STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI VOL. IV (VI)
GARIBALDI MARTIRE E LE DONNE MILANESI (Pubblicato il 31 ottobre 1862).
Alcune donne milanesi si sono pigliato l’assunto di canonizzare Garibaldi, dichiarandolo santo e martire. E nello stesso tempo fecero la propria offerta al loro santo martire in lire seicento. Ed affinché Garibaldi sapesse a quale nuova dignità fosse stato innalzato per decreto donnesco, gli mandarono il relativo diploma col seguente indirizzo che farebbe ridere fino i polli, se non fosse pieno di bestemmie e di sacrileghe frasi, con cui si applicano ad un uomo le parole e i concetti che appartengono a Dio ed alle cose sante. Eccolo.
«Santo martire!
«Fra le trepidazioni dell’anime nostre che vi accompagnavano nell’ardita impresa, fra l’angoscia di vedere fratelli italiani impedire ai nostri cari di raggiungervi a far liberi altri Italiani, quando la notizia della sventura clic vi colpiva ci giunse, noi tutte abbiamo esclamato: «Egli pose la sua vita ad impedire lo spargimento del sangue fraterno!» -il cuore presagiva giustamente, perché giustamente vi giudicava 1
«Nella sciagura d’Italia, dalla vostra indivisa, nella piena del dolore che ci rese finora impotenti a mandarvi una parola, ci rinfranca una sicura speranza.
– Sì, prostrate a Dio, abbiamo compreso che, siccome dalla sua croce il Cristo
redimeva l’umanità, dal suo letto di spasimi l’eroe del popolo redime l’Italia.
«Martire santo!
«L’olocausto de’ vostri patimenti, che si ripetono in ogni cuore italiano, l’aureola della sventura che corona le vostre grandi virtù, gridano all’Italia, che la ferita, fatta in voi al cuore della nazione, non può essere sanata che dalia nazione.
«Voi pensate a valervi anche del nostro amore e delle nostre cure per ricuperare prontamente la vostra troppo preziosa salute; e noi, inspirate ad eloquenza dalla commozione che il vostro santo sacrificio c’infonde nell’anima, rivolgeremo i voti di tutti i nostri amati ad aiutarvi, a seguirvi, a far sorgere con voi il dì del trionfo per l’adorata nostra Patria!».
E se non ridi, di che rider suoli?
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L’ULTIMA SETTIMANA DEL MINISTERO RATTAZZI
(Pubblicato il 15 novembre 1862).
Antonio Rosmini Serbati scrisse: Gli ultimi giorni di Felice Robol, e Victor Hugo dipinse le ultime ventiquattr’ore di un uomo condannato a morie. Meno tetro, ma egualmente curioso sarebbe un libro che riferisse i pensieri, le parole e le opere dei nostri ministri, in questa che temono debba essere l’ultima settimana della loro vita politica. Ne diremo noi qualche cosa.
Tutti gli affari dello Stato sono sospesi; oggidì non si bada né a ordine pubblico, né a buon governo, né a retta amministrazione, né alla sicurezza delle città, né all’osservanza delle leggi, né a simili altre bazzecole. Un gran pensiero domina i ministri, e tutta ne assorbe la mente ed il cuore. Che cosa diranno i deputati? Saranno pronti a concederci uno degli ordinari voti di fiducia? Come l’are ad ottenerlo per vivere più lungamente?
In due modi si ottengono i voti di fiducia, recitando discorsi, e procacciandosi amici, ed a ciò sono dedicate tutte le fatiche ministeriali. Si cercano pretesti, si mettono insieme documenti, si preparano storielle, si combinano colpi di scena, grandi sorprese, solenni rivelazioni per convincere i Deputati ed entusiasmare le gallerie. Tutti i precetti dell’eloquenza parlamentare, sono riletti e meditati dai nostri ministri. Oltre il Blair che hanno già studiato nelle scuole, si mettono in corpo la tattica del Bentham e i pamphlets politiques del Cormenin, e scrivono, e cancellano, e recitano, e provano, e si beccano il cervello giorno e notte per conservare il portafoglio.
Isacco Artom, segretario che fu del conte Camillo di Cavour, raccontavaci, mesi la, come quest’uomo di Stato provasse i suoi discorsi alla sua presenza prima di recitarli nelle Camere, e li modificasse a seconda degli effetti buoni o rei che producevano sull’animo del segretario. E prima del conte di Cavour, Molière leggeva le sue commedie ad una vecchia, e ne pesava tutti quanti i movimenti del corpo per conoscere la forza delle sue parole e la bontà de’ suoi frizzi e delle sue arguzie.
Ed è facile che Urbano Rattazzi e Giacomo Durando seguano gl’esempi del del loro predecessore, e in questi giorni di pioggia presso al canton del fuoco l’uno si provi a difendere l’impresa d’Aspromonte e l’altro a giustificare la sua Nota circolare. Non sappiamo però chi sra il fortunatissimo Isacco destinato ad udire le primizie dei discorsi ministeriali. Sono certe particolarità che non si raccontano se non dopo la moric dei ministri.
