola Ragione ha altari, così volendo l’opinione generale. Voi avete decretato che la ci-devant chiesa metropolitana di Parigi sarebbe quindi innanzi dedicata alla Ragione. Noi vi celebriamo una festa in onore di questa divinità-, il popolo vi ci attende, e la presenza della Convenzione è necessaria, affinché questa festa non sia un atto parziale, ma il risultato del voto della Nazione (1)».

E la Convenzione tenne l’invito e stava in sulle mosse, quando venne fermata da un’altra deputazione. Erano i Sanculotti del Vaugirard che venivano a deporre sull’altare della patria l’argenteria della loro chiesa. L’oratore del drappello dice al Presidente: «Da sei settimane i repubblicani che voi vedete alla vostra presenza lavorano per consolidare la libertà, e annichilare il fanatismo. Nello spartimento dell’Oise abbiamo arrestato cento preti e li abbiamo chiusi in Chantilly, dove avranno il tempo di leggere il loto Breviario. Voi vedete su di noi una parte delle spoglie del Vescovo di Senlis. A Lùzarches abbiamo preso 162 marche d’argento; a Senlis ed ai comuni vicini 320; le campane caddero dappertutto dove noi siamo passati. Conduciamo con noi dieci uomini che pagheranno colla loro testa i loro misfatti. Abbiamo trovato due bandiere coperte di gigli d’oro; vi chiediamo la licenza di abbruciarle e di ballarvi intorno la Carmagnola».

L’Assemblea accorda il chiesto permesso, e i Sanculotti si mettono a ballare tra gli applausi dei rappresentanti del popolo. Ma coteste scene fanno perdere molto tempo alla Convenzione, sicchè la lesta della dea Ragione fu terminata prima che i deputati si muovessero dalle loro sedi. Allora Thuriot propose che ciò non ostante la Convenzione si recasse al tempio per cantarvi l’inno della libertà, proposizione che venne tosto accettata. Ma quando gli onorevoli sono per partire, giunge Chaumette, il gran sacerdote della dea Ragione colla sua divinità in carne ed ossa. «Cittadini, egli dice, il popolo ha fatto testé un sacrificio alla Ragione nella ci-devant chiesa metropolitana. Ora viene ad offrirne un altro nel santuario della Legge. Prego la Convenzione di ammetterlo». La Convenzione concede il chiesto favore, e il popolo è introdotto nella sala dell’Assemblea.

Ciò che avvenisse nell’interno di quella sala, e poi di nuovo nella chiesa di Nostra Signora racconteremo in altri articoli. Poiché dopo di averci detto, per mezzo del deputato Petrucelli della Gattina, che il Dio di Pio IX non è il Dio dell’Italia, ci dichiarano che vogliono dare agli Italiani quella dea Ragione che già adorarono i Francesi, è necessario guardarci attorno, ed esaminare ben bene la strada per cui siamo incamminati.

(1) Moniteur, del 10 di novembre 1793.

– 60 –

Non è pili questione d’Italia, nò questione di Venezia, né questione di Roma: è questione di Dio!

II.

Non è più questione d’Italia, né di Venezia, né di Roma, ma questione di Dio! Così conchiudevamo l’articolo precedente, e dopo d’averlo scritto, uscendo per le vie di Torino, ci risuonò ripetutamente agli orecchi la più feroce ed infernale bestemmia che uscisse dalla bocca dell’empio. Dio falso! Ecco la nuova esclamazione che mandano tra il giuoco anche i bimbi d’Italia! Noi c’imbattemmo in due giovinastri che si stringevano la mano e tra amorevoli rimproveri venivano ripetendo: Dio falso! Ed essendocene lamentati con un amico, ci accertò che era omai bestemmia comune nella capitale del nuovo Regno d’Italia. Ora è che egli mai cotesto se non un distruggere Iddio? Dio è essenzialmente la verità, e gettandogli contro l’aggiunto di falso si offende nel modo più atroce, se ne nega l’essenza, e se fosse possibile, si annienta.

