STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI VOL. V (II)
UN DOCUMENTO SULLE FINANZE DEL REGNO D’ITALIA (Pubblicato il 25 febbraio 1863)
Il tesoro del regno d’Italia vive a forza di tratte su Parigi, anche a lunga scadenza e talvolta per somme piccolissime. Così governava l’ex-ministro Sella, e così governa il ministro Minghetti. La Gazzetta Ufficiate e l’Opinione negarono, ma il Diritto del 24 di febbraio pubblica una di queste cambiali che sta nelle mani d’un banchiere di Milano. Ecco il preziosissimo documento nella sua vera forma.
(1) Minghetti ha detto spaventosa, ma poi ha fatto ristampare grave.
– 131 –
Riferito questo documento il Diritto soggiunge: «Vogliamo credere che l’Opinione arrossirà, come abbiamo arrossito poi, quantunque non amici degli uomini che con tanta dignità e sapienza ci governano, vedendo che il Tesoro italiano vive emettendo cambiali per somme meschine a quattro mesi di data, come non osano fare negozianti, i quali sono gelosi del credito loro, cambiali poi, le quali, rilasciate, come accadde di quella or da noi riprodotta, a cose rispettabilissime sì, ma non di primissimo ordine, non possono sottrarsi a tutti gl’inconvenienti della libera circolazione, quello compreso di capitare sotto gli occhiali indiscreti di chi scrive il Diritto. Pongasi poi speciale avvertenza ali. data della tratta da noi superiormente trascritta.
«Questo curioso documento, che non ha i requisiti voluti dalla legge par essere un buono del tesoro, che ha esplicitamente il nome di lettera di cambio, e che sostituisce le parole a favore alle parole all’ordine indispensabili nei titoli cambiarii, ha la data del 23 gennaio. Veniva cioè creato né più, ne meno che tre soli giorni dopo che la Gazzetta Ufficiale aveva assicurato che il ministro Minghetti aveva troncato un somigliante sistema. Pare dunque che il signor ministro o non abbia saputo tutto, od abbia creduto che bastasse impedire l’abuso, che facevasi della firma del ministro Nigra, Comunque sia, è certo, e l’Opinione non ce lo vorrà sicuramente negare, che anche il sistema, contro il quale qui protestiamo, à sommamente biasimevola e indegno della nostra dignità nazionale, di cui il governo, trattandoci di uno Stato nuovo, dovrebbe essere geloso fin anche allo scrupolo, fin anche all’esagerazione. Ed è invece a chi cammina con tanta leggerezza ed opera con tanta sconvenienza, che si dovrebbero dare di fresco settecento milioni! ».
– 132 –
SALVE LUCRO!
(Pubblicato il 6 marzo 1863).
Carlo di Montalembert pubblicava testé nel Correspondant del 25 di febbraio alcune pagine sull’insurrezione polacca, e le conchiudeva manifestando il timore che coloro, i quali disotterreranno dalle rovine della storia i fatti e le gesta de1 tempi nostri, abbiano a giudicarci come quel vile romano, di cui scoprivasi l’anno passato a Pompei la casa sepolta sotto la cenere del Vesuvio. Egli aveva scritto sulla sua soglia queste parole d’una vergognosa eloquenza: Salve lucro, parole che si possono tradurre: Viva il guadagno? Petronio avea già apposto la stessa iscrizione su tutto l’edifizio di Roma pagana, cantando nella sua satira CXIX: Vsnalis populus, venalis curia Patrum.
Il conte di Montalembert parlò di Francia, e noi parleremo d’Italia, dove nacque e dove fu scoperto il salve lucro! Sgraziatamente è questo il più sincero programma politico. L’amor di patria si riduce al guadagno, l’indipendenza al danaro, e l’italianismo alla borsa. Non si cerca di rigenerare il popolo, ma di ingrassare a suo danno; non di onorare il proprio paese, ma di beccarsi uno stipendio; e coll’indipendenza in sulle labbra si piega il collo alla pili ignominiosa schiavitù, quando torna vantaggioso al proprio interesse.