Tuttavia i discorsi sono ben poca cosa pel trionfo del ministero; giacché non esercitano alcuna influenza sul voto dei deputati. Prima che il ministro abbia recitato la sua apologia, il deputato fermò in suo cuore di sostenerlo, o di atterrarlo; e se n’ha prestabilito la condanna, il ministro non vorrà salvo dalla più splendida orazione; come, viceversa, sarà approvato quando pure sdoganasse nella Camera le più marchiane castronerie, qualora il deputato siasi fisso in mente di parteggiare pel ministero.
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Di che opera principale del signor Rattazzi in quest’ultima settimana, si è di guadagnarsi il maggior numero di voti possibile, per ottenere una dichiarazione di fiducia che gli dia la vittoria, e lo conservi al suo posto. 1 voti si ottengono per via di mezzi che si possono dire, e per via di mezzi che si debbono tacere. Taceremo degli ultimi. I primi riduconsi a tre: Il giornalismo, le adunanze, i segreti ministeriali.
Il giornalismo. In questi ultimi giorni i ministri avvertono le loro lancie spezzate che è tempo di mostrare il proprio valore; epperò vedete i giornali ministeriali uscire in panegirici sperticati, in bugie sfondolate, in invenzioni ridicole, in minacce ed in promesse egualmente assurde. Gli uni dicono che il ministero Rattazzi è il solo possibile, gli altri profetizzano che senza di lui l’Italia andrebbe in conquasso; chi ricorda sognati servigi resi alla patria dai ministri, chi mostra i pericoli, a cui siamo sfuggiti per la loro prudenza; e questi vi segnano la reazione che fa capolino, il Subalpino che ride, e l’Armonia che si prepara; e quelli vi additano Mazzini che arriva, Napoleone che parte e ci abbandona, insomma il finimondo. E tra i deputati, non mancano le oche che si lasciano menar a bere.
Le adunanze. Vi sono membri della Camera elettiva che hanno interesse grandissimo alla durata del presente ministero, e costoro raccolgono qua e colà deputati d’ogni maniera e d’ogni colore, espilata qualche bottiglia, tanto per umettare le fauci, tolgono ad istruirli e persuaderli che Rattazzi ha fatto tutto ciò che doveva fare, e che, se essi fossero stati al suo posto, si sarebbero governati egualmente; che non si può dare della testa nel muro, ma bisogna pigliar gli uomini come sono; che guai se il portafoglio non fosse stato nelle mani di ministri così prudenti, savi e sperimentati come sono i nostri; che corremmo gravissimi pericoli; e che in fin dei conti si è omai toccato con mano quanto sieno dannosi i cambiamenti ministeriali, e come caduto un ministero ne venga sempre un peggiore. E i congregati ascoltano, approvano, aderiscono e promettono il proprio voto.
I segreti ministeriali. Finalmente entrano in iscena gli stessi ministri, e con piglio misterioso stringono la mano a questo e a quel deputato, e lasciano andare qualche parola arcana. Poi dandosi l’aria di ammetterli nella loro confidenza dicono così: le nostre cose vanno a meraviglia. Napoleone III ci vuoi servire appunto perché finge d’esserci nemico. Tre anni d’esperienza v’avrebbero dovuto scaltrire e farvi conoscere dove il diavolo tiene la coda. Non badate aHe Note che si pubblicano, né alle notizie che si spacciano. Noi, noi soli sappiamo ciò che bolle in pentola; ma se tradissimo il segreto tutto andrebbe perduto. Che sarebbe stato di Camillo Cavour e di noi se vi avesse spiattellato gli accordi di Plombières? Che avveniva di Cialdini e di Farini se rivelavano il colloquio di Chambéry? Anche Rattazzi ha avuto un colloquio col Bonaparte prima d’entrare al ministero; anch’egli ha in pectore un altro trattato di Plombières. Per carità non ci obbligate a dir di vantaggio; fidatevi di noi, ed approvate di nostra politica, di cui conoscerete più tardi le conseguenze. – E non mancano i deputati che si lasciano accalappiare da queste moine, e hi danno a credere che Napoleone III voglia pel loro conto corbellare mezzo mondo, e giuocarsi definitivamente il trono e la riputazione.
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Di questa guisa altri deputati si guadagnano col giornalismo, altri colle radunanze preparatorie, altri con le confidenze ministeriali, altri co’ mezzi che si debbono lacere, e così il ministero pensa di poter sopravvivere alla imminente tempesta. E staremo a vedere se si apponga, o se s’inganni, che quanto a noi osserviamo indifferenti queste lotte parlamentari. Poco ci preme un cambiamento di persone: vogliamo mutati i principii, le dottrine e le opere.
LE INTERPELLANZE BON-COMPAGNI
(Pubblicato il 20 novembre 1862).
Le Camere si sono riaperte il 18; e già il 19 abbiamo nel Senato del Regno le interpellanze di Siotto-Pintor sulla politica generale, e il 20 le stesse interpellanze mosse dal signor Bon-Compagni nella Camera dei Deputati. S’incomincia bene, non è vero?