I principii esercitano una grande influenza sul linguaggio popolare, e i principii dì Ila rivoluzione sono la distruzione di Dio e la deificazione dell’uomo e delle sue passioni. In Francia, proclamato l’ateismo, fu adorata la dea Ragione; e in Italia mentre Io scapestrato grida pubblicamente Dio falso, Garibaldi propone all’Inghilterra d’adoperare i suoi buoni uffizi e la sua influenza, acciocchè la dea Ragione ripigli il suo culto. Noi abbiamo cominciato a scrivere la storia di questa Dea, e ci venne detto come il 10 di novembre del 1793 una ballerina fosse posta in Parigi sull’altare del Dio vivente, e nella chiesa della Vergine Immacolata riscuotesse le adorazioni degli uomini. Il nostro racconto di quel giorno così vergognoso per la Francia e per l’umanità, fu condotto fino al momento, in cui la dea Ragione entrava nell’Assemblea legislativa. Ora proseguiamo.

Un corteggio di giovani donne comparisce davanti i rappresentanti del popolo, vestite di bianco, cinte di nastri tricolori, coperta la testa di fiori. Giunte in faccia al Presidente si schierano in cerchio. Entrano gli altri cittadini, e sfilano ripetendo gl’inni in onore della Ragione già cantati poco prima nella chiesa di Nostra Donna. In ultimo comparisce la Dea portata da quattro uomini, e seduta su d’un seggiolone ornato di ghirlande di quercia. Scoppiano gli applausi, si gettano in aria i cappelli ed i berretti, l’entusiasmo è al colmo. Si depone la dea Ragione rimpetto al Presidente, e succede agli applausi un perfetto silenzio.

Chaumette, il gran sacerdote della Dea, prende a parlare in questa guisa: «Cittadini legislatori, il fanatismo ha dato indietro, ed abbandonò alla Ragione, alla Giustizia, alla Verità il posto che occupava. I suoi occhi loschi non poterono sostenere lo splendore dalla luce, ed egli se ne fuggì. Noi ci siamo impadroniti de’ suoi tempii, e li abbiamo rigenerati. Oggidì tutto il popolo di Parigi recossi sotto le gotiche volte, dove per sì lungo tempo risuonò la voce dell’errore, che per la prima volta echeggiarono del grido della verità. Là noi abbiamo sacrificato alla Libertà, all’Eguaglianza, alla Natura. Noi non abbiamo pili offerto i nostri sacrìfizi a vane immagini, a idoli inanimati.

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No, si è un capolavoro della natura, che abbiamo scelto per rappresentarla, e questa sacra immagine infiammò tutti i cuori (1)». E continuando tra gli applausi, Chaumette conchiudeva: Non vi ha più altro culto, altra religione infuori della religione della Ragione e del culto della Libertà. Cadete in l’accia d’un gran popolo e del suo augusto senato, cadete o veli della Ragione».

E in così dire il velo che la ballerina teneva sul suo capo cadde, e lasciò vedere le bellezze del suo volto. Allora il presidente della Camera, ch’era il cittadino Lalui, rispose a Chaumette e disse: «L’Assemblea vede colla più viva soddisfazione il trionfo che la Ragiono oggidì consegue sulla superstizione e sul fanatismo. Essa stava per recarsi in massa insieme col popolo nel tempio che voi avete consacrato a questa Dea, per celebrare con lui questa festa augusta e memoranda, ma sono i suoi lavori e il grido d’una vittoria che la ritennero (2)». Dopo le quali parole il deputato Romme domandò che la Dea fosse collocata a fianco del presidente, e Chaumette ve la condusse. Il presidente e i segretari le diedero il bacio fraterno tra le unanimi acclamazioni.

Idolatri del popolo sovrano e dell’opinione pubblica, voi che accordate alle Assemblee quell’infallibilità che negate al Papa, voi che mettete le risposte della plebe sopra le leggi della giustizia e dell’onestà, voi che menate vanto degli applausi della piazza e delle unanimità rivoluzionarie, pensate che una grande città, un gran popolo, una grande Assemblea s’infamò già con queste scene dove non si sa dire se il ridicolo vincesse l’empietà, perché furono sovranamente ed empiamente ridicole.