Il turpe lucrum, che fulminava San Paolo, ha invaso ornai tutte le classi. Mancano i deputati nella Camera? E Crispi parla subito d’indennità. Si vogliono sacerdoti liberali? E si dice: pagateli. Si cercano avvocati e difensori? E mettono mano al tesoro. L’oro fa miracoli, esclamò già il conte Ponza di San Martino, quando era ministro dell’interno; e gl’imputati del furto Parodi vennero colti su di un bastimento chiamato Amor di Patria. Essi avevano preso il danaro per andare a Roma e liberarla, come dice la lettera che fu letta ne’ dibattimenti del 2 di marzo, Liberar Roma col danaro, ecco un disegno tutto proprio de’ tempi nostri. Due anni fa volevasi comprar la Venezia; oggi si comprerebbe Roma, se volesse vendersi.
Oh quanti potrebbero scrivere sulla soglia della propria casa l’eloquente epigrafe di Pompei! Voi che ieri eravate un morto di fame, ed ora gavazzate nel. l’oro e nell’argento, e vi vedete intorno i cortigiani umili ed obbedienti inchinarvi ed applaudirvi, fate incidere sul frontone del vostro castello salve lucro. Non viva la libertà, non viva l’Italia, ma viva il guadagno! Poco v’importa adesso che si tiranneggi e si fucili, che le carceri sieno stipate d’innocenti, che il popolo gema sotto una verga di ferro, povero, derelitto, angariato. Siete diventato un gran riccone e basta: salve lucro!
E voi, o frate, voi che ieri peroravate pel dominio temporale del Papa, dicendolo non che utile alla Chiesa, necessario alla sua indipendenza, ed oggi bestemmiale Roma e il suo Pontefice, fate stampare per epigrafe sul vostro giornale: salve lucro. Come Giuda abbandonaste Cristo pei danari della Sinagoga, e sappiamo che ne avete ricevuto ben più di trenta!
– 133 –
Appena Pio IX fu povero, e voi fuggiste dalle sponde del Tevere e veniste su quelle della Dora gridando: mercabimur et lucrum faciemus. Mercanteggeremo la nostra coscienza, venderemo l’anima nostra e faremo largo guadagno. Salve lucro!
E voi o ministri, voi che già prestaste giuramento a Pio IX ed a Francesco II, ed ora godete dell’esilio dell’uno, e cercate di spogliare l’altro anche della sua Roma, scrivete voi pure sul vostro portafoglio: salve lucro! Se domani Francesco II ritornasse ad essere potente, e Pio IX, riavuto il suo, divenisse ricco e potesse largheggiare in retribuzioni, voi mutereste nuovamente registro, infingendovi con brutta ipocrisia come nel 1848. Salve lucro!
Queste parole compendiano certe circolari, certi indirizzi, e certe risposte agl’indirizzi medesimi. Vedete là colui che tenta ghermire una cappa canonicale? Ebbene una volta egli difendeva i diritti della Chiesa, e combatteva le usurpazioni del potere civile, ma oggi all’amor del guadagno ha sacrificato le convinzioni antiche, gli affetti del cuore, i doveri del ministero, e tortora il proprio superiore, e incoraggia i nemici del Pontefice, e applaude i giuseppisti, i febronianisti, i leopoldinisti, perché spera d’avere un canonicato. Salve lucro! E quel Monsignore, tutto azzimato e cascante di vezzi che viene in Torino, e va a picchiare alla porta di Pisanelli, e gli fa le più sperticate riverenze, sapete che cosa porta scritto nel cuore? Ci ha scritto il Salve lucro del pagano di Pompei. Ah! farebbero bene costoro a ricordare il detto di S. Paolo a Timoteo: Non turpe lucrum sectantes. E qual guadagno più turpe di quello che si fa a spese della Chiesa, a danno del sacerdozio, ed in onta al Vicario di Gesù Cristo?