Parleremo più tardi delle interpellanze Siotto-Pintor. Quelle del Bon-Compagni ci stanno sott’occhio prima ancora che sieno fatte. Esse leggonsi in un libretto intitolato: II Ministero Rattazzi ed il Parlamento del cav. Bon-Compagni, Milano, presso Gaetano Brigola, 1862. Ne daremo un saggio ai nostri lettori. Il Bon-Compagni abbraccia nelle sue interpellanze diciotto questioni.
1° L’origine del Ministero, Bon-Compagni afferma che Garibaldi protesse a nativitate il ministero Rattazzi, e cita il C. d’Hausonville, il quale nella Revue des Deux Mondes, 15 settembre 1862, pag. 429, scrisse «che pochi giorni innanzi che fosse formata la presente amministrazione, un messaggiere era stato inviato a Caprera per interrogare il generale Garibaldi, se volesse dare il suo appoggio ai nuovi ministri». Dunque voi signor Rattazzi, nato da Garibaldi, rompeste una gamba a vostro padre? Prima interpellanza Bon-Compagni.
2° I fatti di Sarnico. Bon-Compagni scrive nel suo libretto a pag. 24: «11 ministero fu conscio di una spedizione marittima, che si preparava da Garibaldi. Non volle parteciparvi, ma dichiarò che non poteva impedirla. Mentre il presidente del Consiglio era a Napoli, il generale Garibaldi doveva ricevere una somma. Questi si era obbligato ad agire, secondo la direzione del governo. La spedizione di Sarnico, qualunque si fosse il suo carattere, ebbe occasione dalla spedizione marittima divisata dal generale Garibaldi». Dunque voi, signor Rattazzi, prima promovesse la spedizione di Sarnico, e poi la combatteste? Seconda interpellanza Bon-Compagni.
3° Il processo pei falli di Sarnico. Bon-Compagni segue a dire che nel suo libretto, pag. 22: «Dopo i fatti di Sarnico il ministro per gli aflari esteri scriveva agli inviati del Re: «II procedimento giudiziario svelerà chi abbia spinti giovani avventati a un tentativo temerario, quale fosse il fine ultimo, a cui si mirasse, se obbedissero, ad un cieco impulso di patriottismo, o se servissero agli occulti disegni di una fazione ostinata, disdetta dall’opinione pubblica, e isolata dall’azione feconda, dall’iniziativa potente del principio monarchico e costituzionale». Quale fu l’esito di quel procedimento?
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Da ragguagli autorevoli seppi che, appena raccolte le prime informazioni, si indettava il ministero pubblico, affinché il processo fosse troncato». Dunque il processo pei fatti di Sarnico fu una commedia? Terza interpellanza Bon-Compagni.
4° La legge sugli arruolamenti e le società politiche. Bon-Compagni continua a pag. 23: «Il ministero proponeva alla Camera dei Deputati una nuova legge contro gli assodamenti d’uomini, e contro le associazioni politiche che diffondessero principii contrarii allo Statuto Ma non bastava avere proposta questa grave materia alla Camera, occorreva instare che essa ne deliberasse. Proponendo la questione, e facendo poi come se non si curasse la risposta, si teneva in poco conto l’autorità del Parlamento». Dunque signor Rattazzi, voi vi burlaste dei deputali e dei senatori? Quarta interpellanza Bon-Compagni.
5° Scioglimento della Società Emancipatrice. Il ministero, scrive il Bon-Compagni a pag. 24 «scioglieva la Società Emancipatrice. Provvedimento savio e necessario, ma a cui avrebbe dovuto precedere una deliberazione del Parlamento. Non curando di ottenerla, i ministri mostravano come nelle più gravi emergenze facessero assegnamento sul potere del governo, anzi che sul concorso di quella grande autorità, a cui la loro deve sempre appoggiarsi». Dunque voi, signor Battezzi, non rispettatelo Statuto? Quinta interpellanza Bon-Compagni.
6° Pallavicino mandato a Palermo. Il Bon-Compagni a pag. 24 domanda: «In qual guisa il governo usò l’autorità del potere esecutivo per mantenere le prerogative costituzionali del Re e del Parlamento? Al governo di alcune provincie dello Stato preponeva degli uomini noti per la loro devozione al generale Garibaldi. Era uno fra questi il marchese Giorgio Pallavicino destinato prefetto nella provincia importantissima di Palermo. Pubblicò egli un opuscolo, il quale accennando come procedesse colà la pubblica amministrazione, giova assai a conoscere il modo in cui si provvedeva al governo della cosa pubblica. Il carattere di quell’onoratissimo gentiluomo, ed il non essersi opposta alcuna negativa alle sue asseverazioni conciliano piena fede alle sue parole. Accennando alla sua nomina, egli spiega quale significazione essa importasse». « Voi tutti conoscevate i principii incrollabili, dai quali mi sarei guidato, accettando l’amministrazione di questa provincia Perché mandare in Sicilia un vecchio rivoluzionario, un amico di Garibaldi?» La sesta interpellanza Bon-Compagni sono queste stesse parole del Pallavicino.