Terminati i baci fraterni, il deputato Thuriot venne fuori con una proposta, che cioè la Convenzione si partisse sull’istante per recarsi alla chiesa di Nostra Signora a ricominciarvi la festa della dea Ragione. Detto, fatto. Erano le quattro pomeridiane, e ben settecento deputati coperti del rosso berretto si frammischiano alla folla che precede e che segue il carro della Dea. Si traversa Parigi dalle Tuileries a Notre Dame in mezzo alle più frenetiche acclamazioni. La Dea è ricollocata sull’altare e ciascun l’adora. Mentre si compiono queste adorazioni ogni cappella della chiesa diligentemente velata con tappezzerie, diventa un postribolo, «I misteri di Gnido e di Lesbo, dice uno storico, aveano cessato quella volta di venir celebrati nel segreto della notte». Lo stesso Robespierre ne fu stomacato, e dopo il supplizio di Chaumette ebbe a dire: «Questo sciagurato meritava cento morti, non fosse per altro che per le turpitudini permesse in quel giorno (3)». Di fatto, esclama un francese, questo giorno della festa della dea Ragione, questo 10 di novembre 1793, è senza dubbio il giorno più umiliante di quattordici secoli della nostra storia! (4).

Né bastarono le feste di quel luogo o di quel giorno. La signora Momoro fu scelta dal club dei Giacobini e dei Cordiglieri per la chiesa di Saint-André-desArts, e vi rappresentò le parti di Dea, come la ballerina Maillard nella chiesa di Nòtre Dame, In mezzo a un popolo delirante la dea Momoro apparve in abito interamente diafano, portata su di un palanchino.

(1) Moniteur, del 13 di novembre 1793.

(2) Procés verleaux de la Convention, Torà. xxv.

(3) Vedi Hist. Pili, de la Convention, Toro. III, pag. 96; Journal de Pari, Tom. III, pag. 1266; Journal des Révol. de Paris, N° 215.

(4) Gaume, La Révolution Francaise, Tom. n, pag. 31. Parigi, 1856.

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Ducento giovani e vezzose donzelle vestite di bianco, spudoratamente scolacciate, e coronate di quercia, sfilarono davanti a lei. La festa si prolungò per tutta la notte, ed ebbe termine con un banchetto che non si può descrivere (1). Il culto della carne avea preso il luogo del culto di Dio. Ed era una conseguenza naturale della rivoluzione. «La rivoluzione, scrisse Michelet (e fu ben lungi dal dolersene), tornando alla natura ed ai felici e ingenui presentimenti dell’antichità, non esitò a confidare le funzioni più sante a quella che, come gioia suprema del cuore, è essa stessa un altare vivente (2)». E nelle lettere che Garibaldi già scrisse alle donne italiane, e a quelle principalmente di Milano, lasciò prevedere che egli avrebbe saputo trovare molte dee della Ragione.

I fondatori del nuovo culto ordinarono che la festa della dea Ragione fosse celebrata in tutta la Francia, ed anzi composero un eucologio intitolato: Offizio delle decadi, ossia discorsi, inni e preghiere in uso nei Tempii della Ragione, composti dai cittadini Chenier, Dusausoir e Dulaurant. Qui leggesi il Poter, il Credo, il Decalogo repubblicano, che lo nostre scimie rivoluzionarie hanno raffazonato secondo lo stile italianissimo. Qui trovasi un’infame parodia della Santa Messa, coll’introito, coll’epistola, coll’evangelio e coll’offertorio (3). Ed inoltre fu stampato par ordre de la Convention un corso di discorsi per le feste della Ragione, dove è detto della Religione di Cristo: « Cacciamo in bando per sempre questa setta liberticida e i suoi pericolosi partigiani (4)».

II qual grido viene oggidì ripetuto da Garibaldi, e il Diritto dell’8 di ottobre stampa le parole che l’apostolo della dea Ragione, il 4 ottobre scrisse ai buoni Soresini contro i despoti ed i preti. Nel giorno del perdono Garibaldi non perdonava ai preti, e quantunque il nostro Codice penale punisca chi aizza una classe di cittadini contro d’un’altra, nondimeno egli potea, come per [‘innanzi, impunemente violare la legge, e mettere al bando della società i sacerdoti di Gesù Cristo.

