Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI VOL. IV

Posted by on Dic 13, 2024

STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI VOL. IV

ROMA ED ASPROMONTE

GIUSEPPE GARIBALDI E URBANO RATTAZZI

Abbiamo già descritto (vedi pag. 317 del precedente volume) le arti meschine e le ipocrite promesse del Ministero Ricasoli per andare a Roma e toglierla al S. Padre Pio IX ed alla Cattolicità. Ora ci conviene raccontare la via tenuta dal Ministero Rattazzi per raggiungere lo stesso scopo, che fu la via delle minacce. Urbano Rattazzi nell’ottobre del 1801 andossene a Parigi, e, fatte alcune riverenze al Bonaparte, gli fu facile di risalire al governo dell’Italia.

Il 9 di novembre Rattazzi era ancora sulla riva della ‘Senna dove a\V Hotel du Louvre si diluviava un pranzo imbanditogli dai giornalisti del Siede, della Presse, dell’Opinion Nationale, e il 3 di marzo del 1862 veniva nominato presidente del Ministero, e Ministro sopra gli affari esteri. L’impresa capitale di Urbano Rattazzi fu la battaglia di Aspromonte e la disfatta di Garibaldi, epperò di Garibaldi e di Rattazzi scriveremo lungamente in questo quaderno.

LA FRAMASSONERIA E GARIBALDI

Leggiamo nelle Nationalitès dell’8 di gennaio 1862: «1 delegati o rappresentanti della Framassoneria italiana, riuniti-a Torino, hanno decretato una medaglia d’oro al generale Garibaldi, ed hanno deciso che gli onori dovuti al Grand’Oriente gli siano resi in tutte le Loggie d’Italia che gli piacerà d’onorare di sua presenza.

LE LETTERE

DI SUA ECCELLENZA IL GENERALE GARIBALDI

(Pubblicato il 16 gennaio 1862)

«Valga per tutti l’esempio

luminosissimo dell’Eroe di Caprera»

(II Mediatore giornate diretto

da C. Passaglia, p. 29).

Abbiamo sul tavolo, insieme con molti scritti, articoli, epigrafi, corrispondenze, sonetti e canzoni alcune letterine di Garibaldi che levansi su e ci scongiurano in nome del Mediatore a volerle mettere tutte nel nostro giornale per mostrare l’esempio luminosissimo che secondo D. Passaglia dà in questi momenti l’ eroe di Caprera. E noi ci arrendiamo ai desiderii delle letterine, togliendole ad argomento di questo primo articolo.

La Gazzetta Ufficiale del 13 di gennaio salutava Garibaldi col titolo di Eccellenza, ce ne godè l’animo; imperocchè difensori dell’aristocrazia, e persuasi che questa debba essere un anello tra il Sovrano ed il popolo, ci rallegriamo dell’omaggio che rendono i rivoluzionavi al principio aristocratico. Siccome però onores mutant mores, così vorremmo che mutassero anche il linguaggio, e sua Eccellenza Garibaldi scrivesse lettere eccellentissime.

Intanto daremo un saggio delle lettere che scrive e dello stile che adopera. Ecco in primo luogo la lettera che ha spedito all’onorevole sig. il sig. generale d’Ingrogna, scusandosi di non poter tenere l’invito fattogli dal principe Umberto.

Caprera, 7 gennaio 1862.

Dolente di non poter intervenire alla prima adunanza della Società del Tiro Nazionale, fissata pel dì 1 1 corrente mese, il sottoscritto prega V. S. IIIma di presentare le di lui scuse a S. A. R. il Principe presidente.

G. GARIBALDI.

Questa lettera ci pare un po’ troppo laconica. Sua Eccellenza il generale Cialdini non ha potuto assistere all’inaugurazione del Tiro, ma disse nella sua lettera: Sono assai dispiacente di non potermi recar a Torino, e addusse la ragione che l’obbligava a restare in Bologna, trovandosi assente il signor generale Villamarina. Invece Garibaldi nulla. Dolente di non poter intervenire, e basta.

Per contrario nelle altre lettere. Sua Eccellenza Garibaldi, è molto più espansivo; da consigli, e saluta con molto affetto. Eccone in prova la seguente risposta al Comitato di Provvedimento di San Severino.

Caprera, 28 dicembre.

Vi ringrazio pel saluto fraterno che mi mandale. Continuate nella via del bene; e dite ai giovani che si apparecchio alla prossima ed ultima battaglia dell’onor nazionale. – Concordia ed operosità – e trionferemo dei tenebrosi e manifesti nemici. Vi saluto con molto affetto.

G. GARIBALDI.

– 5 –

Da questa lettera rileviamo che è prossima l’ultima battaglia dell’onor nazionale, e che l’Italia ha due classi di nemici, i tenebrosi ed i manifesti. Noi non siamo certamente tra i tenebrosi, perché la nostra penna dice ciò che il cuore sente. Napoleone IH faccia invece un po’ d’esame di coscienza, e veda se non potrebbe entrare nel novero dei tenebrosi I

E se non pigliamo abbaglio va all’indirizzo del Bonaparte la seguente lettera che S. E. Garibaldi rispose ai complimenti mandatigli da’ suoi compatrioti Nizzardi in occasione del capo d’anno. La lettera venne rimessa al signor Mereu Luciano, che aveva portato a Caprera i complimenti, e dice così;

Caprera, 7 gennaio 1862.

Ai Nizzardi miei compagni d’esilio in Genova.

Accetto coll’animo l’augurio vostro per la libertà della terra natale. – Cittadini del mondo, noi amiamo le sorelle nazioni – indistintamente – ma faremo la guerra, tutta la vita, al dispotismo ed all’impostura. Accogliete un amplesso d’affetto e di gratitudine dal vostro.

G. GARIBALDI.

Capite! Despotismo ed impostura, Io che equivale ai manifesti ed ai tenebrosi nemici! Che se la lettera precedente va a Parigi, questa che segue pare diretta a Roma. Essa è una risposta all’Associazione Giovanile Abruzzese, la quale avea ascritto tra’ suoi membri due nostri genti per indicare «la costanza ne’ magnanimi propositi, il valore nell’eroicamente effettuarli, personificati in Mazzini e Garibaldi».

Mazzini rispondeva sotto la data di Londra, 31 dicembre 1861, e tra le altre cose diceva alla gioventù abruzzese: Accostatevi fidenti al popolo, o giovani; e se a lui infonderete virtù di più nuove e più larghe idee, ne trarrete copia interminabile di energici e schietti sentimenti. È l’ideale che divengano uno chi pensa e chi fa. La vostra Associazione dev’essere un anello dell’avviata Associazione generale. Il primo intento da raggiungersi con questa grande comunione di animi e di volontà è lo acquisto di Roma e Venezia. Il suffragio universale e l’armamento nazionale ne sono i mezzi: l’Associazione è la via per ottenerli».

Garibaldi alcuni giorni prima aveva già risposto così:

Caprera, 23 dicembre 1861.

All’Associazione Giovanile Abruzzese – Napoli.

Grazie! per l’onorevole titolo di vostro Presidente onorario. A voi, generazione predestinata a grandi cose, son riserbate grandi incombenze. – La patria versa in circostanze assai difficili -essa uscirà però vittoriosa dalla tenzone – grazie alla risoluta inesorabile costanza dei suoi figli.

Avvoltoi, corvi assuefatti a pascersi di cadaveri posano ancora sulle vostre belle contrade – e pascolo trovano tuttora! – Disseminando le tenebre sulla terra – essi trovano proseliti. – A voi – giovani prediletti da Dio – tocca diradare le tenebre, ed edificare sulle rovine dell’ignoranza l’edificio della dignità umana. – Siate apostoli del vero! voi lo troverete nel fondo dell’anima vostra, scintilla dell’anima dell’infinito.

– 6 –

Per giungere al libero esercizio del vostro apostolato, voi dovete alla parola santa di verità, che deve con fondere gl’impostori, aggiungere l’imponenza della forza – non della forza per soggiogare – ma di quella destinala a liberare gli schiavi. –

Armatevi dunque! ma armatevi tutti per Dio! e facilissimo – vi prometto

– sarà il sentiero, elio condurrà l’Italia al seggio tra le nazioni, a lei destinato dalla Provvidenza.

Il vostro G. GARIBALDI

Si è forse in seguito a questa lettera contro gli avvoltoi e i corvi assuefatti a pascersi di cadaveri, che D. Passaglia celebrava nel primo numero del Mediatore il luminosissimo esempio dell’eroe di Caprera; come certamente il Passaglia veste da secolare per non essere creduto un corvo od un avallalo.

Anche parecchie signore di Milano ricevettero una lettera da S. E. il generalo Garibaldi. «Ad alcune signore, dice il Pungolo di Milano del 13 di gennaio, che inviarono a Garibaldi una focaccia cogli augurii per il nuovo anno, l’illustre eroe indirizzava la seguente lettera:

«Caprera, 7 gennaio 1862.

« Carissime e gentilissime Signore di Milano

«Più che del magnifico regalo, vi sono grato del ricordo che voi aveste di chi vi ama di cuore. – Sì, bellissime donne! io vi amo – ed amo la vostra Milano – con tutto l’affetto dell’anima. – Voi mi mandaste in ogni occasione dei ben valorosi compagni – ed assai più ne invierete – quando Ira poco – ricordandosi l’Italia del suo dovere, darà l’ultimo calcio alla canaglia che l’infesta ancora. Vi bacio affettuosamente la mano

« Il vostro per la vita G. GARIBALDI

Ci pare che un’Eccellenza potrebbe cercare altri termini, e, scrivendo a signore, non parlare né di calci né di canaglia. Oltre le signore milanesi molti altri scrissero pel capo d’anno a Garibaldi, ma non ottennero risposta particolare. Sul giornale di Genova, intitolato Roma e Venezia (11 gennaio 1862), fece pubblicare la lettera seguente:

Sig. Direttore del giornale, Roma e Venezia

In Genova.

Caprera, 6 gennaio 1862.

Non avendo il tempo materiale da rispondere a tutte le lettere che mi giunsero in questi giorni, mi valgo del di lei accreditato giornale per testimoniare la mia sincera gratitudine a tutti coloro che furono gentili a colmarmi di augurii per questo nuovo anno, assicurandoli, in pari tempo, che non meno fervidi sono i miei per il loro benessere e per la completa indipendenza della nostra cara Patria. Gradisca i sensi della distinta mia stima.

G. GARIRALDI.

– 7 –

Tuttavia Garibaldi dovette fare e fece un’eccezione per i calzolai di Parigi che gli regalarono un paio di stivali. Ecco le ultimo notizie di Caprera scritte dal Movimento di Genova sotto la data dell’11 di gennaio: «Furono a visitare Garibaldi ultimamente il signor Giacinto Baghino, ordinatore dei Carabinieri Genovesi mobili e il maggior Carissimi, incaricato di presentargli il dono dei calzolai parigini. Al Baghino raccomandò di curare con ogni studio la instituzione dei bravi Carabinieri e di portar loro una sua parola di affetto e di gratitudine per quanto essi fanno a futuro vantaggio della patria. Al maggior Carissimi consegnò la lettera seguente per gli operai parigini:

Caprera, 10 janvicr 1862.