7° Le contraddizioni in Sicilia. «In Palermo, citiamo il libretto a pag. 25, Garibaldi pronunciava un discorso, in cui l’Imperatore de’ Francesi era ingiuriato. Il prefetto stava a fianco del generale, e cinquantamila persone applaudivano freneticamente. Il governo faceva sequestrare i giornali che riferivano il discorso. In che si palesava il pensiero vero del governo? Nell’autorità attribuita al prefetto che con la sua presenza cresceva importanza alle parole di Garibaldi, o nel sequestro?» Settima interpellanza Bon-Compagni.
8° Lo stato d’assedio in Napoli e Sicilia. « La Costituzione, parla il libretto a pag. 29, promulgata da Luigi Napoleone dopo il colpo di Stato, prescrive (art. 12) che il Presidente della Repubblica, oggi Imperatore, dichiara lo stato d’assedio, ma ne riferisce tosto al Senato.
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Nel regno d’Italia lo Statuto non assicurerà ai popoli nemmeno la libertà del 2 Dicembre?» Ottava interpellanza Bon-Compagni.
9, 10, 11. Tre nuove interpellanze in una sola. «Gli effetti, dice il libretto, pag. 28, dello stato d’assedio corrisposero alle speranze di coloro che ve lo mantennero, e di coloro obese ne rallegrarono? L’imperversare del brigantaggio nelle provincie napoletane, la stampa clandestina, e la società dei pugnalatori in Sicilia, fanno pur troppo dubitare che la cosa sia così». Dunque perché il brigantaggio imperversa a Napoli? Nona interpellanza Bon-Compagni. Perché i pugnalatori regnano a Palermo? Decima interpellanza Bon-Compagni? Perché in Palermo ed in Napoli potè sussistere la stampa clandestina? Undecima interpellanza Bon-Compagni.
12. Aspromonte. L’amicizia con Garibaldi finì a schioppettate», esclama Bon-Compagni a pag. 38; e per duodecima interpellanza forse domanderà se non finiranno egualmente certe altre amicizie grandi o piccole?
13. La prigionia di Garibaldi. « Il generale Garibaldi, dice il libretto, pag. 13, 14, arrestato doveva nelle ventiquattr’ore essere interrogato. Se fosse stato fatto, ritirerei questa parte della mia osservazione. Non lo credo, perché se ne sarebbe parlato. Se non fu fatto, si violarono l’art. 223 del Codice di procedura criminale, e l’art. 26 dello statuto, il quale prescrive che niuno possa essere arrestato se non nelle forme che la legge prescrivo. Perché si violarono queste forme? Decimaterza interpellanza Bon-Compagni.
14. L’arresto di tre altri deputati, e Ci fu un altro caso, continua il libretto, pag. 14, in cui il privilegio dei deputati fu offeso in modo anche più grave, ed è quello degli onorevoli Mordini, Fabrizi e Calvino, che diede luogo ai richiami di molti loro colleghi, anche tra i più dissenzienti dalle opinioni che essi professano. Fu un delitto flagrante quello che diede luogo all’arresto?» Decimaquarta interpellanza Bon-Compagni.
15. L’Amnistia. « Venuta troppo tardi l’amnistia, osserva il libretto a pagina 11, 12, fu indizio d’irresolutezza, più che di forza e di magnanimità. Il ministero cercava quasi col lumicino di Diogene un tribunale innanzi cui tradurre Garibaldi, e non lo trovava. Ora propendeva pel consiglio di guerra, ma sorgevano dubbi, e fondati sulla competenza. Ora preferiva il giudizio del Senato, poi indietreggiava innanzi alla grande solennità di un processo, che avrebbe empito l’Italia della fama di Garibaldi. Poi si volevano i tribunali ordinarii, s’interrogava la Corte di Cassazione di Napoli in modo meno consentaneo alla sua istituzione, poi quella di Milano, e non rispondeva. Dopo tante perplessità l’amnistia comparve». Perché così tardi? Perché a questo modo? Perché dopo tali e tanti fiaschi? Decimaquinta interpellanza Bon-Compagni.
16. Napoleone III e Drougn de Lhuys. «Le speranze, avverte il libretto pag. 38, fondate nell’amicizia intima coll’Imperatore ci condussero a veder entrare nei consigli suoi il politico, che nel 1849 fu più caldo propugnatore dell’occupazione di Roma». Perché questo? Decimasesta interpellanza Bon-Compagni.
17. L’Inghilterra e noi. « I propositi del ministero, dice ancora il ‘libretto a pag. 39, in ordine alta politica d’Oriente mirarono probabilmente anch’essi a propiziarci la Francia, e renderci più agevole la via di Roma. Ciò che ne traspirò condusse ad un effetto non buono, cioè ad alienarci l’Inghilterra.
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È questo ciò che risulta da informazioni piuttosto autorevoli». Dunque che cosa faremo noi in uggia anche all’Inghilterra? Decimasettima interpellanza Bon-Compagni. La decimaottavo interpellanza è più che una interpellanza, una solenne confessione. Essa trovasi a pag. 64 e chiude il libretto. «La politica dei presenti ministri, che secondo l’intenzione loro doveva guidarci a Roma (lo riconosco di buon grado), ce ne allontanò più che mai». Così finisce Bon-Compagni, e così termineremo anche noi. Come i salmi finiscono in gloria, così tutte le interpellanze si chiudono con questo ritornello tanto glorioso per Pio IX: A Roma non si va!