Un giornale di Torino disse, celiando, di fare il barone Rotschild Re d’Italia! Se il gran banchiere pigliasse la corona, vedreste tutti i repubblicani divenire immediatamente monarchici. Anche Mazzini conosce il Salve lucro. Coloro che questo tempo chiameranno antico scopriranno la vergognosa iscrizione, sotto cento disegni repubblicani, sotto mille progetti di leggi, sulla soglia di molte assemblee, di molte radunanze, in fondo a molte votazioni, a molti discorsi, a molte leghe. Negli scavi che faranno i nostri nepoti troveranno trattati colla leggenda: Salve lucro; note diplomatiche coll’epigrafe: Salve lucro; Gabinetti e Camere coll’iscrizione: Salve lucro.
Però per l’onore d’Italia, e dell’umana dignità, vi hanno ancora uomini che sdegnando il brutto interesse, vivono per Cristo, e reputano un gran guadagno il morire per lui. Mihi vivere Christus est, et mori lucrum, ripetono con San Paolo tanti vescovi generosi, che gemono in prigione, ed amano meglio perdere i beni, la libertà, la patria, che inchinarsi ai potenti. Il mondo non li apprezza, perché non li conosce, ma essi sono i veri liberali, e non solo glorificano la Chiesa, sì ancora rendono un segnalato servizio alla patria, e in mezzo alla comune servilità danno esempio di nobile resistenza, e di sublime costanza.
– 134 –
ALTRO DOCUMENTO SULLE FINANZE ITALIANE
(Pubblicato il 7 marzo 1863).
La relazione sulle finanze italiane fatta dal marchese dell’isle al ministro delle finanze francesi è un documento assai prezioso per la storia del governo rivoluzionario italiano. L’autenticità di questo documento non solo non è messa in dubbio, ma è confermata da ciò che i giornali officiosi del governo di Francia dissero, che la pubblicazione del medesimo fu un’imprudenza, e che si era ordinata un’inchiesta per conoscere l’autore di siffatta imprudenza. 1 lettori scorrendo questa relazione conosceranno quanto siano vere le parole del deputato Mugolino, parlando delle esposizioni finanziarie dei nostri ministri: e Io dichiaro francamente, che tutte le volte che ascolto fare delle esposizioni finanziarie, credo di essere sotto l’azione di una lanterna magica (Ilarità)) giacché sono tante e tali le magnifiche previsioni che ci si fanno e che vengono poi seguite dai più dolorosi disinganni; è tanta e tale la mobilita cabalistica delle cifre, che in verità tutti dobbiamo ritenerci come assistenti alle fantasmagorie di una camera ottica (Bravo a sinistra. Ilarità) » (Tornata della Camera dei 27 di febbraio, Atti Ufficiali, N° 1048, pag 1076, col. 2.). Ecco il documento:
Al signor Fould ministro delle finanze a Parigi.
Torino, 5 gennaio 1863.
Dall’assieme dei documenti ufficiali, che con Nota di ieri ebbi l’onore di presentarvi, risulta che l’Italia, secondo i di lei stessi calcoli, si troverà alla fine dell’esercizio corrente in faccia ad un disavanzo di circa 800 milioni di franchi, e che le spese del 1862 non furono meno di 900 milioni.
Valutandosi le entrate effettive di 325 milioni, la spese del solo ministero delle finanze elevandosi a 375 milioni, risulta che non restano che 450 milioni per far fronte a tutti gli altri servigi dello Stato.
Queste cifre potrebbero anche essere discusse; ma io, per eccesso d’imparzialità, le ho accettate come vere, riserbandosi, ben inteso, di rettificar quelle che fossero manifestamente false.
L’Italia, non potendosi consentire un lusso di politica non permesso dal ano stato di finanze, bisognerebbe che cangiasse radicalmente il sistema, a fine di prevenire le cattive conseguenze. Ma siccome essa non farà ciò, bisogna che noi, al presente, cerchiamo di tutelare i nostri interessi, già troppo compromessi con quelli di essa.