« Mes bien chers amis,

«J’ai recu les belles bottes à l’ecuyère que voùs cutes la courtoisie de m’envoyer – et l’augure qu’elles soient portées pur moi – dans un jour de victoire du peuple. Je vous suis bien reconnaissant pour ce beau cadeau – et surtout pour l’heureux présage, émanation d’ames libres et généreuses. Avec affection et reconnaissance.

« Votre Devoté

G. GARIRALDI

«Aux Ouvriers Cordonniers de Paris» .

Eccovi, D. Passaglia in queste lettere l’ esempio luminosissimo dell’eroe di Caprera. Aggiungetevi ciò che già Garibaldi scrisse agli studenti dell’Università di Pa«ta: i Bisogna estirpare dall’Italia il cancro del Papato… Bisogna estirpare questi abiti neri». I). Passaglia la sa lunga, e s’ha messo sulle spalle un abito bigio. D. Carlo non vuoi essere estirpato!

Aggiungete ciò che il 30 novembre 1861 Garibaldi scriveva al suo caro Mignona: «Dite ai nostri fratelli delle provincie meridionali che dicano ai preti borbonici, murattiani e simile canaglia, che affligge quelle brave provincie, che la giustizia di Dio è vicina a colpirli, e che sola l’infame memoria rimarrà di loro sulla terra italiana».

Aggiungete ciò che Garibaldi scriveva ai popoli nel Napoletano il 16 novembre 1861: «Oggi con mio rincrescimento non verrò a voi. Sarò con voi quando fia d’uopo. Aggiungerò una parola sola. E doluto d’ogni italiano di propararsi un ferro. Il mondo sa che lo sappiamo maneggiare… e credo l’ora vicina!… Sia questo all’indirizzo di chi conculca i diritti dell’Italia colla forza e colla menzogna».

Aggiungete tutte le altre lettere, e sono innumerevoli, scritto dal Garibaldi contro il Clero, contro Roma, contro la religione del Papa, e poi giudicate questo ex-frate, questo signor D. Passaglia che viene a metterci davanti il luminosissimo esempio dell’eroe di Caprera.

– 8 –

GARIBALDI ALLE DONNE ITALIANE

(Pubblicato il 20 marzo 1864).

Togliamo dal Movimento la seguente lettera che Garibaldi scrisse 

dalla villa Spinola in Genova alle donne dal cuore d’angelo.

Alle donne italiane

In nome della patria – io vi devo una parola di gratitudine per il benfatto. – Tra i molti beneficii da voi operati – risplende lo stabilimento d’un istituto – a Torre del Greco – ove si raccoglie il figlio del popolo – si nutre, si veste – e si educa ai doveri di cittadino – Fresto altri consimili istituti saranno stabiliti da voi in Palermo – ed altrove – ove più fa stragi la miseria. Che Dio vi benedica – donne dal cuore d’angelo – e benedica le care, le buone, le gentili straniere, iniziatrici e benefattrici dell’opera santa. Voi avete ridonato all’Italia – il vecchio sublime Cristianesimo – che l’egoismo e l’impostura avevano trascinato nel fango. – Oh, sì, carissime donne – il giorno, in cui le classi agiate, – considerando il povero come fratello – ne avranno cura – lo beneficheranno, – esse avranno posto un termine a quelle terribili rivoluzioni che spaventano l’umanità a periodi indeterminati – ma certi ed inevitabili, – durando i prepotenti nella loro cieca ostinazione. – Che i generosi Comitati di signore – già esistenti – spargano le loro benefiche associazioni anche negli ultimi villaggi della Penisola – ove certo più se ne sente il bisogno. lo mi prostro riconoscente davanti alle rigeneratrici d’un popolo – benemerite dell’umanità intera.

G. Garibaldi.

LETTERE DI GARIBALDI

AI SACERDOTI ITALIANI

(Pubblicato il 22 marzo 1862).

Garibaldi dopo di avere scritto ai sovrani, alle donne, alle associazioni ed ai rivoluzionari di tutti i paesi, si è degnato d’indirizzare una lettera ai sacerdoti italiani sotto la data di Genova 12 marzo 1862. Questa lettera leggesi nel Diritto del 21 di marzo, N. 80, insieme con un’altra lettera che Garibaldi avea indirizzato da Torino ai sacerdoti italiani fin dal 5 dicembre 1801, lettera che rimase inedita, non sappiam bene per quale ragione. Ecco questi due curiosi documenti:

Ai Sacerdoti Italiani!

Incombe ai veri sacerdoti di Cristo una missione sublime. – Essi senza falsare la loro coscienza d’Italiani non possono rimanere complici di quanto si opera in Roma a detrimento della causa santa del nostro paese. – Che si alzino dunque coraggiosi sulla breccia dei diritti della umana razza.

– 9 –

– Che scendano nel fondo del loro cuore – emanazione di Dio – e lo consultino sui loro doveri – e che gettino finalmente tra le moltitudini la sacra parola della religione del Vero – Essi andranno superbi domani d’aver fatto il bene – e la patria riconoscente inciderà i loro nomi tra gli eroici figli suoi che la redensero. Torino, 5 dicembre 1861.

«G. GARIBALDI».

Ai Sacerdoti italiani!

Genova, 12 marzo 1862.

Io non parlerò di colpe. – Quando mi dirigo alle moltitudini cito loro le parole del Vangelo: « Chi non ha colpe getti la prima pietra ii. Quindi concordia anche con voi – se volete. – Ma operate il bene. – Sinora voi operaste il male. – Voi avete fatto di Roma un covile di fiere anelanti la distruzione d’Italia. – Io sono convinto pur troppo che voi non potete strappare i Cardinali dalla perdizione. – Ma se lo potete, fatelo. – Se no gridate ai quattro venti della terra «che non volete solidarietà coi malvagi – che siete Italiani – che volete imitare almeno il sacerdozio dell’Ungheria, della Polonia, della Grecia, della Cina, dei selvaggi dell’America, ove il sacerdote non rinnega la sua culla – i suoi parenti – i suoi concittadini, ma combatte alla fronte di quelli per l’indipendenza del suo paese».

«Che il sacerdote italiano tuoni dal pergamo la santa parola di redenzione patria e di reprobazione all’inferno del Vaticano. – Egli comincierà ad avere per intiero la coscienza del suo benefatto e quindi il plauso. ela gratitudine dei milioni. – Far rivivere il Cristianesimo antico che proclamava l’abnegazione, il perdono reciproco ed il sacro dogma della uguaglianza degli uomini – ecco il titolo con cui possiamo noi accogliervi fratelli –

«G. GARIBALDI».

Garibaldi incomincia dal dichiarare ai sacerdoti la loro missione. Chi è costui che sorge e dice ai sacerdoti cattolici che cosa debbono fare? Noi lo giudicheremo dalle sue lettere precedenti.

Garibaldi prima di seri vere ai sacerdoti italiani ha scritto nel marzo del 1861 a sir Culling Eardley, presidente dell’Alleanza Evangelica che aveagli offerto una Bibbia poliglotta, e gli ha detto: «La gran maggioranza del popolo italiano se non è protestante di nome, lo è di fatto Sia persuaso, o signore, che gli Italiani sono assai meno papisti che non si creda» (Vedi il Liverpool Mercury, marzo 1861). Ed ora Garibaldi vorrebbe che anche i sacerdoti italiani rinnegassero il papismo, cioè il Cattolicismo, e divenissero protestanti di nome e di fatto!

Garibaldi ha scritto, il 28 aprile 186I, alla Società operaia di Napoli: «Noi faressimo (sic) un sacrilegio, se durassimo nella religione dei preti di Roma. Essi sono i più fieri o i più terribili nemici d’Italia. Dunque fuori della nostra terra quella setta contagiosa e perversa». E perché oggidì Garibaldi commette il sacrilegio di scrivere ai preti di Roma, clic tali sono i sacerdoti italiani? Perciò s’immischia con questa setta contagiosa e perversa?

– 10 –

Garibaldi ha scritto, il 10 maggio de l 1861, al Presidente dell’Associazione Unitaria di Palermo di adottare la risoluzione seguente: «Noi non siamo della religione del Papa… Che il Papa, i Cardinali, ccc. , ccc. , cambia immediatamente bottega, e vadano il più possibile lontani dall’Italia». Ed oggidì Garibaldi, che volea i sacerdoti così lontani dall’Italia, promette d’incidere «i loro nomi fra gli eroici figli suoi che la redensero?»

Garibaldi ha scritto, il 16 luglio 18t51, alla contessa Dora d’Istria che la teocrazia papale è la più orribile delle piaghe d’Italia, resa insanabile da diciotto secoli di menzogna. Ed oggidì invita i sacerdoti italiani a far rivivere il Cristianesimo antico! Ma qual è quest’antico Cristianesimo, se i diciotto secoli precedenti furono secoli di menzogna? Forse che i sacerdoti italiani dovranno cercare l’antico Cristianesimo prima ancora della venuta di Gesù Cristo?

Garibaldi ha scritto il 1° ottobre del 1861 al primo battaglione della guardia nazionale di Napoli: «I preti complici del Papa-Re, pari a lui sono vostri nemici, e voi dovete lavare di quella sozzura le bellissime vostre contrade…

Voi dovete fare sparire dalla luce del sole, che offuscano quei cappelloni moltiformi, simbolo per l’Italia delle miserie e delle vergogne di diciotto secoli». Ed ora Garibaldi scrive ai sacerdoti italiani: concordia anche con voi? Concordia coi cappelloni, concordia colla sozzura, concordia colle vergogne?

Finalmente, per tacere di tante altre lettere, il 30 ottobre del 1861 Garibaldi ha scritto al suo Caro Mignona: «Dite ai vostri fratelli delle provincie meridionali, che dicano ai preti borbonici, murattiani e simile canaglia, che affligge quelle bravo popolazioni, che la giustizia di Dio ò vicina a colpirli, e che solo l’infame memoria rimarrà di loro sulla terra, italiana». Ed oggidì Garibaldi manda le sue lettere a questa canaglia, e ne invoca il soccorso?

E che cosa vuole Garibaldi dai sacerdoti italiani? Vuole che predichino contro) ‘inferno del Vaticano, dicendo che il Papa è il vicario di Satana, come già scrisse in un proclama il generale Pinelli! E ricorda a noi gli esempi del sacerdozio della Polonia, che combatte per l’indipendenza del suo paese. Ma nessuno osa dire ai Polacchi di combattere contro la loro religione! Quel Clero combatte lo scisma, combatte l’eresia, combatte pel Cattolicismo, combatte in favore dui Papa; non contro il papismo, non contro il Vaticano, non contro Pio IX. E se una sola lettera di Garibaldi fosse scritta al Clero polacco, esso concordemente protesterebbe, abbandonando una causa profanata da sì rei intendimenti.

E dai Polacchi Garibaldi passa a citare gli esempi di altri sacerdoti «di quelli della Grecia, della Cina, dei selvaggi dell’America, ove il sacerdote non rinnega la sua culla». E con questi esempi vorrebbe persuadere i sacerdoti italiani a rinnegare la loro culla, che è Roma, il loro padre che è il Papa, la loro madre che è la S. Chiesa Cattolica Apostolica Romana!

Queste lettere ai sacerdoti italiani sono il peggiore insulto contro il Clero che uscisse dalla penna di Garibaldi. Ed anche por costui sta scritto nella leggo che si debbo rispettare ogni classe di cittadini e non eccitare l’odio degli uni contro degli altri.