Ma Garibaldi ed i suoi dovrebbero riflettere che i trionfi dell’empio sono momentanei, e la Francia che per un giorno prostrasi davanti una ballerina, poi sente la sua dignità, ricorda le sue tradizioni, osserva i suoi obblighi, levasi in difesa del Romano Pontefice, e arresta i briachi della rivoluzione, che col nome d’indipendenza in bocca si sottomettono alla doppia tirannia del comando e dell’error forestiero.

(1) Vedi Lairtullier, Femmes Cèlebra, Tom. d, pagine 228, 238.

(2) Michele! femmes de la Remi. pag. 63.

(3) L’introito incomincia cosi: – Descends, 6 Liberto, fille de la Nature. – Le peuple a rcconquis son pouvoir immortel; – Sur les pompeux débris de l’antique imposture, – Ses mains relèvent ton autcl. – Si noti inoltre che quei repubblicani obbligavano all’osservanza delle loro feste. Nei Commandements Réputbblicains leggesi: Ta boutique tu fermeras – Cliaque decade strictement. –

(4) Discours décadaires pour toutes les fétes repubblicaines, par le citoycn Pouttier, députe a la Convention Nationale. – Questi discorsi trovansi annunziati nel Moniteur, del 16 di ottobre 1791.

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RATTAZZI E LA SECONDA NOVARA

(Pubblicato il 18 ottobre 1862).

Quando Urbano Rattazzi fu assunto al ministero, tutti dissero concordemente che il suo nome era di malaugurio, ed una seconda Novara non poteva fallire. Oggidì la rivoluzione considera la caduta di Thouvenel e la nomina di Drouyn de Lhuys come una seconda catastrofe di Novara. Non decideremo se i rivoluzionari abbiano ragione o torto; ma essi sembrano proprio sull’orlo della disperazione.

E per un caso singolare Drouyn de Lhuys, che assume oggi in Francia il portafoglio degli affari esteri, lo teneva anche nel 1849 in occasione della disfalla di Novara, e vivamente ci consigliò, e ci aiutò a stringere la pace coll’Austria. Merita di venire consultato su questo proposito il libro che Leon Menabrea pubblicò nel 1849, d’ordine del ministero, col titolo: Histoire des Négociations qui ont precede le Traile de paix, conclu le aòut 1849, entre S. M. le Roi de Sardaigne et S. M. l’Empereur d’Autriche (Turin, J. Pomba et Comp. 1849).

Il conte Gallina nell’aprile del 1849 fu spedito a Parigi ed a Londra per ottenere che quelle Corti s’interponessero fra noi e l’Austria, acciocché questa ci accordasse la pace a condizioni meno onerose. Il conte Gallina giunto a Parigi ebbe una conferenza col signor Drouyn de Lhuys, il quale, per aiutare il Piemonte, gli propose di fare provvisoriamente occupare Genova dalle truppe francesi. «Noi abbiamo avuto ieri ed oggi (scriveva il conte Gallina nel suo Dispaccio del 29 di aprile 1849) una conversazione col ministro degli affari esteri. 11 gabinetto francese è per ora deciso di rifiutarci ogni soccorso attivo, eccetto l’occupazione di Genova odi un altro punto equivalente del nostro territorio».

E siccome il nostro governo non approvava questo genere di protezione, il signor Drouyn de Lhuys propose l’occupazione della Spezia per mezzo d’una squadra francese, offerta generosissima che venne pur rifiutata (Dispacci del conte Gallina, 18 e 22 maggio 1848). Come si vede, Luigi Napoleone fin dai primi giorni, che comandò in Francia, voleva mostrare al Piemonte il suo affetto col prendersene una parte. Ma non vi riusci che dieci anni dopo, quando l’Italia ebbe la fortuna d’essere governata dal Grande conte di Cavour!

Nei negoziati per istringere la pace coll’Austria il conte Gallina offeriva cinquanta milioni al governo austriaco, ma Drouyn de Lhuys pensava che il totale dell’indennità dovea sorpassare questa somma! (Dispacci del conte Gallina a Massimo d’Azeglio, sotto la data del 12, 13, 14, 13 maggio 1849).