SUICÌDIO DEL MINISTERO RATTAZZI
Pubblicato il 2 dicembre, i§62).
Urbano Rattazzi e i suoi colleghi non vollero aspettare d’essere uccisi da un voto della Camera dei Deputati, e dopo aver parlato e straparlato, dopo aver tentato ogni mezzo affine di mettere insieme un po’ di maggioranza, dopo di aver compilato e recitato le loro difese, essi stessi fecero la dovuta giustizia dei loro discorsi, delle opere loro e delle loro persone, uccidendosi da sè, e rassegnando le proprie dimissioni nelle mani del Re. Si è questo un procedere affatto nuovo in un governo costituzionale, come di nuovo genere fu la libertà accordata dal Rattazzi durante il suo governo. Se il ministero si riconosceva dalla parte del torto, perché ingaggiar la battaglia? Se avea buone ragioni in mance confidava nel senno de’ Deputati, perché fuggire nel fervore della mischia?
Vi hanno sacrifizi che onorano quando sono fatti in tempo, e mostrano che all’ambizione individuale ed al privato interesse va innanzi l’arnor della patria. Ma l’uomo che, dopo d’essersi messo volontariamente negl’imbrogli, non ha il coraggio di subirne!e conseguenze, e per cessare una vergogna si fa saltare in aria le cervella, non fu creduto mai un eroe né al tribunale di Dio, e neppur a quello del mondo. E noi portiamo opinione che s’abbia a giudicare il suicidio del ministero Rattazzi come si giudica il suicidio del banchiere che dopo d’avere pessimamente amministrato, e fallito alla sua parola, e corbellato mezzo mondo, vicino a far bancarotta, si toglie la vita.
Or chi piglierà il portafoglio abbandonato dai suicidi? Dicono che il marchese di Torrearsa fosse chiamato dalla Corona a comporre un nuovo gabinetto, ma viste le immense difficoltà, per togliersi esso pure al pericolo di un suicidio, rifiutasse l’incarico. Aggiungono che in seguito il marchese di Villamarina, che stava prefetto a Milano, e pretendeva insegnare gius canonico a quel Vicario Capitolare Mons. Caccia, fosse egli pure incaricato della composizione di un nuovo gabinetto, e siccome il Villamarina ha gran voglia di diventare ministro, è probabile che si provi per riuscir nell’assunto. Ma riesca o non riesca il gabinetto clic succederà al Rattazzi avrà una vita ancora più breve di questo.
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Le ragioni sono molte. La nostra rivoluzione è poverissima di uomini, e troppi desiderano il portafoglio, e pochissimi se lo meritano. Dall’altra parte l’anarchia è entrata nella Camera dei Deputati, e non v’ha nessun gabinetto che possa ripromettersene un sicuro, franco e leale appoggio. Da ultimo qualunque ministero venga al potere, si pretende da lui ciò che non potrà dare giammai; cioè la conquista di Roma, la pacificazione di Napoli e di Sicilia, la ristorazione delle finanze. Or bene, per non parlare delle altre, queste sono tre grandi impossibilità italiane. È impossibile trovare ministri che mettano il piede nell’eterna città; impossibile trovare governanti che sradichino dall’Italia meridionale quello che chiamasi brigantaggio; impossibile trovare economisti che paghino i nostri debiti, crescano le nostre rendite, diminuiscano le nostre spese, insomma ci salvino dalla bancarotta.
Se Cavour non fosse morto, sarebbe miseramente caduto in faccia alla questione romana, alla questione napoletana, alla questione finanziaria; Ricasoli cadde meschinamente sopraffatto da tutte tre queste questioni; cadde Rattazzi vergognosamente, e cadranno tutti coloro che verranno di poi, si chiamino Torrearsa, o Villamarina, o d’Azeglio, o come volete. Le cose sono giunte al punto che non v’ha più un uomo atto a guidar la barca in mezzo agli scogli di immense difficoltà. La buona fortuna è passata pei rivoluzionari, e toccata la sommità dell’arco, essi debbono declinare. Il moto di declinazione incominciò appunto quando (‘. umilio Cavour morì, non perché questi sia morto, come dicono i semplici, ma perché allora, cessata la facile opera della distruzione, incominciava quella difficile anzi impossibile pei rivoluzionari, l’opera della riedificazione.
L’antico ministro degli affari esteri, il generale Giacomo Durando, nel discorso che disse alla Camera dei deputati il 29 novembre, accennò la ragione, per cuj né gli antichi né i nuovi ministri poterono o potranno avere lunga vita. i 1 nostri vecchi progenitori, dicea il Durando, hanno stentato tanti secoli ad avere un territorio largo nulla pili che il nostro Piemonte; i Romani stentarono tre secoli per avere un territorio equivalente appena ad una delle nostre provincie. Ebbene, noi in tre anni abbiamo ottenuto cinquanta volte di più di quello dei nostri progenitori t (Atti Uff, N” 921, pag. 3580).