– 11 –

Tuttavia i preti italiani perdoneranno al Garibaldi finché li chiami canaglia, sozzura, cappelloni, vergogne, piaghe d’Italia, bottegai, sella contagiosa e perversa; ma non potranno perdonargli quando li inviti a tuonare dal pergamo la santa parola di reprobazione all’inferno del Vaticano. Contro un tale invito protesta solennemente il sacerdozio italiano, e risponde così:

«Generale Garibaldi, alla libertà ed alla causa d’Italia fanno più danno le vostre lettere, che tutti coloro da voi chiamati briganti di Napoli, e preti di Roma. Ciò che scrivete voi è una splendida apologia di Pio IX e de’ suoi sacerdoti. Essi dicono che sotto la maschera della libertà e dell’indipendenza si nascondo l’odio contro Gesù Cristo, e una cospirazione contro il Cattolicismo, e voi lo confermate. Essi dicono che non si vuole rigenerare l’Italia, ma perderla, gettandola nelle dissensioni del protestantesimo, e nei terrori dell’empietà e dell’ateismo, e lo dimostrano le vostre parole.

«Generale Garibaldi, voi vorreste avere il sacerdozio italiano complico nella vostra impresa di spogliare il Papa. E chi è questo Papa? È Pio IX, di cui voi stesso scriveste nel 1817 «che avea già fatto tanto per la patria e per la Chiesa!» Non sarà mai che i sacerdoti d’Italia imitino In vostra ingratitudine. La Chiesa e la patria stanno amichevolmente congiunte, e non è mestieri rinnegare la prima per servir la seconda. Pio IX da sedici anni le serve, sostiene, onora amendue; e dietro a lui fedeli, devoti, coraggiosi i preti italiani continueranno a servire la patria servendo la Chiesa, certi che i vantaggi del Cattolicismo ridonderanno a salvezza, ad onore, a gloria dell’Italia, la cui indipendenza è indissolubilmente unita col potere temporale del Papa, come dichiarò nel 18-18 Luigi Napoleone.

«Generale Garibaldi, scrivete pure un’altra volta alla guardia nazionale di Napoli che, quando incontra un prete, lo schiacci come cosa schifosa, appestata. I preti italiani si lasceranno schiacciare, e pregheranno per chi li perseguita; ma non si lasceranno né fuorviare, nò corrompere. Li vedrete morti ai vostri piedi, non li vedrete mai traditori della fede di Gesù e del Romano Pontefice. Potrete togliere loro i beni, la patria, la vita, ma non la devozione, non l’amore a Pio IX, che è amore e devozione al Cattolicismo ed all’Italia.

«Generale Garibaldi, voi dite ai sacerdoti italiani che finora operarono il male. Pio IX invece li loda perché operarono il bene restando uniti all’Episcopato, e saldi nella difesa del vero, dell’onesto e del giusto. Dovranno i preti anteporre l’oracolo garibaldino all’oracolo del Vaticano? Abbandonare Pio IX permettersi con Garibaldi? Imparare da voi che cosa sia il Cristianesimo, e quali sante parole debbano proferirsi dal pergamo?

«Generale Garibaldi, voi siete netto da un diletto comune ai vostri amici, l’ipocrisia. Non promettete al Papa libera Chiesa in libero Stato, ma lo considerate come l’Anticristo. Non offerite titoli e stipendi ai Cardinali, ma li mandate in perdizione. Non vi vantate di voler evitare uno scisma, ma lo promuovete dichiarando guerra ni Cattolicismo. Non invocate sacrilegamente le benedizioni del Pontefice, ma imprecate ni Vaticano rappresentandolo come un inferno.

– 12 –

«Ma perché cessare da questa vostra franchezza? Perché macchiarla con una lettera ai preti?Perché darvi pensiero dei sacerdoti italiani? Credete voi al sacerdozio? Ah! Lasciate da parte i ministri di Gesù Cristo. Essi non accetteranno mai più la vostra fratellanza, perché voi non li volete fratelli se prima non si dichiarano apostati, se non vengono meno ai proprii doveri, se non contristano e trafiggono l’anima del proprio Padre.

«Generale Garibaldi, tenete per voi e pei vostri il paradiso che avete creato nella nostra patria. I sacerdoti italiani stanno in quello che voi chiamate inferno del Vaticano. fi un inferno di nuovo. genere, come di nuovo genere è il vostro paradiso. Nell’inferno del Valicano c’è dignità, ordine, fede, onestà; laddove nel vostro paradiso nullus ordo sed sempiternus horror inhabitat. Ma poiché le opinioni sono libere, noi anteponiamo l’inferno con Pio IX al paradiso con Garibaldi. Il primo è un inferno che conduce al paradiso, e l’altro un paradiso che anticipa o almeno conduce a gambe levate all’inferno».

PRIMO PASSO DI RATTAZZI

PER CONQUISTARE ROMA E VENEZIA

(Pubblicato it i aprile 1862).

Ricasoli andava a Roma per via di lettere, di capitolati, di opuscoli, di progetti, di articoli e cose simili, e pare che il suo successore non intenda di seguire un’altra via. La Correspondance Italienne litographiée, che pubblicasi in Torino a servizio del Ministero, stampa una circolare che Urbano Rattazzi, sotto la data del 20 di marzo, indirizzava ai nostri agenti presso le Corti europee. Rattazzi dichiara che vuole Roma e Venezia, e non può farne a meno, essendo obbligato a conquistarle da un voto del Parlamento! Ed ecco che cosa scrive Rattazzi riguardo a Roma.

«La questione di Roma preoccupa in alto grado lo spirito dei consiglieri della Corona. Il Re ebbe dal Parlamento, come dalla nazione, il mandato di completare la formazione del paese, di trasferire la sede del governo nella Città Eterna, a cui solo si spetta il titolo di Capitale dell’Italia.

«Tale mandato non può essere rifiutato: la soluzione di tale quistione si collega alla conservazione dell’opera compiuta in Italia, dall’epoca dell’ultima guerra. I nostri alleati che contribuirono tanto a cotale successo hanno interesse che, anche da questo lato, i destini d’Italia si compiano.

«Il governo non si dissimula che tra i cattolici ve ne sono molti che sono contrarii al suo modo di vedere. Ma essi dimenticano che il potere temporale non esiste che per la protezione che gli si accorda, e che ogni qualunque protezione è una dipendenza. L’indipendenza del Sovrano Pontefice, disimpacciato dal potere temporale, avrà un’imperitura guarentigia nel fatto che la sua libertà sarà un bisogno continuo di tutti i popoli cattolici, come di tutte le Potenze che la proteggono,

«Esso ha un’altra guarentigia del pari incrollabile nell’interesse che ha l’Italia di conservare nel suo territorio la sede di questo sublime potere, il quale è al tempo stesso quello delle sue glorie e delle sue forze.

– 13 –

«Il sistema nostro, che su larga base assicura la cooperazione del popolo, sul quale l’autorità religiosa esercita la più efficace influenza, impedirà sempre che quest’autorità cessi d’essere indipendente. La sua indipendenza trae, d’altro canto, una sicurezza negativa dal principio che serve di base alla nostra costituzione; secondo la quale il governo è incompetente in materie religiose.

«La resistenza che Roma la ai voti del popolo italiano non consiste già oggidì nel desiderio di rassicurare la coscienza dei cattolici contro alcuni pericoli imaginarii, ma nel servire gl’interessi d’un partito che, estraneo alla religione, cerca in quella Corte l’appoggio che gli manca sul terreno politico. Da ciò risulta un altro motivo, perché In quistione sia sciolta nel nostro senso.

«Il governo del Re farà di tutto per raggiungere questo scopo, d’accordo col grande alleato, che ora protegge il Santo Padre colle sue armi. D’accordo coi governi a ciò interessati, esso ù pronto a guarentire questa preziosa libertà necessaria all’esercizio del potere spirituale, e a regolare le relazioni della Corte romana coi popoli e i governi cattolici. Allo stesso modo, e dietro gli stessi accordi, e sotto le stesse guarentigie, egli assicurerà una dotazione perpetua sufficiente e convenevole alla dignità del Sovrano Pontefice e del Sacro collegio, e necessaria alla conservazione delle autorità e delle istituzioni della Chiesa cattolica. D’altra parte, la libertà che abbisogna al Papa per assicurare l’esercizio delle sue alte funzioni, egli non la troverebbe in nessun luogo così piena quanto nella città madre del mondo cattolico, sotto l’egida d’un governo, il quale, più che tutti gli altri, trovasi, in grado di conservargliela intatta».

Sono le solite ciancie di Ricasoli rifritte da! nuovo cuoco Rattazzi, il quale pretende di conoscere meglio de’ Vescovi e del Papa i vantaggi e i bisogni della Chiesa cattolica!

Passiamo alta Venezia. Urbano Rattazzi scrive su questo argomento ai nostri agenti diplomatici:

«Quanto alla questione della Venezia il governo si sente abbastanza forte da non lasciarla pregiudicare da atti che potrebbero ledere l’integrità dei suoi impegni. Pure non debbonsi tacere i pericoli di vedere turbati, da un istante all’altro, l’ordine e la libertà di questa parie sì importante d’Italia, causa l’occupazione dello straniero.

«La comunanza d’origine, di lingua, di dolori, di speranze e di gloria, che stringe a noi le popolazioni della Venezia; i voti pronunciati nel 1848, le promesso a lei fatte nel 1859, i volontari che essa ci ha mandati, i suoi emigrati ora sparsi in tutte le nostre città, e nella nostra armata, tutto ciò rafferma i vincoli di simpatia e di solidarietà fra i Veneti e la Penisola in modo che mai l’Italia potrà restare indifferente ai dolori di quel paese.

«E a misura che la nazione acquista di forza, è a temersi che un giorno essa non franga le catene della pazienza, o non cerchi di guarire del dolore che i mali di una sì nobile parte del suo corpo le accagionano.

«Il diritto dell’Austria sul Veneto è distrutto dal fatto incontestabile che essa non può mantenerlo che colla forza; e la forza può, è vero, soffocare la crisi… ma impedirla, no.

– 14 –

«Le potenze che crearono un tale stato di cose hanno il mandalo di aver cura della soluzione pacifica di sì grande questione. Il governo del Re aveva il diritto di mostrar loro i pericoli che ponno derivare da un troppo prolungato ritardo, pericoli che non si ponno ovviare che con una fondamentale revisione dei trattali del 1815, dietro cui l’Italia, rigenerala, riacquisti le sue frontiere naturali».

Urbano Rattazzi è un po’ imprudente. Egli dice: «Il diritto dell’Austria sul Veneto o disunito dal fatto incontestabile che essa non può mantenerlo che colla forza». Ma perché il signor Rattazzi scrivendo queste linee non pensò a Napoli, alla guerra sanguinosa che si combatte da tanto tempo in quel reame, alle migliaia e migliaia di soldati che vi si mandano, agli arsi paesi, alle piene prigioni, alle fucilazioni continue?

IL GENERALE GARIBALDI

NEL 1848 E NEL 1862

(Pubblicato il 22 maggio 1862).