Il signor De Sartiges, conforme alle istruzioni particolari di V. E., ha invitato il governo italiano a riorganizzare la sua amministrazione finanziaria, cercando di far produrre alle tasse il più che è possibile, e col ridurre la sua armata e la sua marina in modo da ottenere presso a poco un equilibrio fra i bilanci.
Riguardo al primo punto fu data una risposta piena di promesse quanto al secondo la risposta fu assolutamente negativa.
– 135 –
Si accetta, a parola, che varii abili funzionarii sieno staccati dai diversi nostri uffizi per affidare colà alla riorganizzazione finanziaria; ma, in fatto, è sicuro che non si approfitterà dell’offerta di V. E.
Qui si cerca convincersi, che gl’impiegati italiani sono d’assai superiori ai nostri.
D’altra parte non è tanto necessario invitare il governo a questa riorganizzazione, di cui egli stesso sente tutta l’importanza. L’unità di reggiate è stata praticata in tutto ciò che si poteva. Esso ha la buona volontà di accrescere le imposte esistenti e di crearne delle nuove; ma ciò che il Parlamento accetta, spesso senza marcanteggiare lo rifiutano le popolazioni rurali senza recriminazioni. Elleno si contentano di non pagare e il governo debbe sottostare e questa silenziosa opposizione, perché esso è convinto che se insistesse troppo, la loro apatia politica si converrebbe tosto in ostilità.
D’altra parte che può esigersi da una popolazione, il cui salario giornaliero varia da 60 a 40 e anche a 35 centesimi, come avviene di fatto in alcune località del regno di Napoli?
Ciò potrà col tempo cangiare, ma gli uomini più illuminati, mentre fanno voti per il futuro accrescimento della ricchezza pubblica, son di parere che per molto tempo non è sperabile un notevole aumento di rendita.
La situazione può compendiarsi in due parole: Impossibilità di accrescere al presente le rendite – Nessuna economia – Continuazione ad oltranza di una politica che menerà diritto alla rovina.
La catastrofe è facile a prevedersi. Ella potrà essere ritardata e da imprestiti e da altre combinazioni di una moralità per lo meno dubbia, quali del resto non sembrano spaventare questa gente qui, dappoiché il Sella preoccupandosi di levare 55 milioni dalla imposta sulla rendita, si studiava più ancora di trovarvi delle basi per imprestiti forzati in avvenire.
Speriamo che Minghetti, meno capace, sarà più scrupoloso. Quali sono d’altra parte i mezzi d’evitare gl’imprestiti?
All’infuori dell’esaurita emissione dei beni del tesoro, altro non rimane che la vendita delle strade ferrale dello Stato, dalla quale si spera ricavare un 150 milioni, e la vendita dei beni nazionali, la cui rendita è valutata 12 1|2 milioni.
Ciò sopperirà appena alle spese del 1862.
Si parla anche di vendere i beni della Cassa Ecclesiastica, quelli di mani-morte e dei Comuni.
Ma se la vendita dei beni nazionali va tutta a vantaggio dell’erario, non avverrà altrettanto della vendita di questi ultimi.
Essa non potrà farsi che a titolo oneroso, vale a dire, coll’assegnare ai possessori di questi beni altre rendite.
Così si aggraverà l’avvenire a vantaggio del presente, e la catastrofe anzi che ritardarsi si farà più spaventosa.
E quali sarebbero d’altronde le società di credito fondiario sì azzardose da affrontare una simile intrapresa? L’esempio della Spagna e del Portogallo non è egli recente per farci intravedere i resultati probabili di una simile operazione?
– 136 –
Comunque, sia buona o cattiva, questa combinazione, renderà necessario un avanzo considerevole di fondi; ed è sulla piazza di Parigi, dove direttamente o indirettamente si conta procurarseli.
Si parla tuttodì di formar quadri, di prepararsi contro l’Austria, di creare una potente marina, e si dice sotto voce che l’Italia coi suoi 400 mila soldati potrà imporsi come mediatrice armata, se non come arbitra, alla prima rottura fra le grandi Potenze. Questi sono sogni di cervelli malati; ma le folli idee possono condurre a folli azioni, e le allucinazioni malsane sono meno a temersi altrove che qua, ove le popolazioni hanno del buon senso, ma allo stesso tempo una profonda indifferenza per tutto ciò che non tocca palesemente i loro interessi materiali.