Ma d’ordinario la durata delle opere risponde al lavoro sostenuto per compierle. I fiaschi si fanno con un soffio, e si rompono con un semplice urto, ed è molto tempo che Torquato Tasso cantò:
Che a voli troppo alti e repentini
Sogliono i precipizi esser vicini.
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IL TESTAMENTO DI RATTAZZI
DAVANTI LA CAMERA DEI DEPUTATI
(Pubblicato li 4 dicembre 1862).
Urbano Rattazzi prima di strozzarsi davanti alla Camera de’ Deputati, nella tornata del 1° dicembre, volle fare il suo testamento, e dichiarando quali fossero i suoi intendimenti se non l’avessero obbligato a rinunziare al portafoglio, veniva indirettamente a dire che cosa dovessero fare i suoi successori, e lasciava loro gli ultimi avvisi di un moribondo. Raccogliamo dagli Atti Ufficiali, N» 926, pag. 3597, questi avvisi e questo testamento, che a suo tempo ci serviranno contro i morti e contro i vivi.
Il signor Rattazzi prese dapprima a scusarsi, che la Camera avesse fatto poche leggi, e mostrò che la colpa non era sua, o almeno i non potrebbe ricadere unicamente sul ministero». Imperocchè al ministero «incumbeva soltanto l’obbligo di presentare progetti di legge, e di fare istanza presso il Parlamento onde si campiacesse di esaminarli e di approvarli, o modificandoli interamente, o accettandoli com’erano presentati». E quanto al presentare progetti, la coscienza dicea al signor Rattazzi com’esso avesse fatto il suo dovere. Di che lasciava per testamento alla Camera che non si perdesse in tante parole, ma approvasse un maggior numero di leggi.
Riguardo alla parte amministrativa, diceva il signor Rattazzi, «credo che il ministero abbia compiuto l’ufficio suo». E soggiungeva: «Certo avrebbe potuto e dovuto fare di più, se le condizioni del paese fossero state tali che gli avessero lasciato più libero campo di occuparsi della parte amministrativa; ma in mezzo alle grandi commozioni politiche, quando si tratta di salvare l’ordine e di comprimere le insurrezioni, è assai difficile che il ministero possa avere il tempo e la quiete per occuparsi più particolarmente di ciò che si riferisce all’amministrazione. Ad ogni modo, o signori, noi crediamo di avere nell’amministrazione l’atto quanto era umanamente possibile. E quando un ministero ha fatto ciò che era umanamente possibile, chi potrebbe pretendere di più?
Il bisogno di salvare l’ordine e di comprimere le insurrezioni impedirono fra le altre cose al ministero Rattazzi di occuparsi delle finanze. Se esso non fosse stato costretto ad uccidersi, se ne sarebbe occupato in questo scorcio di sessione; laonde lasciava per testamento quest’incarico a’ suoi eredi. Ecco le parole del Rattazzi su questo punto della massima importanza:
«Era nella nostra intenzione di occuparsi seriamente in questo scorcio di Sessione di ciò che avea particolarmente tratto all’amministrazione delle finanze; poiché, o signori, malgrado che in tutto il corso di questa lunga discussione non si sia fatto una parola, come lo avvertiva testè il mio collega delle finanze, sopra questo argomento gravissimo, tuttavia uopo è confessare che questa è la parte più importante, verso la quale debbono essere diretti tutti i nostri sforzi, poiché non ci sarà modo, o signori, che si possa ordinare regolarmente l’amministrazione interna, non sarà fattibile che possa l’Italia raggiungerei suoi destini, se le nostre finanze non ricevono un assetto stabile e regolare.
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Era dunque, lo ripeto, pensiero principalissimo del ministero di presentarvi progetti relativi alle finanze, coi quali si potesse grandemente diminuire, se non far cessare interamente, il disavanzo che pesa sopra le finanze stesse».
Con ciò Urbano Rattazzi lasciava per testamento ai deputati ed a’ suoi successori d’occuparsi seriamente delle finanze; li flagellava assai forte, perché essi, incaricati in ispecie di sopraintendere alla buona amministrazione della pubblica pecunia, rivedendo le buccie al ministero non avessero detto una parola su quest’argomento gravissimo; li avvertiva che l’erario era la parte più importante della politica, perché senza danari a Roma non si ya, Venezia non si piglia, Napoli non si pacifica, e quasi quasi non si resta neppure a Torino; e affidava ai ministri successori l’uffizio di grandemente diminuire il disavanzo che pesa sulle finanze stesse. Oh poveri eredi! Stanno freschi!