In qualche luogo di queste Memorie si accenna come nel 1848 il governo di Torino, dopo di avere avuto amico ed ausiliario il generale Garibaldi, spedisse contro di lui e contro de’ suoi il Duca di Genova con buon nerbo di truppa, affine di arrestarne le mosse, ed impedire alla sua colonna di rientrare sul territorio piemontese. Sarà utilissimo ricordare i documenti di questo fallo, che j nessun ministero e nessun governo avrebbe dovuto dimenticare nel 1859.

Apriamo il Risorgimento, giornale diretto nel -1848 dal conte di Cavour. Nel suo N° 198 del 17 di agosto 1848 il Risorgimento raccontava quanto segue: «I Milanesi del partito repubblicano si raccolgono in Isvizzera. Colà si volgeva ieri il generale Garibaldi con forse una mano di 1500, e cominciava col mettere un accatto ad Arena di L. 7000. Correva stanotte colà il Duca di Genova con artiglieria, cavalleria e 2000 fanti, Garibaldi giorni fa aveva fatto tirare sugli Austriaci, intimatogli da questo governatore di osservare la tregua sotto la più. stretta risponsabilità, stette cheto, e poi si volse alla bella impresa di SQUATTRINARE ARONA. Dicesi che ha sequestralo i battelli a vapore e molte grosse barche».

Nel numero successivo il Risorgimento rideva dei modi un po’ cavallereschi del generale Garibaldi, e riferiva che, essendo stato avvertito il generale della tregua stretta dal nostro governo coll’Austria, egli rispondesse: «La tregua l’ha fatta il Re, noi non c’entriamo». Questo articolo è troppo-lungo, ma sarà utile rileggerlo.

La Gazzetta Piemontese poi, nella sua parte ufficiale, il 17 agosto 1848, parlava così del generale Garibaldi: «Il generale Garibaldi ritiratosi a Castelletto sul Ticino con 1300 uomini, si mosse repentinamente di colà la mattina del 14, conducendo seco in ostaggio i due fratelli Minella e certo Barberis, siccome quelli che avevano voce di partigiani dell’Austria;

– 15 –

andò ad Arona, vi trattenne tutte le barche che vi stavano ancorate, quelle che vi giungevano dalla opposta sponda lombarda, e i due piroscafi, ed impose alla città una contribuzione di L. 10, 000, che fu poi ridotta a 7000, di venti sacchi di riso, tre di avena e 1286 razioni di pane, e partiva, a quanto pare, per continuare le ostilità contro l’Austria, lasciando gravi apprensioni del suo ritorno.

Partendo lasciò bensì in libertà, dietro lo calde istanze di alcune persone, l’ingegnere Barberis, ma trasse pur seco i due Minella summentovati, ed un tal Guenzi da lui arrestato in Arona, a nulla giovando l’intervento dell’avv. Brofferio che colà trovavasi. Si dice poi che, sbarcato a Luino sulla sponda lombarda, vi fece fucilare contro ogni leggo di umanità i tre ostaggi suddetti, o quindi batté un corpo di tre o quattrocento Austriaci (la notizia era falsa).

«Intanto l’amministrazione civica di Arona richiamava al governo, per essere tutelata da simili violenze, ed il governo del Re, sia per assicurare le popolazioni, sia per mantenere la disciplina così gravemente offesa, sia finalmente per non rendersi complico di siffatta violazione dei patti di armistizio, fu costretto a provvedere perché la colonna Garibaldi non potesse rientrare nel territorio piemontese».

Noi non ci facciamo mallevadori della verità delle accuse contenute nella Gazzetta Ufficiale. Possiamo dire soltanto che i fatti accennati non vennero né ritrattati, né smentiti, e che omai sta registrato nelle istorie come nell’agosto del 1848 il Duca di Genova con artiglieria, cavalleria e 2000 fanti movesse contro Garibaldi: 1° per assicurare le popolazioni; 2° per conservare la disciplina; 3° per non rendersi complice di violazione di patti.

Queste tre ragioni servono anche pel 1862. Imperocché noi abbiamo oggidì le popolazioni incerte, ansiose, agitate, spaventate; abbiamo la disciplina militare sconvolta, e ordinata la guerra da chi non può dichiararla; abbiamo finalmente la violazione dei patii di Villafranca e del trattato di Zurigo che fermarono la pace ti a l’Austria ed il Piemonte.

Ma il generale Garibaldi non è più quello del 1848, e non si trova più col governo nostro nelle medesime condizioni. Nel 1860 Garibaldi ha messo a repentaglio la tranquillità delle popolazioni napoletane, e il nostro governo l’approvò, lo lodò, lo celebrò, e raccolse il frutto della sua intrapresa. Nel 1860 Garibaldi ruppe la disciplina, e impossessatosi a forza di un vapore, e raggranellato un manipolo di truppa, sbarcò a Marsala, e riuscito ne’ suoi intendimenti, il governo voleva crearlo cavaliere della SS. Annunziata. Nel 1860 Garibaldi mosse contro il Re di Napoli mentre stavano in Torino i suoi ambasciatori, e il conte di Cavour stringeva loro fraternamente la mano, assicurandoli della sua sincera amicizia; e poi invece abbracciò Garibaldi, e non temette di rendersi complice della violazione di patti, e di proclamarlo come un grande Italiano.

Sicché mentre il governo di Torino nel 1848 dirigeva contro Garibaldi il Duca di Genova con artiglieria, cavalleria, e fanti, nel 1862 non osa dirigergli neppure due linee della Gazzetta Ufficiale) Per rispondere alla sua protesta, risponde invece al Diritto che non disse nulla, che nulla stampò, salvo le parole di Garibaldi.

– 16 –

Fin da ieri noi notavamo la tristizia di questo procedere, ed il Diritto del 21 di maggio, N° 140, se ne lagna fortemente ed ha ragione. «Credevamo, scrive il Diritto, che la Gazzetta Ufficiale fosse soltanto menzognera. Oggi l’abbiam trovata – ci consentano i nostri lettori il forte e a noi insolito ma giusto linguaggio – vigliacca ed infame» .

E il Diritto segue a dar due prove della sua tesi che la Gazzella Ufficiale del Regno d’Italia è vergognosamente vigliacca: «L’una nel calunniare in cospetto a tutta Italia e all’Europa un numero di giornale che fu sequestrato; e tanta bassezza è appena degna di essere avvertita. L’altra nel ritorcere la calunnia sopra le povere linee del Diritto senza avere il coraggio di dire che quelle linee sono scritte dal generale Garibaldi; e tanta meschinità d’animo è così turpe e disonorante che non sapremmo dove trovarne altro esempio».

Non ci vuole grande ingegno a vedere per qual ragione fosse sequestrato il Diritto del 20 di maggio. Apparentemente si disse clic fu sequestrato «per aver riportato nel N° 139 un indirizzo della Società emancipatrice italiana al generale Garibaldi, il quale (indirizzo) nel suo contesto e singolarmente nell’ultima sua parte colle parole: – Non saranno trattenute, né… né dai soprusi, ecc. contiene chiaramente il reato di eccitamento alla ribellione ed alla rivolta contro i poteri dello Stato».

In realtà fu sequestrato per la protesta di Garibaldi, che dice contumelie ai nostri soldati. Ma perché non motivare il sequestro su questa protesta? Il perché è evidente. Dopo il sequestro di un giornale bisogna fare un processo, e il processo non comprende solo il gerente che pubblica l’articolo, ma anche l’autore che lo sottoscrive. Di guisa che, sequestrandosi il Diritto per la protesta di Garibaldi, avremmo dovuto vedere alla sbarra e davanti i giurati il gerente ed il generale. Ora il generale per prima cosa gode un’inviolabilità più veneranda di quella del Sovrano, e quando si trovasse un ministero così coraggioso da sottoporlo alla legge, i giurati darebbero ragione a Garibaldi e torto al governo. Laonde per evitare questi due sconci, e non potendosi battere il cavallo, s’è battuta la sella.

Ma in pari tempo ognun vede la tristissima condizione del governo nostro, se pur di governo merita tuttavia il nome, e non piuttosto di schiavo. Avvegnachè esso sia soggetto a due gravi schiavitù, a quella di Luigi Bonaparte, e a quella di Giuseppe Garibaldi. Dal primo ha avuto la Lombardia, dal secondo la Sicilia e Napoli. Il primo l’ha protetto colla legge del non intervento; il secondo col rendergli devota la parte repubblicana e col proclamare Italia e Vittorio Emanuele. Deve a Napoleone i soccorsi diplomatici, a Garibaldi gli aiuti rivoluzionari, ed è diventato così servo di amendue. Non può parlare né di Napoleone, né di Garibaldi senza sberrettarsi, inchinarsi, genuflcttere e professare sempre a questo ed a quello il suo amore, la sua devozione, la sua riconoscenza.

Però anche in questo caso si verifica il principio che non si può servire a due padroni. Con tutta la sua buona disposizione di servire il ministero trovasi omai nella dolorosa alternativa di dispiacere o a Garibaldi, o a Bonaparte. Imperocché l’uno comanda di andare a Roma e di conquistar la Venezia, e l’altro proibisce di pensare, e perfino di sparare all’acquisto di Venezia e di Roma.

– 17 –

Di che i ministri trovansi in questo bel pasticcio; o pensano a Venezia e a Roma, e muovono un passo solo per andarvi, e incorrono nelle ire dell’Imperatore dei Francesi che li abbandona; o dimenticano Venezia e Roma, e suscitano gli sdegni di Garibaldi che li combatte. E persuadetevi che il Garibaldi e il Bonaparte sono egualmente potenti in Italia, chi in un senso e chi nell’altro, e il governo di Torino ha bisogno di tutti e due, di questo nella sfera diplomatica, e di quello nella cerchia rivoluzionaria.

Intanto mentre credevasi vicina la soluzione della questione romana, e i nostri sul punto d’entrare in Roma, né sono oggidì più lontani che mai. La questione Garibaldi-Bonaparte è qualche cosa di più urgente, di più Fatale, di più faticoso delle altre questioni, e non sappiamo come potrà sciogliersi. E nel tempo che si discuterà nel recinto de’ gabinetti e negli antri delle società segrete, e si faranno transazioni, e correranno danari per conciliare gli amici inviperiti. Pio IX circondato dai Vescovi del mondo cattolico compirà in Roma la gloriosa e consolante canonizzazione dei Martiri Giapponesi.

LE COSPIRAZIONI DEL SIGNOR RATTAZZI

(Pubblicato il 5 giugno 1862).

«Io conosco e debbo conoscere il ministro Rattazzi. signori, come ogni altro col quale ho anche cospirato Egli è uno di quegli uomini che desiderano cospirare, ma non ha né l’audacia, né il coraggio del cospiratore»

(Deput. CRISPI), tornata del 3 di giugno 1862, Atti Uff. N° 620, pag. 2398, col. 1).

Il Conte di Cavour prima di morire ebbe un giorno il coraggio di dichiararsi nella Camera dei Deputati un cospiratore, e confessare che per dodici anni aveva cospiralo; ciò che dimostra che cospirava fin da quando avea l’aria di difendere il clero in Parlamento, e usava al clericale uffizio dell’ Armonia.

Il ministro Rattazzi, senza avere il coraggio del conte di Cavour, ne segue il costume. Grandi rivelazioni furono fatte alla Camera nella tornata del 3 di giugno, rivelazioni di cui la storia s’impossesserà, e che noi registreremo secondo gli Atti Ufficiali del Parlamento. Da queste risultò chiaramente che il presidente del ministero ha cospirato, cospira e forse continuerà a cospirare, senza avere però il coraggio dei cospiratori.