E prima ancora, quando Vincenzo Gioberti fu mandato a Parigi come rappresentante del Piemonte, egli recossi presso Drouyn de Lhuys, e sapete che cosa gli domandò in grazia? Gli domandò che il Piemonte potesse concorrere alla ristorazione pontificia! (Dispacci di Gioberti del 18 e 23 di aprile 1849). Può darsi che Drouyn de Lhuys si ricordi di questa domanda, e la ricordi oggi o domani al gabinetto di Torino. Come? potrebbe dirgli; nel 1849 i vostri ambasciatori si sono presentati a me, ministro degli esteri in Francia, parlandomi della necessità del dominio temporale del Papa, e dell’utile che verrebbe all’Italia dalla sua ristorazione, e supplicandomi di lasciar

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il Piemonte intervenire nell’opera assunta dai Francesi, di ricondurre in Roma il generoso e benefico Pio IX; ed ora questi ambasciatori ritornano a me che ritornai allo stesso ministero, e domandano per l’opposto di consumare la spogliazione del Papa e di toglierle perfino Roma? Che logica, che buona fede, che onestà è mai questa?

Inoltre Gioberti domandò in grazia a Drouyn de Lhuys, che il Piemonte potesse intervenire in Toscana per ristabilirvi il Granduca. «Ebbene, disse Gioberti a Drouyn de Lhuys, supponiamo che il Piemonte intervenga e ristabilisca il Granduca sul trono, non sarebbe questo un vero merito che avrebbe acquistato agli occhi d’Europa? (Dispaccio dell’11 di aprile 1849). Se l’ Armonia conosce questi dispacci, e ii conserva ne’ suoi libri, vorrete dire che Drouyn de Lhuys li abbia perduti o dimenticati?

In conclusione né il nostro governo permise a Drouyn de Lhuys di fare occupare un punto qualunque del nostro territorio, né la Francia ci consentì d’intervenire in nessuna parte d’Italia. La pace fu fatta coll’Austria ed abbiamo pagato settanta milioni. E l’avemmo in conto di benefizio, giacché il 21 d’agosto 1849 il cavaliere Massimo d’Azeglio scrisse a Drouyn de Lhuys una lettera di ringraziamento per i suoi buoni uffizi.

In un discorso destinato a preparare l’ingresso di Napoleone III in Italia, il conte di Cavour diceva nel 1859, che dieci anni prima Luigi Bonaparte avrebbe vendicato Novara colle armi della Francia, se i capi degli antichi partiti non l’avessero distolto da così nobile disegno. Questa era una satira contro Drouyn de Lhuys, ed oggi lo stesso signore ò nuovamente ministro degli esteri di Napoleone III.

Anche Luigi Carlo Farini, il 20 febbraio 1859, scriveva a lord John Russell, che il presidente della repubblica francese desiderava d’aiutare il Piemonte, «e che venne paralizzato e ritenuto in questa intenzione dalla medesima fazione». Il Farini parlava della fazione, che avea suggerito la spedizione di Roma. E pensare che nell’ottobre del 1862 un membro di questa fusione è tornato ministro di Napoleone III!

Rattazzi adunque ci ha ricondotti ai giorni di Novara, più imbrogliati, più discordi, più indebitati che allora. Il Piemonte non tardò molto a rifarsi di quei rovesci, perché era pieno di vita, pieno di sangue, di quel sangue che gli avea messo nelle vene l’antico governo. Ma l’Italia oggidì trovasi in condizioni ben più deplorabili, né si sa quando avrà pace, nò qual pace; non ha più Nizza, non più Savoia, non più credito, non più amicizie; è divorata dalla rivoluzione, dal brigantaggio, dal latrocinio; ha distrutto gli antichi principii, ha conculcato i trattati, è incalzata dal pugnale, e sente già il bisogno dello stato d’assedio! Povera Italia! Gioberti scrisse di Rattazzi nel 1849 che g iuocò Carlo Alberto. Nel 1802, se vivesse, scriverebbe che Rattazzi fu g iuocato alla sua volta. Ma sono gl’Italiani che pagheranno le spese del tristissimo g iuoco!

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fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa/vol_02_01_margotti_memorie_per_la_storia_dei_nostri_tempi_1865.html#Abbiamo

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