Sarebbe una temerità, signor ministro, voler segnalare l’avvenire di una tale situazione; pure permettetemi dirvene qualche cosa.
Avanti le annessioni i fondi del regno di Napoli erano talmente elevati, che non venivano punto cercati dai piccoli capitalisti francesi. I fondi piemontesi, emessi in saggie proporzioni, avevano ugualmente una ristretta circolazione. Ma, a partire specialmente dall’imprestito Bastogi, i fondi italiani furono tanto ricercati in Francia, a ragione del loro basso prezzo, che non dubito dire che 8|10 almeno di questo prestito sono tra le mani dei nostri nazionali.
Il prezzo delle partite indica abbastanza in quali mani esse si trovino collocate.
Se la situazione deve riuscire infallibilmente ad una liquidazione disastrosa, che noi non possiamo prevenire, procuriamo almeno che non ricada tutta intiera a nostro carico. I grossi capitalisti sanno difendersi; ma non avviene lo stesso dei piccoli, dei quali lo Stato ha la tutela, e converrebbe, io credo, come provvedimento efficace che il governo dell’Imperatore chiudesse i mercati francesi a tutti i valori italiani tanto delle sue compagnie di strade ferrate, quanto delle sue compagnie fondiarie e dei suoi imprestiti, di cui uno, checché ne dica il signor Minghetti, mi pare imminente.
Vogliate aggredire, ecc.
E. DE L’ISLE
COME A DETTA DI MARCO MINGHETTI
LA MORTE TRONCASSE I DISEGNI DEL CONTE DI CAVOUR
CONTRO IL PAPA
(Pubblicato il 21 giugno 1863).
Dagli Atti Ufficiali della Camera, tornata del 17 di giugno, leviamo ciò che Marco Minghetti, presidente del Consiglio dei ministri, disse dei disegni del conte di Cavour per andare a Roma, disegni che vennero troncati a mezzo dalla morte inesorabile. Dopo d’avere parlato delle trattative del conte di Cavour coll’imperatore Napoleone 1Il, Minghetti proseguiva cosi:
– 137 –
«II conte di Cavour era con queste trattative così progredito che, sebbene rimanessero difficoltà a sciogliere, non esitò a dire che se la morte non avesse troncato così immaturamente i suoi giorni, è probabile che non sarebbe passato guari tempo che un trattato sarebbe stato segnato tra la Francia e l’Italia su questo argomento.
« Capone. È verissimo.
« Presidente del Consiglio. Le basi di questo trattato erano già formulate in quattro articoli.
«In virtù del 1° articolo la Francia pel principio del non intervento prendeva l’assunto di sgombrare entro un determinato termine dal territorio romano; col 2° l’Italia assumeva verso la Francia l’impegno formale di non attaccare il territorio medesimo, e di non permettere che bande armate di qualsivoglia genere l’aggredissero; il 3° ed il 4° articolo regolavano le modalità del debito pubblico e. delle truppe pontificie. Tale era lo stato di cose quando il conte di Cavour moriva. L’imperatore dei Francesi non credette di ulteriormente continuare quella pratica, ma il senso delle medesime traspare in un documento che l’onorevole Bon-Compagni citava l’altro giorno. In esso l’imperatore dei Francesi diceva che, riconoscendo il Regno d’Italia, non ritirerebbe da Roma le sue truppe, se non ad una di queste due condizioni: o che vi fosse riconciliazione tra il Papato e il regno d’Italia, o che fosse guarentito che il territorio pontificio, da cui le truppe francesi avrebbero sgombrato, non sarebbe assalito ne da esercito regolare, né da bande irregolari.