Ecco che cosa gli disse in sulla faccia il deputato Crispi (Atti Uff. N° 620, pag. 2397):

Crispi. Signori, l’affare del Tirolo è una favola, una fantasmagoria, è uno di quei colpi montati dal Governo. (Oh! oh! rumori). Io sono infermo, e sono venuto alla Camera per adempiere ad un sacro dovere. (Rumori. Bravo! a sinistra: parli. Applausi dalle tribune pubbliche).

L’affare del Tirolo fu una fantasmagoria, uno di quei colpi montati per venir qui alla Camera con qualche progetto di legge, che da gran tempo si fa imtendere di volerci portare, e che recherà forse qualche colpo fatale alle libertà del paese.

– 18 –

Né Garibaldi, né altri pensò violare l’articolo 5» dello Statuto; nò Garibaldi, né altri pensò mai di far passare ai suoi amici la frontiera austriaca; ci erano altri scopi, altri progetti, progetti iniziati da lungo tempo. Il miniatro dell’interno non deve dimenticarsi che a questi progetti anch’egli prese parte

Rattazzi. Non è vero.

Crispi. Verissimo; ci sono le testimonianze, ed al caso domanderò un’inchiesta.

Rattazzi. Parli, risponderò.

Crispi. Lo scopo dunque era tutt’altro che il passaggio della frontiera austriaca; lo scopo era al di là dei mari, salvo poi ad andare dove si sarebbe voluto. Il signor ministro dell’interno ricorderà messaggi mandati da lui a Garibaldi, e da Garibaldi a lui: ricorderà i colloqui che s’ebbe con diversi individui nei mesi di aprile e di maggio; non può negarlo; altrimenti dirò i nomi…

Rattazzi. Sì, e dirò quello che ho detto.

Crispi. Ci è. qualche cosa di più. Il signor ministro dell’interno aveva promesso un milione… (Mormorio).

Rattazzi. Non è vero…

Crispi. Lo aveva promesso… Aveva promesso le armi… (Interruzione).

Voci. Lo lascino parlare…

Rattazzi. Parli, parli pure; risponderò.

Crispi. La questione è ardente, signori… (Rumori).

Voci. Parli, parli… Continui…

Rattazzi. Parli, parli pure…

Crispi. Ricorderò anzi che il 27 aprile, uno di questi messaggeri trovandosi dal signor ministro dell’interno, ebbe da questi in risposta: «Il milione non posso tutto prenderlo dalle spese segrete, ci sono appena 600 mila lire, ma il resto lo troveremo altrove». Il signor ministro ricorderà aver detto, che, partito per Napoli, avrebbe dato il milioncino e le armi. La persona incaricata, allora si rivolse al rappresentante del ministro dell’interno in Torino, ed il ministero dell’interno in data del primo maggio mandò un dispaccio in cifra, dal quale risultano a un dipresso le seguenti dichiarazioni: «Pronto a dare le armi, che il generale indichi il luogo, e mandi intanto la ricevuta di una parte del danaro».

Io conosco e debbo conoscere il ministro Rattazzi, signori, come ogni altro, col quale ho cospirato e volli cospirare… perché anche con lui io voleva cospirare.

Rattazzi. lo non ho mai cospirato con nessuno.

Crispi. Sissignore, nel dicembre 1859… (mormorio). Il signor ministro Rattazzi risponderà. Egli è uno di quegli uomini che desiderano cospirare, ma non ha né l’audacia, né il coraggio da cospirare; prende parte ai complotti per tirarne l’utile suo, ma quando poi le cose sono a tal punto, che non li conviene di restar implicato, si ritira, e se ne cava per quei colpi di mano di polizia che in tempi normali dorrebbero e dolgono sempre agli uomini onesti, perché la franchezza dove essere la dote precipua di un uomo di Stato, ma che nei tempi attuali possono produrre tali sventure da porre in pericolo la libertà e l’unità della patria.

– 19 –

Signori, voi sapete come venne al potere il ministro Rattazzi. In verità io non so ancora la ragione perché ci venne, giacché non trovo differenza, in quanto al programma, dal suo a quello del suo predecessore. Venne perché un portafoglio è troppo una cara cosa a certi uomini (movimento). La destra, voi lo sapete, non gli è molto amica, ma venne a scindersi. La sinistra si ricordava il ministro del 1857, e non poteva in lui collocare molta fiducia. Gli abbisognava un battesimo. Era a Genova casualmente Garibaldi: lo si la venire a Torino, girare presso tutte le persone autorevoli che dovevano prender parte alla formazione del gabinetto. Col battesimo del generale Garibaldi il ministero si è creduto abbastanza forte.

Il ministero dice: io non feci nessuna promessa. Signori, vi sono tante sorta di promesse: vi sono le promesse che facciamo e le promesse che facciamo fare. È poi ci sono quei tali sottintesi, quelle maniere, colle quali gli uomini cercano d’ispirare una certa fiducia ed una certa confidenza negli ingenui che ci credono.

Quando il generale Garibaldi mi disse: bisogna secondare questo gabinetto, perché ci ha fatto promesse, e ci rende grandi servizi: generale, io gli risposi, v’inganneranno; e lo vedrete coi fatti. – Ma ci abbiamo là egli soggiunse, uno dei nostri amici, il quale sorveglierà, e in ogni modo si ritirerà quando le cose non vadano bene (ilarità). Ma anche questo fu inganno, perché l’amico di cui parlava il generale Garibaldi, e da noi sventuratamente conosciuto in Sicilia durante il 1860, ha le sue debolezze, e non era certo il miglior vigile nel nuovo gabinetto (si ride).

Depretis (ministro dei lavori pubblici). Domando la parola.

Crispi… in guisa che io dissi che da questo gabinetto non avremmo avutose non se disinganni e delusioni.

Dissi alla Camere che doveva usarsi certa prudenza, giacché per entro a codesti intrighi occorrono certi nomi superiori, a cui noi dobbiamo tutta l’adorazione-, ma il signor Rattazzi non dimenticherà forse, e l’avrà conosciuto prima o dopo, questo lo ignoro, non dimenticherà forse della visita fatta al generale Garibaldi il 10 maggio a Trescorre e della replicata promessa.

Il signor Rattazzi che già si credeva abbastanza forte nell’opinione pubblica, e che immaginavasi potersi fare a meno di questi rompicolli, coi quali ei discute e si associa quando c’è a fare società di speranze, e viene poi a gittarli capri emissari all’ira pubblica, quando non sieno più utili – abbandonò personalmente l’affare. E Garibaldi anch’esso naturalmente dovette ritirarsi.

La Camera comprende la mia commozione, la quale, aggiunta alla infermità che mi tormenta, mi toglie quella facilità che è necessaria nel parlarle.

Il ministro Rattazzi giudicò dunque che, arrestando a Sarnico e in altre parti della Lombardia quei giovani, e facendo menar strepito dai giornali per la scoperta di questa cospirazione che metteva in pericolo la sicurezza dello Stato, di poter venire qui alla Camera sicuro di un gran trionfo.

Quindi a prova di sua maggior energia si aggiunsero i casi luttuosi di Broscia, e il rullo dei tamburi nelle strade di Napoli.

– 20 –

Il ministro Rattazzi si credette abbastanza forte, giacché il colpo bastava a dimostrare al paese che egli sa reprimere le cospirazioni.

lo mi arresterò; e siccome nella grave quistione potrebbero essere compromessi i destini dell’avvenire, io chiedo alla Camera che essa nomini una Commissione d’inchiesta, la quale sia incaricata d’inquirere sui casi del mese scorso, e voglia vedere se in tutto ciò che è avvenuto la colpa è del potere, o degli uomini ch’egli ha voluto far denigrare dalla stampa a lui soggetta.

Se il ministro Rattazzi opporrà una recisa negativa alle rivelazioni un po’ concise che io ho fatte, non sarei contrario la Camera si riunisca in comitato segreto ond’io possa rivocare alla stessa nomi, date e fatti precisi.

Rattazzi avrebbe dovuto accettare l’inchiesta se si fosse sentito tranquillo io coscienza. Invece la rifiuto sfidando il deputato Crispi a parlare in pubblico, perché sapea bene che non avrebbe parlato essendo il danno comune. Ma riserviamo a miglior agio le nostre osservazioni. Per ora mettiamo sotto gli occhi del lettore i documenti.

GARIBALDI A PALERMO.

E DEBENEDETTI A PARIGI

(Pubblicatosi 1° luglio 1862).

Mentre il 29 di giugno nella Camera dei Deputati il signor Bixio lodava il governo per non aver mandato Garibaldi a Napoli, e dicea di lui: «È un uomo fatto a suo modo; i nostri ragionamenti non lo convincono; egli crede che l’Italia possa fare la guerra subito, e contro tutti»; un dispaccio telegrafico annunziava che Garibaldi era giunto improvvisamente a Palermo la sera del 28 di giugno, che il 29 parlò al popolo esortandolo alla concordia; che fu invitato a colazione dai Principi reali, che prese parte all’inaugurazione del tiro nazionale, e via dicendo.

La Corrispondenza Franco Italiana ci annunzia che Garibaldi non si fermerà a Palermo avendo intenzione di recarsi in altri luoghi! Se l’arrivo di Garibaldi a Palermo giunse improvviso alla plebe, noi giunse né al governo, né ai rivoluzionari. E fra breve sentiremo l’improvviso arrivo dei garibaldini in qualche parte d’Italia, giacché molti sono partiti da Torino, dopo misteriosi arruolamenti in Milano, in Modena ed altrove.

Nella tornata del 25 di giugno il Deputato De Boni interpellò il ministero su questi arruolamenti «imperocchè, diceva, molti credono che gli arruolamenti si facciano a spese del governo» (Atti Ufficiali. N” 677, pag. 2620). «Si parla, continuava il De Boni, di somme vistose per l’ingaggio. L’uno dice: io sono arrolato pel Messico. Altri: io sono arrolato per Nuova York. Altri sussurrano altre cose». Il De Boni conchiudeva: «Resta nel fondo un imbroglio».

Rattazzi ministro dell’interno, rispondeva essere oltremodo dolente di questi arruolamenti clandestini, non avere alcun mezzo per iscoprirne gli autori, biasimarli e condannarli altamente, e accertava |a Camera «che questi arruolamenti clandestini che si fanno, certo non andranno al compimento» (Atti Uff. l oc. cit.).

– 21 –

Ora mettete con tutto questo la partenza di Garibaldi per Palermo, e il suo arrivo improvviso, la partenza di Debenedetti per Parigi, improvvisa come l’arrivo di Garibaldi; Bixio deputato Garibaldino, che parla nella Camera in favore dell’alleanza francese, e il 29 di giugno dice che la guerra europea deve inevitabilmente scoppiare; sommate tutto questo, e incomincierete a capire qualche cosa dell’imbroglio.

GARIBALDI A PALERMO

(Pubblicato il 1° luglio 1862).