E siccome al momento della morte le cose si veggono nella loro realtà, così Rattazzi, sebbene avesse speso un numero senza numero di milioni, e presentato alla Camera centinaia di decreti di spese nuove, e spesa maggiori, predicava sul finire della vita la diminuzione del disavanzo ch’egli avea grandemente aumentato! Ed inoltre lasciava per testamento alla Camera di non occuparsi di questioni politiche, ma di materie economiche. «Io avrei desiderato, dicea Rattazzi, che la Camera si occupasse particolarmente di questa materia, e non si trattenesse continuamente sopra le quistioni politiche, poiché, sebbene esse siano di competenza del Parlamento, tuttavia tutte queste discussioni ordinariamente non servono che ad inasprire gli animi, e sono ben lungi dal fare il vero interesse del paese. Quando gli animi sono scossi dalle discussioni politiche, egli è difficile che si possano rivolgere attentamente agl’interessi veri e reali del paese, a quegli interessi, cui più specialmente le popolazioni intendono l’animo. Il volersi occupare esclusivamente delle questioni politiche, lasciando in disparte i veri e reali interessi del paese, gl’interessi amministrativi e finanziari, fu sgraziatamente ciò che rese impopolari le assemblee della monarchia di luglio, e che fece sì che quella dinastia dovette perire» .
Quante satire, quanti epigrammi in queste poche parole! In sostanza Rattazzi ha detto ai deputati che cianciarono troppo, che contribuirono ad inasprire gli animi, e che non si occuparono del vero interesse del paese. E ribadì questo punto del vero interesse del paese dimenticato dai deputati, e conchiuse con un solenne avvertimento dato non solo all ‘assemblea, ma anche al|a dinastia. Oh meditiamo sul detto di Urbano Rattazzi che presso-a morire ricorda ciò. che rese impopolari le assemblee della monarchia di luglio, e fece perire quella dinastia!
In forma poscia di desiderii Urbano Rattazzi legata alla Camera ciò ch’essa doveva fare in avvenire: «Io avrei dunque desiderato che nello scorcio di questa Sessione la Camera si fosse particolarmente occupata di questi oggetti importantissimi; che avesse rivolto anche la sua attenzione sopra il bilancio, che avesse proposto tutti quei risparmi che le fossero sembrati convenienti: che avesse dato al governo tutte quelle direzioni e quelle norme che fossero più opportune a mettere in buon assetto le nostre finanze.
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Era pur mio desiderio che, se non nel corso di questa Sessione, almeno in quella che sarebbe prossimamente succeduta, si fosse la Camera occupata dell’ordinamento dell’amministrazione interna. Vi sono ancora alcune provincie, le quali non hanno le stesse leggi: vi è la Toscana, la quale è regolata con leggi interamente dissimili da quelle che sono in vigore nelle altre provincie italiane.
< Ma di più; la legge del 1859, quantunque ispirata, mi sembra, a principii liberali e fondata sopra il sistema del discenti-amento, tuttavia, io stesso che ne sono autore, riconosco che non può in ogni sua parte essere applicata al regno italiano, lo riconosco che parecchie sue parti devono essere radicalmente mutate, onde con esse si possa governare con vantaggio anche tutte le altre provincie italiane. Era quindi, ripeto, mia intenzione di pregare la Camera, affinché principalmente sopra questa parte volgesse la sua attenzione; e molti altri ancora erano gli argomenti, dei quali avrei desiderato che la Camera si occupasse, sia per svolgere le nostre industrie, sia per dare una buona spinta al commercio».
Ma… ma… il povero Urbano Rattazzi doveva morire, e lasciava alla Camera i suoi desiderii. I quali desiderii riuscivano ad una critica sanguinosa del governo, avvegnaché si desideri ciò che manca. E all’Italia mancano danari, manca un buon bilancio, manca una buona direzione, manca l’ordinamento dell’amministrazione interna, manca l’uniformità delle leggi, mancano buoni provvedimenti sulle industrie, manca una buona spinta al commercio, ed ha leggi, che sebbene datino dal 1859, vogliono però essere radicalmente mutate.
Dalla politica interna Urbano Rattazzi passava all’estera, e qui pure faceva il suo testamento. Il moribondo prese a dire: «Noi fummo sinceramente amici ed alleati alla Francia; lo fummo per un sentimento di gratitudine verso quella grande nazione che ha versato il suo sangue sui campi di battaglia per la nostra indipendenza, e non crediamo, o signori, che la riconoscenza sia soltanto attributo degl’individui, ma debba, pur essere un sentimento delle nazioni. Fummo sinceri alleati e amici della Francia, poiché crediamo che l’alleanza francese, fondata sulla comunanza degl’interessi di quella nazione cogli interessi d’Italia, sia quell’alleanza, la quale abbia più solide e più sicure basi. Ma, signori, mentre noi ci proponevamo di essere sinceramente amici ed alleati colla Francia, con questo non intendevamo di essere ad essa servili».
Il signor Rattazzi, dopo di essere nato ministro a Parigi, dopo di avere lustrato cento volte gli stivali a Luigi Napoleone, presso a tirar le cuoia, faceva alto d’indipendenza! E non voleva neppure chiedere Roma alla Francia: «Noi, o signori, non intendiamo di chiedere alla Francia che ci dia Roma; ciò non possiamo, né vogliamo, perché Roma non appartiene alla Francia, ma all’Italia (tirato! Benissimo! – Sensazione)» .
Dopo tante note, dopo tanti dispacci, dopo tante missioni ordinarie e straordinarie, dopo avere detto cento volte a Napoleone III: dateci Roma, fogliamo Roma, abbiamo bisogno ili Roma, Rattazzi osava conchiudere: Noi non intendiamo di chiedere alla Francia che ci dia Roma!».