Arrivato all’improvviso nella città di Palermo, destò in un tratto a movimento un gran numero di persone, che si accalcò nella strada, egli si mostrò e pronunziò presso a poco queste parole: «io vi saluto, popolo di Palermo; noi ci siamo conosciuti nei momenti di pericolo. Se vi ha popolo al mondo che meriti il mio affetto è il popolo di Palermo. Popolo delle grandi iniziative! tu meriti la gratitudine della intera Penisola e l’ammirazione del mondo! Io sono commosso: Sì, questo popolo mi commuove. Vi saluto; io sono con voi, e non lascierò così presto Palermo. Vi saluto, vi saluto». 11 Corriere Siciliano dice che la calca si sparge per la città; e malgrado la pioggia tutti son fuori e gridano ed espandono Quella Piena Infrenabile D’entusiasmo (Corriere 28 giugno, N° 154, Suppl.).

La mattina seguente dal balcone del palazzo del municipio Garibaldi parlò dei nemici d’Italia e del bisogno di concordia fra tutti i partiti liberali. Esortò il popolo a stare in guardia contro i preti che qualificò Preti Del Diavolo». Qui, soggiunse, ve ne sono assai buoni, li ho conosciuti, ma stare in guardia è pur giusto». Nel trasporto della sua passione pronunziò parole niente affatto benevole per Luigi Napoleone, dice il Corriere Siciliano, e secondo un carteggio privato del Diritto avrebbe detto, fra gli applausi della moltitudine, che non la nazione francese, ma il suo Imperatore o nostro nemico. Poi soggiunse: credetelo, due uomini non vi possono ingannare, IO e Vittorio Emanuele. Parlò di Roma e Venezia, che dobbiamo prontamente avere; ed esortò il popolo a rassegnarsi ai sacrifizi che ci costeranno.

Quest’arrivo di Garibaldi, conchiude il Corriere Siciliano, lo crediamo provvidenziale! Quante faccie che impallidiscono! di chi mai intende parlare il citato giornale? Forse di coloro che son fedeli alla causa della giustizia e del Cattolicismo? S’inganna; perché costoro la difendono con ogni calore finché è in loro potere; ma poi vedendosi sopraffatti si abbandonano nelle mani della Provvidenza, ben sapendo che il trionfo dell’empio non è che di un giorno!

– 22 –

GARIBALDI A PALERMO

E I SECONDI VESPRI SICILIANI

(Pubblicato il 10 luglio 1862).

Garibaldi nel teatro di Palermo, la sera del 1° di luglio esclamava: «Viva il popolo del Vespro Siciliano! L’Italia spera che ne farà un secondo, se ne avrà il bisogno» (Diritto del 7 luglio, N° 186; Unità Italiana del 7 luglio, N° 182). I Vespri Siciliani furono contro i Francesi, e Garibaldi avea parlato il giorno prima del loro imperatore Napoleone III! Ecco, secondo alcuni giornali di Palermo, le parole dette da Garibaldi, la mattina del 30 di giugno, dalla casa comunale.

Secondo il giornale il Dies trae, supplimento al N° 17, Garibaldi «chiama nazione sorella la Francia, il popolo francese amico, capace di sopportare ogni sacrificio per il compimento della quistione italiana. – Volere Napoleone dissolverla, ambirne Io-sfacelo, la servitù; lui tiranno, usurpatore, nemico d’ogni civile libertà. – Pretenderne la sudditanza. – L’occupazione di Roma essere ingiusta, oppressiva, foggiata sull’arbitrio e sulla prepotenza. – Non aver diritto lo straniero alla nostra devozione; l’Italia esser libera e reclamare la sua capitale. Parlando dei preti di Roma, dice che essi circondano il Pontefice per ammazzare la libertà italiana; che sono cupidi, avari, feroci, sanguinari-, che deturpano la stola ed il Vangelo, che costuprano la religione di Cristo, ch’ammazzano ogni onesto consorzio. – Avere eglino seminato la discordia, il veleno nelle provincie napolitane. – Frustrato la nazionalità italiana, avvilita e schiacciata col segno della croce Roma. Fidassero in Dio, nella giustizia della causa. – Siamo forti, uniti, concordi. – Avere avuto buoni sacerdoti a Calatafimi e nei preti della Gancia sacerdoti di Cristo, e del diavolo a Roma e nei concili -).

Il Progresso, supplimento al N° 11, dà il testo del discorso di Garibaldi, trascritto atla lettera per cura di un patriotta che trovavasì vicinissimo all’oratore. Qui pure si parla di Vespri. Leggete:

«Il murattismo condurrebbe al dispotismo, e peggio. Murat sarebbe un proconsole di Bonaparte. Napoleone continua a tenere il cancro in Italia – di Roma, egli ne ha fatto un covile di briganti, che infestano le provincie italiane, lo debbo dirvi questo vero: – Napoleone, autocrata della Francia, non può essere amico nostro. Questo è un disinganno, a cui deve giungere qualche italiano sventuratamente abbagliato. Con Bonaparte non intendete il popolo francese; esso, come noi, ha bisogno di libertà – Oggi, disgraziatamente, è trascinato dal dispotismo; ma esso è fratello nostro – Voi dovete discernere il popolo da chi lo tiranneggia – ovunque i popoli sono fratelli… Parlandovi di concordia nazionale raccomando pure la concordia di famiglia a famiglia, d’individuo a individuo, finché un ultimo soldato straniero calca questa terra; finché, come nei Vespri, essa non ne sia intieramente libera».

– 23 –

La Mola, Gazzetta Popolare di Sicilia, organo della società garibaldina, nel suo No 185, del 30 di giugno, mette queste parole in bocca di Garibaldi: «Noi abbiamo il cancro in Italia… A Roma! ove il despota di Francia, l’autocrate della Francia, c’impedisce d’andare. E quando parlo di Francia intendo di Napoleone, non del popolo – Il popolo di Francia, come quello di Germania, come qualunque popolo del mondo, è nostro fratello – Il popolo di Francia, calpestalo dal suo autocrate, abbisogna di libertà. Un altro cancro per l’Italia è il Papa, e con lui i preti. Però quando io parlo di preti intendo coloro che stanno a Roma stretti a conciliabolo col Papa… Costoro sono i preti del demonio, non i preti del Cristo. I preti del Cristo sono i nostri bravi Padri della Gancia, i nostri Padri che con noi pugnarono sulle barricate».

L’Unità Politica di Palermo, N° 78 del 30 di giugno, scrive a sua volta: «Garibaldi ha detto, e più volte ripetuto: – Le piaghe dell’Italia sono tre, Napoleone, la consorteria, il Papa. Ci chiamino come vogliono – uomini della rivoluzione – ma dove siamo noi vi è l’ordine; e ne abbiamo dato delle prove; dove sono essi vi è l’anarchia». –

Finalmente, ommettendo altri giornali, citeremo la Forbice, Gazzetta Popolare di Sicilia, N° 181 del 30 di giugno, che fa parlare Garibaldi così: «II Murattismo è per noi la peste, il cholera morbus. Murat non sarebbe per noi che il proconsole di un despota. Murat ci divide (Bene, bravo! A Roma! A Venezia!). Ci rivedremo a Roma, a Venezia. L’autocrata padrone della Francia non è amico nostro, non è amico dell’Italia.

«Quando io vi parlo del padrone della Francia, non vi parlo del popolo francese. Il popolo francese è nostro amico come quello dell’Alemagna (Applausi vivissimi). Noi, popoli liberi, siamo amici di tutti i popoli…

«Terzo malanno è il Papa. 1 preti che fanno corona al Papa in Roma sono sacerdoti del diavolo, mentre qui io ne ho conosciuti molti di buoni, come sono i frati della Gancia e tutti quelli che pugnarono con noi sulle barricate: costoro sono i veri sacerdoti di Cristo».

Non avendo noi una relazione officiale delle parole delle da Garibaldi, vi abbiamo supplito colla moltiplicità delle citazioni. I rivoluzionari hanno tre nemici in Italia, il Papa, Napoleone, i Vescovi. Il Papa dee venire pienamente spogliato; i Vescovi sono sacerdoti del diavolo; Napoleone è un despota, un cancro, una piaga, e l’Italia spera che il popolo siciliano farà un secondo vespro, se ne avrà il bisogno. Per capire il secondo vespro bisogna conoscere la storia del primo, e scriviamola brevemente:

Nell’anno 1282 i Francesi dominavano in Sicilia, che obbediva a re Carlo d’Angiò. «Da nuovi dazi, gabelle, taglie e confische erano al sommo aggravati que’ popoli. La superbia de’ Francesi ogni dì più cresceva; insopportabile era la loro incontinenza e la violenza fatta alle donne. Di quesli disordini parlano tutti gli scrittori d’allora, ed anche i più parziali della nazione franzese «. (Muratori, Annali d’Italia, tom. VIII, pag. 356. Lucca 1763).

I Siciliani, ben lungi dal considerare a que’ dì il Papa come un cancro e una piaga d’Italia, lo tenevano come il padre e il protettore degli oppressi; e più volte ricorsero a lui per rimedio, e ben si leggono negli Annali Ecclesiastici i buoni uffizi che più volte fecero i Romani Pontefici in favore e sollievo

– 24 –

di essi popoli, con esortare il re Carlo a sgravarli, e a guadagnarsi il loro affetto. (Raynaldus in Ann. Eccles. , e Muratori loc. cit. ) .

Ma re Carlo niun conto faceva di questi ammonimenti, e raddoppiava le tirannie e le estorsioni, sicché i Palermitani, perduta la pazienza. il 30 di marzo 1282, lunedì di Pasqua, mentre suonavano i Vespri presero le armi, insorsero contro i Francesi, e quanti ne trovarono passarono tutti a filo di spada, non perdonando né a donne, né a fanciulli, né alle siciliane incinte di Francesi. E questa insurrezione prese il nome nelle istorie di Vespro Siciliano. Dopo tanto macello i Palermitani alzarono le bandiere della Chiesa Romana, proclamando per loro Sovrano il Papa.

Questa storia dice da sè che cosa intendesse Garibaldi quando il 1° di luglio parlava del secondo Vespro Siciliano. Solo egli dimenticò che il primo Vespro fu susseguito da un omaggio al Pontefice, e il secondo avrebbe di mira la sua totale spogliazione. Napoleone 1Il, che si dà tanto pensiero dei sagrestani dell’ Armonia, dovrebbe pensare piuttosto ai Vespri dei garibaldini; e il marchese di Lavalette che si lagna dell’indirizzo dei Vescovi, non dovrebbe dimenticare i discorsi di Garibaldi. Noi non diciamo di più perché le citazioni premesse dicono assai.

Solo ci piace soggiungere un’osservazione della Politica del Popolo, giornale lombardo. Come s’è visto, Garibaldi distinse tra l’autocrata padrone della Francia ed il popolo francese. Napoleone III, il potente tiranno della Francia, non è amico nostro ma il popolo francese è sempre nostro fratello. Or bene la Politica del Popolo, N° 81 dell’8 di luglio, risponde così:

«Non ci si parli del popolo fratello. Il soldato francese ci è battuto in Italia pour la gloire et pour la France, come si è battuto per la gloria e per la Francia nel Cairo e nella Cocincina… Non ci parlate dunque del popolo fratello – senza Napoleone III – l’autocrata, il potente tiranno – l’Italia del 62 sarebbe né più, né meno dell’Italia del 58».

Sicché i Garibaldini l’hanno amara contro Napoleone 1Il, e abbracciano il popolo fratello, laddove i ministeriali se la pigliano col popolo fratello e genuflettono a’ piedi dell’Imperatore. E questa è una delle più curiose scene del sanguinoso dramma intitolato: I Francesi in Italia.

IL GRIDO DI GARIBALDI

ROMA O MORTE

(Pubblicato li 29 e 30 luglio 1862).

Il sindaco di Marsala Antonio Sarzana in un gran foglio stampato in quella città dalla tipografia di Filippo De Dia, e portante fa data del 21 di luglio 1862, racconta l’arrivo di Garibaldi a Marsala avvenuto il 19 di luglio, e riferisce i discorsi detti da colui «nelle cui mani gloriose stanno l’autorità e l’ Impero di Napoli e Palermo», come asseriva il conte di Cavour nella Camera dei deputati il 2 di ottobre del 1860 (1).

(1) Atti Uff. della Camera. N° 138, pag. 539.

– 25 –

Importa assai conoscere i fatti e le parole di questo generoso patriota, di questo Imperatore di Napoli e di Palermo nel luglio del 1862.

I fatti. Il sindaco di Marsala ci parla dell’arrivo di Garibaldi il 19 di luglio, e descrive le accoglienze festose che s’ebbe, l’entusiasmo che destò, le acclamazioni che si levarono in ogni angolo «lei la Città. E quantunque Garibaldi abbia rinnegato pubblicamente la religione del Papa, e scritto in favore del protestantesimo, e di tutto ciò che non è Cattolicismo (2), nondimeno il 19 di luglio recavasi nel duomo di Marsala, dove fu cantato il Te Deum, e impartitala benedizione col SS. Sacramento.

Di poi un frate di quelli che stanno coll’ex-frate Passaglia, e sottoscrivono i suoi indirizzi, sali sul pulpito e improvvisa un discorso, ed ognuno può immaginare di qual genere e con quale conclusione. Basti il sapere che, terminata l’arringa, il frate che combatteva Pio IX andò a gettarsi ai piedi di Garibaldi, e questi che chiama ingenerale preti e frati sacerdoti di Satana, lanciossi al collo del predicatore di Marsala, lo abbracciò e baciò come suo carissimo figlio. Fortunatissimo frate!

Uscito di Chiesa Garibaldi dava un giro per Marsala, e per amore del frate che avea predicato alla sua presenza, baciava in volto tutti i preti e tutti i frati in cui s’imbatteva. Anche la politica ha i suoi miracoli strepitosissimi! Urbano Rattazzi venera in Napoli il sangue di S. Gennaro, e offre ricchi presenti al taumaturgo; e Giuseppe Garibaldi in Marsala si fa il segno della croce, adora Gesù in Sacramento, e bacia in volto i preti e i frati, a cui ha giurato ferocissima guerra. Perfino gli empii a suo tempo riconoscono che la pietà è buona a qualche cosa, e che il Clero secolare e regolare può rendere segnalati servigi a chi comanda.

Né qui ebbe termine la divozione di Garibaldi che restato in Marsala nel imitino del 20 di luglio, recossi per prima cosa a visitare la Chiesa di Maria Vergine Immacolata, e volle ascoltare la Santa messa che venne celebrata dal P. Pantaleo. Il quale, com’ebbe finito l’augusto sacrifizio prese a parlare di Roma e di Venezia, e invitò Garibaldi ed il Popolo a proferire davanti all’altare il giuramento di un nuovo programma compendiato nel grido; Roma o morte. E Roma o morie, esclamò Garibaldi; e Roma o morte, ripetè il popolo.

Le parole. Fuori della chiesa Garibaldi spiegò il programma e commentò il giuramento. Il governo di Torino che permette a Garibaldi i suoi discorsi, e non ne impedisce la stampa in Sicilia, ne sequestra la ristampa nel resto d’Italia. Di che noi dobbiamo restringerci ad alcuni tratti del discorso di Garibaldi a Marsala.

«Son passati due anni, diceva, che toccai questa terra coi mille prodi che mi accompagnavano. Voi ci accoglieste festosi e veramente festosi, ederan momenti di pericolo e di vero pericolo. Allora eravam pochi, i nostri nemici molti; perciò eran momenti di gran pericolo, ma voi ci accoglieste festosamente, ed io lo ricordo.

Quest’accoglienza ci fu di augurio, e nessun paese ne potrà togliere la gloria a Marsala. – Noi eravamo pochi, il nemico contava un’armata di 128 mila uomini,

(2) Vedi Armonia 1861, Numeri 83, 112; 120, 251.

– 26 –

avea una squadra imponente ed era riconosciuto da tutta Europa (1). Ma noi qui ci ritemprammo, e forti nelle nostre aspirazioni sfidammo i tiranni e li sperdemmo; e furono liberi undici milioni di fratelli. – Allora sfidammo, ora sfidiamo. – Da Marsala esordì il generoso grido. di libertà, e questo grido valse a rendere indipendenti 25 milioni d’uomini. – Quello che sin oggi è stato un voto, dovrà essere un fatto. Ora siamo 25 milioni d’uomini, e tutti abbiamo un solo voto, e questo voto ve lo dirò io qual è – Roma e Venezia: sciogliere dal vile servaggio i nostri fratelli. Questo scopo deve ottenersi, perché siam forti ed uniti. L’Italia ha le cento volte domandata la sua Roma con reiterate proteste, con dimostrazioni pacifiche ed inermi; ma le si è risposto con sotterfugi, cabale e menzogne. Oggi le menzogne devon cessare, e poiché non son valsi i pacifici mezzi, che valgano le armi.

«Non è più tempo di soffrire lo straniero sul suolo italiano, ed il servaggio di una parte dei nostri fratelli. Questa vergogna non può l’Italia tollerare. È vergogna per 25 milioni d’Italiani, e questa deve cessare, e cessare fra giorni.

– Sì, Roma è nostra – (voci del popolo: nostra, nostra) O Roma o morte – (o Roma o morte). – Da Marsala sorse il grido di libertà, ed ora sorga il grido

– O Roma o morte – (Sì, o Roma o morte). – E questo grido risuonerà non solo nella Penisola, ma troverà un’eco in tutta Europa, ovunque il nome di libertà non fu profanato. Noi non vogliamo l’altrui, ma vogliamo quel ch’è nostro, sì, il nostro, Roma è nostra – o Roma o morte – (Si, Roma o morte).

«Non mi resta che ringraziarvi, o generosi Marsalesi, e lo faccio con vera emozione, perché conosco i vostri cuori. – Addio, Marsalesi. lo vi saluto, grazie – io vi saluto. Addio. – Vi saluto a nome mio e di tutta la Penisola, addio i, e il grido di a Roma o morte» fu ripetuto furiosamente più volte dal popolo; quel grido divenne pei Marsalesi il nuovo programma, che aggiunsero all’antico a Italia e Vittorio Emanuele» . Il generale ritiravasi; ma era impossibile pel popolo il lasciarlo; nuove acclamazioni, nuovi giuramenti di « Roma o morte» lo chiamarono nuovamente a parlare. «Sì, Roma o morte!! (voci: Roma o morte). Questa è una parola che peserà più sulla bilancia della diplomazia, che le preghiere. Siamo stufi di pregare… Napoleone sappia una volta e per, sempre che Roma e Venezia sono nostre, nostri sono i fratelli di Roma e Venezia.

«Niuno v’inganni con dirvi che dobbiamo gratitudine al… della Francia, la dobbiamo bensì al popolo francese. Sì, il popolo francese è con noi, ed è nostro fratello, però geme… e anela la libertà. Napoleone è un… un… un Egli non fece la guerra del 59 per l’Italia, ma lavorò per se stesso. Noi gli demmo il nostro sangue nella guerra della Crimea, gli pagammo 60 milioni, gli demmo in gola Savoia e Nizza, e voleva altro, lo so io! Egli ha lavorato per ingrandire la sua famiglia, ha pronti un principino per Roma, un signorino per Napoli, e così via via, lo so io!! Egli ci voleva sudditi.

– N… dell’Italia, ha mantenuto il brigantaggio a danno delle provincie di Napoli, con scandalo di Europa, credendo cosi snervare l’unione di 25 milioni d’italiani… Non abbiamo bisogno di preghiere, il popolo francese è con noi.

(1) Garibaldi capisce che i riconoscimenti servono a poco!

– 27 –

– Napoleone Roma è nostra (nostra, nostra). Sono felice trovarmi oggi con voi, popolo, a cui io sono amico giustamente. Addio».

Raccontati i fatti e riferite le parole tocca a noi esaminare il nuovo programma di Garibaldi intitolato: Roma o morte. Prima di Garibaldi l ‘Armonia ha mandato fuori questo grido, e sono tredici anni! Chi conserva la collezione del nostro giornale, pigli il N° 19 del 13 di febbraio 1850, e vi troverà un articolo intitolato Roma o la morte, il quale si chiude colle seguenti parole: «Ci pensino i veri cattolici, e sopratutto i Regnanti, i grandi, i nobili, i proprietari: sono due sole strade da battere. La scelta è tra Roma per l’unità cattolica e la morte pel trionfo delle eresie. Con quella si combatte per la vera libertà, e con queste per la più umiliante servitù». E prima dell’Armonia l’ab. Martinet «gettando uno sguardo sull’avvenire, vi avea letto queste parole: Roma ornarle (1)». Laonde noi siamo ben lungi dal rigettare il programma di Garibaldi. Esso ha un senso verissimo, e mentre egli giurò e fé giurare Roma o morte per dire che gl’Italiani debbono togliere Roma al Papa o morire, noi affermiamo per converso che il gran problema mondiale è oggidì riassunto in questi termini: O Roma pontificale o la morte, e lo sfasciamento dell’universo.

E ci sembra utile di stenderci alquanto sull’esame di questa dolorosa alternativa. La questione romana è questione di vita o di morte per tutti. Pei Principi e pei sudditi, per la società politica e per la religiosa. O Roma cattolica, o la morte dei popoli, che è il dispotismo; o Roma di Pio IX, o la morte de’ governi che è la rivoluzione. O Roma pontificale, o la morte della scienza, la morte dell’autorità, la morte della civiltà, della carità, della famiglia. O Roma e il regno di Dio, o la morte e il regno di Satana, o Roma di Pietro che è la verità, o la morte delle intelligenze che è il dubbio, la confusione e lo scetticismo. O Roma cristiana, o il ritorno al paganesimo colle sue tirannie e colle sue barbare istituzioni. O il Papa Re colla libertà cristiana, con quella libertà che è il patrimonio dei figliuoli di Dio, o il predominio della forza brutale, di quella l’orza che lo stesso Garibaldi giorni sono divinizzava dicendo alle deputazioni delle società operaie di Siracusa, di Misilmeri e di Palermo: «persuadetevi, la forza del diritto sta nel diritto della forza».

E tutti sentono il gran dilemma: o Roma o morte. Lo sente la Francia napoleonica, e si sforza di fermare la rivoluzione alle porte di Roma. Lo sente la Russia scismatica, e riconoscendo il regno d’Italia ci ha posto la condizione che non si tocchi Roma. Lo sente la Prussia protestante, e il signor Bernstorff, ministro degli affari esteri, impone al gabinetto di Torino di rispettare la città de’ Pontefici. Lo sentono il Guizot, i Leo, i Normanby quantunque fuori della Chiesa, e difendono il Papa colla penna e colla parola. Lo sentono i Vescovi che si stringono concordi intorno al Papa, e i fedeli che accorrono a combattere per lui, e i ricchi che gli fan parte delle loro ricchezze. Lo sentono gli stessi rivoluzionari che non osano andare a Roma, perché sono sicuri di trovarvi la morte.