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Tuttavia il moribondo confessava che molle e mollo gravi difficoltà si presentano per ottenere Roma; come molti e molto gravi ostacoli si oppongono al nostro ordinamento interno. E dopo avere toccato che noi ci troviamo in quella stessa condizione, in cui versava nel 18527 Parlamento subalpino, vale a dire, dopo il famoso colpo di Stato del Due Dicembre i 851, il signor Urbano Rattazzi tirava giù parecchi calci ai suoi avversari della destra e della sinistra che cospirarono a’ suoi danni. «Colle coalizioni, esclamava Rattazzi, colle coalizioni, signori, si pervertisce il sentimento popolare, si creano gli equivoci!».
Dopo queste parole, Urbano Rattazzi si uccideva davanti alla Camera, e lo spettacolo della sua morte vuoi essere descritto secondo la relazione ufficiale.
FUNERALI DEL MINISTRO RATTAZZI
(Pubblicato il 4 dicembre 1862).
Ci par bene di togliere dagli Atti Uff. della Camera, N» 926, pag. 3598, i funerali che i Deputati fecero al ministro Rattazzi. poiché questi si dichiarò morto, Bon-Compagni ritirò le sue interpellanze. Allora nacque la seguente conversazione.
Presidente. Le interpellanze Bon-Compagni sono ritirate. Ora io dipendo dagli ordini della Camera. Voci. Si passi all’ordine del giorno.
Presidente. La parola spetta al deputato Finzi per una mozione d’ordine.
Musolino. Chiedo di parlare per una mozione d’ordine.
Presidente. La parola per una mozione d’ordine fu chiesta molto prima di lei dal deputato Finzi, che venne ad inscriversi nel banco della presidenza.
Pinzi. Le ultime parole del presidente del Consiglio… (Rumori e voci: Le ha ritirate! La cosa è finita!).
Presidente del Consiglio. Scusi un momento…
Finzi. Stia tranquillo, ho raccolte le sue parole, e le ho raccolte in modo…
Presidente del Consiglio. Ma permetta un momento, mi lasci rettificare. Nel momento stesso che mi sfuggiva la parola sleali , dichiarai di correggermi e di dire avversari più generosi e più giusti. Dunque none il caso… Voci Sì! sì! Basta!
Finzi. Ed io non intendo per questo di essere meno giusto e men generoso, malgrado che io mi vanti d’essere stato attivo avversario del ministero. Tuttavolta è lontano dall’animo mio di gettare una pietra su chi cade, ed ora, o signori, se non ha luogo e non può aver luogo un voto di sfiducia contro il ministero dimesso, panni che possa e debba aver luogo un voto il quale comprenda il senso di una lezione… (Rumori generali}.
Boggio. Domando la parola.
Crispi. Domando la parola.
Lazzaro. Domando la parola.
Finzi… di alta moralità politica al paese; un ordine del giorno insomma che sia atto àd inspirare nel paese nuova e più vigorosa fede nelle istituzioni che possediamo, e di cui dobbiamo essere ognora gelosi custodi…
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Predominato da quest’idea, io vi propongo il seguente ordine del giorno, che spero tornerà gradito ad alcuno. (Bisbiglio). Permettetemi di leggerlo e mi tengo per abbastanza giustificato in presentarlo: «La Camera. sempre confidente nell’efficacia delle libere istituzioni consacrate dallo Statuto, e ferma a volere inviolate le prerogative della Corona e del Parlamento, passa all’ordine del giorno». [Vivi rumori}.
Presidente. Se si propongono ordini del giorno motivati prima di tutto debbo chiedere se sia appoggiato l’ordine dei giorno puro e semplice, già proposto dal deputato La Farina.
Finsi. Quest’ordine del giorno propongo come riassunto di tutto quello che si è passato in questa discussione.
Presidente. A termine del regolamento l’ordine del giorno puro e semplice, qual fu proposto dall’onorevole I^a Farina, ha la precedenza; perciò domando se è appoggiato. (È appoggiato).
Presidente. Pongo ai voti l’ordine del giorno puro e semplice. . . (Voci. No! no! (Rumori).
Salvagnoli. Le interpellanze sono state ritirate dall’onorevole Bon-Compagni, l’ordine del giorno puro e semplice proposto dall’onorevole La Farina era relativo a quelle; quindi non abbiamo più da votare nessun ordine del giorno relativo alle interpellanze. Voci. È vero! è vero! Rumori).
Presidente. Siccome v’hanno altri deputati che hanno inviate le loro proposte al banco della Presidenza, e l’onorevole La Farina non ha ritirato l’ordine del giorno puro e semplice, a me non ispetta di chiudere senz’altro la discussione.
Molti deputati a sinistra. Domando la parola.
Presidente. Se prosegue la discussione sull’incidente, la parola spetta al deputato Broglio. (Nuovi rumori).
La Farina. Ritiro l’ordine del giorno puro e semplice da me proposto. (Segni di approvazione).
Presidente. Essendo ritirato anche l’ordine del giorno puro e semplice, la seduta è levata, e i signori deputati saranno convocati mediante avviso al loro domicilio in Torino. (Applausi).
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