Adolfo Tbiers, tempo fa, rassomigliava Roma papale ad un cibo, e famigliarmente diceva che quanti ne mangiarono tutti morirono. E insistendo su questo parlar figuralo si possono rivolgere a chi odia il dominio temporale del Papa le parole di Dio ad Adamo:

(1) Solution de grands problèms, Tom. III , pag. 3.

– 28 –

Quocumque die comederis ex eo morte morieris. Il serpente della rivoluzione pretende smentire la minaccia divina e soggiunge: non morieris, sed vives, ma la storia di dodici secoli protesta concorde contro questa vana lusinga, e scrive in tutte le sue pagine ad ammaestramento de’ popoli e de’ governi: O rispettate Roma, o morrete.

Noi ci proponiamo di svolgere questi tre punti 1° Che la caduta di Roma pontificale sarebbe la morte dell’Italia, anche di quell’Italia che venne raffazzonata presentemente; 2° Che la caduta di Roma pontificale sarebbe la morte dell’impero francese e di tutti i governi d’Europa; 3° Che la caduta di Roma pontificale sarebbe la morte d’ogni civiltà, d’ogni libertà, d’ogni diritto, e introdurrebbe nel mondo la più feroce barbarie.

II.

Garibaldi disse il vero: Roma o morte. O Roma con Pio IX Pontefice e Re, o morte dell’Italia, morte dei governi, morte della civiltà; o Roma con Pio IX, o l’Italia diverrà un deserto come fin dal 1849 pronunziava il deputato Mellana, l’Europa sarà preda continua delle rivoluzioni, e avremo un’inondazione di barbari mille volte peggiori degli antichi che ascoltavano almeno la voce de’ Papi, e davano indietro.

Roma papale o la morte d’Italia. Chi fu il creatore del genio italico? Il Papa, e lo confessò Gioberti. Di chi è opera la civiltà italiana? « È in gran parte opera dei Papi», e lo scrisse il Galeotti, deputato italianissimo. Perché Roma esiste? Pei Papi, e lo proclamò il Muller protestante. Chi fa vivere Roma? Il Papa, e Io scrisse Gibbon incredulo. Togliete il Papa-Re, e distruggerete Roma, distruggerete l’Italia. Ogni gloria di Roma dopo Cristo è congiunta al Papato, e ogni gloria d’Italia nasce dall’aver per centro Roma. Senza il Papa-Re l’Italia è l’ultima delle nazioni, meno forte della Francia, meno industriosa dell’Inghilterra, meno dotta della Germania, meno pia della Spagna. Col Papa-Re Francia, Spagna, Germania, e tutto il mondo s’inchinano davanti all’Italia.

La caduta del Papa-Re sarebbe la morte dell’italica indipendenza, perché il Papato è «il primo e il più imperturbabile difensore della libertà d’Italia v, come disse Cesare Balbo. Sarebbe la morte dell’italiana letteratura, perché e il Cantùe il Denina vi attestano quanto debbano a’ Papi le lettere italiane, a’Papi che il deputato Galeotti chiamò custodi dell’antica sapienza. Sarebbe la morte delle belle arti, sempre sostenute, sempre protette da’ Papi. Qual è l’artista che non abbia avuto a Roma un’ispirazione, e da un Papa qualche incoraggiamento e sussidio? Sono mille cinquecent’anni, scriveva Chateaubriand, che la Chiesa protegge le scienze e le arti, e il suo zelo non fallì mai in verun tempo.

Noi potremmo su quest’argomento scrivere un volume pieno di fatti e di citazioni; ma non vogliamo far pompa di facile erudizione. Piuttosto ricorderemo agli stessi rivoluzionari, che cospirano contro loro medesimi, quando s’avventano contro Roma papale. Se la nuova Italia sta, è perché non si toccò ancor Roma, e Pio IX siede tuttavia in Vaticano. Se il regnante Pontefice fosse utilitario in politica, se potesse muoversi per ispirilo di vendetta e godere la volontà che l’odio assapora nella rovina de’ proprii emuli, egli a quest’ora avrebbe ceduto Roma.

– 29 –

Così l’Europa vedrebbe il gran vuoto, sentirebbe l’estremo bisogno del Papa-Re, e si saria già mossa a ristorarlo.

Dall’altra parte colla caduta di Roma papale cesserebbe quel comune interesse che lega i rivoluzionari, ed essi, abbandonati alle loro passioni ferocissime, si sbranerebbero a vicenda. Non vedete come s’addentano, quantunque circondati da nemici e in mezzo a pericoli? Che sarebbe, se avessero il Campidoglio da disputarsi? Si accapigliano per comandare a Torino, e che non farebbero per conseguire l’Impero di Roma? senza Roma papale sorgerebbe in Italia la ghigliottina, andrebbero in fumo i patti stretti tra le cento sètte dei ribelli, e avremmo il novantatrè peggiore del primo vaticinato dalla Gazzetta del Popolo.

Dunque, o Roma di Pio IX, o la morte non solo della vera Italia, dell’Italia cattolica, dell’Italia dotta, dell’Italia artistica, dell’Italia dei nostri padri, ma eziandio la morte dell’Italia nuova, dell’Italia dei plebisciti, dell’Italia rivoluzionaria, come si suoi chiamare nel nostro Parlamento; la lotta fratricida tra le diverse città italiane, un duello all’ultimo sangue tra Rattazzi e Garibaldi, tra Durando e Mazzini; e il termine di quella superficiale unanimità che tanto si decanta, e la quale non è che un silenzioso aspettare di tutti i partiti che diffidano del presente, e sperano nell’avvenire.

Roma papale o la morte di ogni governo. Non v’è governo né così antico, nò così legittimo come quello di Pio IX. Se questo cade, qual altro resterà in piedi? Sarà più sicuro l’impero del Bonaparte? Esso e il colosso di Rodi: ha un piede a Torino, un altro a Roma, e si sostiene colla rivoluzione e col cattolicismo. Caduta Roma, Napoleone III perde ogni sembianza cattolica. I suoi popoli lo conoscono, e lo giudicano; e i rivoluzionari gli dicono che se non vollero il Papa, non possono nemmeno soffrire l’imperatore.

Abbiamo noi un deputato che prima di parlar nella Camera e d’insegnare nell’Università di Torino ha scritto parecchi libri, ed uno intitolato: La federazione repubblicana dei popoli. Si è questi Giuseppe Ferrari, il quale sentenziò: «II Cristo, Cesare, il Papa, l’Imperatore, ecco le quattro pietre sepolcrali della libertà italiana». Ed altrove: «L’Europa ha intimato a Roma una guerra di religione, né potremmo avanzare di un passo senza rovesciare la croce» . E la croce sta sul diadema dei Re, onde il Ferrari dice delle rivoluzioni: non sono che guerre contro il Cristo e contro Cesare». E più innanzi: «Chi lavora pei Re, lavora alla restaurazione della Chiesa, alla schiavita dell’Italia (1)». Ecco il vero programma rivoluzionario. Per ora non si bada che ad atterrare il dominio temporale del Papa. Questa è la prima vittima da immolarsi, secondo la frase di Condorcet. Lasciate che cada Roma papale, e tutti gli altri Sovrani cadranno con lei; e primi quelli che sono rivoluzionari a mezzo.

Pio IX è oggidì l’unico propugnacolo dei governi e delle monarchie. Queste ingratamente abbandonano chi le difende, e scioccamente riconoscono chi le ruina e le perseguita. Ma fate che la rivoluzione vada innanzi, che consumi l’opera sua, che atterri Roma papale, e allora tolto il fondamento, vedrete crollare tutto l’edifizio europeo, e avverarsi la sentenza di Garibaldi, Roma morte.

Pensino i Sovrani che ogni suddito che sfugge al Papa diventa, perciò solo,

(1) La federazioni ecc. cap. II, cap. XII, cap.I.

– 32 –

verno di Torino ad una questione di opportunità. Garibaldi ha torto, perché il momento non è opportuno. Se domani si potrà spogliare il Papa impunemente, allora Garibaldi avrà ragione, e le sue impazienze diventerebbero eroiche, quando riuscissero a buon termine come la spedizione della Sicilia nel maggio del 1860.

I Garibaldini si offesero dell’aggiunto di colpevoli apposto alle impazienze dell’eroe, li Diritto ne mosse aspra lagnanza, e la Discussione non tardò ad apporre un errata-corrige al proclama, dichiarando che le impazienze erano invece generose. E dal giornalismo la questione passò alla Camera elettiva, e il 6 di agosto il deputato Saffi tolse a difendere le impazienze colle seguenti parole:

«Nazione ed esercito intendono allo stesso fine: vogliono che il diritto italiano non rimanga una vana parola, ma diventi una realtà; vogliono compiere l’ordine delle cose iniziato con tanti sacrifici, compierlo col suggello dell’unità di Roma

«Se vi hanno impazienze, proteste, moti sempre più concitati nel paese contro l’intervento straniero, contro l’indegno arbitrio che ci contende la nostra capitale, che ci espone all’anarchia, che c’impedisce ogni interno ordinamento, e che offende tutti i principii, tutte le necessità della nostra vita civile e politica; se vi hanno proteste contro questo fatto barbaro, impossibile ormai nella civiltà del secolo decimonono-queste proteste, queste impazienze non sono colpevoli, sono generose (Benissimo). Dirò di più: esse sono un dovere; e provano che il popolo italiano vive ed è degno di vivere (Bene); provano che il popolo italiano non si rassegna codardamente alla ingiustizia ed alla vergogna (Benissimo).

A queste impazienze, a queste proteste, voi, o signori ministri -lo dico con profondo convincimento non potete resistere.

Ogni opposizione sarebbe vana, contraria alla natura delle cose. Una forza, maggiore d’ogni resistenza, vi trascina; una forza ineluttabile trascina voi come noi; la forza morale dell’opinione, la forza della vita, contro la quale il lottare è follia. Questa forza immortale, repressa oggi, risorgerebbe più potente domani.

«Voi potete avvantaggiarvi degl’impeti magnanimi della nazione; voi potete farne virtù ed arme a vincere la gran causa contro l’arbitrio straniero.

«Questo grande sollevamento dell’antica natura italiana in nome dei principii che informano la nostra causa e il nostro diritto, è il più potente argomento di cui possiate valervi contro quelle ingerenze straniere che vietano a noi ed a voi di compiere i destini del paese. Proclamate all’Europa la suprema urgenza, che la volontà dell’Italia s’adempia; ed accingetevi all’opra. Questo è il vostro dovere; questo è il dovere di un governo veramente nazionale. Saprete voi compierlo? Badate che, nel vostro interesse come nel nostro, non v’è tempo da perdere. Non v’illudete; l’unità d’Italia in Roma è la legge dei tempi, è l’opera impreteribile della nostra giornata. Giornata solenne per l’Italia e pel mondo! giornata che consacra lo scioglimento di uno dei più grandi problemi dell’umanità: il problema della libertà civile, della libertà religiosa, della libertà politica delle genti».

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa/vol_02_01_margotti_memorie_per_la_storia_dei_nostri_tempi_1865.html#Abbiamo

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.