«E qui per amore di verità debbo dire che il concetto della riconciliazione fu sempre quello che più vagheggiò l’Imperatore. Infatti, nella famosa lettera da lui diretta al suo ministro Thouvenel il 20 maggio 1862, egli parte da questo punto di vista coll’intento di giungere nel più breve tempo possibile alla soluzione della questione romana.
Io dichiaro alla Camera che se avessi avuto l’onore di sedere nei Consigli della Corona quando l’imperatore Napoleone scrisse quella lettera, non avrei esitato un momento ad accettarla come punto di partenza di negoziati; l’avrei accettata perché, sebbene là entro si fosse adombrato un progetto di autonomia municipale romana sotto l’alto dominio pontificio, nondimeno l’Imperatore dichiarava nettamente che non intendeva d’imporre con ciò un ultimatum ad alcuna delle parti, ma inoltre stabiliva chiaramente due principii, quello della partenza delle truppe francesi, e quello del consenso libero dei Romani a quel governo che avrebbe dovuto reggerli.
«Io ripeto schiettamente che avrei eccettato quel punto di partenza, che il ministero dell’onorevole Rattazzi non credette di accettare (Sensazione}.
«Rattazzi. Non è vero».
– 138 –
LE MEDITAZIONI DI MARCO MINGHETTI
PRESIDENTE DEL REGNO D’ITALIA
(Pubblicato li 19 e 20 agosto 1863).
I.
Marco Minghetti il 17 di agosto ritornava nella Capitale provvisoria del regno d’Italia, dopo di avere passato un otto giorni nella sua campagna presso Bologna. Grazio Fiacco dicea beato colui qui procul negotiis, ut prisca gens mortalium, paterna rura bobus exercet suis. Ma questa” beati tudi ne non potò godere il nostro Marco. Non sappiamo se fosse paterna la campagna, dove recossi a villeggiare, questo sappiamo che non potò andarvi solutus omni fenore. Come che avesse appeso il portafoglio alla campanella dell’uscio, ed affidata l’amministrazione delle finanze ad Ubaldino Peruzzi, tuttavia Marco portò con sé i dolorosi pensieri, e negli ozi apparenti della campagna meditava sui proprii pasticci. Tutto parlavagli di politica, ed egli stesso ieri lo confessò ad un amico. Un cavolo gli richiamava a memoria un deputato ministeriale, uno spinato gli rappresentava il suo ministero, una carota gli articoli dell’ Opinione e della Stampa, ed una zucca gli dicea in sua loquela: – Marco, Marco, ciò che nasce repentinamente muore in un attimo, e un po’ di vento basta a disseccare le piante che non gettarono profonde radici. –
Noi abbiamo potuto conoscere le meditazioni di Marco Minghetti negli otto giorni, che passò in campagna. Esse raggiraronsi tutte su gli ultimi avvenimenti, e sulle presenti condizioni d’Italia. Marco discorreva con se stesso, come il Gripo di Plauto, e le sue meditazioni avevano dodici punti! Quando pensava all’esterno, e quando all’interno della sua povera Italia; e Marco all’ombra dell’eloquentissima zucca piangeva sul presente e tremava per l’avvenire. Noi riferiremo i suoi dodici soliloquii. L’uno riguarda la solitudine italiana, l’altro la moltitudine brigantesca. Sir Hudson che parte, e sir Elliot che arriva; Pietrarsa, e il socialismo in Napoli; gli amori di Francia e d’Austria, e le rapine e il comunismo in Sicilia; il congresso di Francoforte, e le finanze italiane; il nuovo impero austriaco nel Messico, e il Danaro di San Pietro; l’assemblea di Malines, e la babilonia italianissima, erano gli altri punti delle meditazioni del Minghetti, che disperato fuggì la solitudine, tanto gravi pensieri lo tormentavano. Povero Marco! Il giorno prima di partire scriveva:
Solo e pensoso i più deserti campi
Vo misurando a passi tardi e lenti.
E ben n’avea ragione. La solitudine sua gli rendeva un’immagine della solitudine italianissima. O Marco, diceva a se stesso il Minghetti, o Marco, il povero regno che presiedi è lasciato solo in Europa! Il suo isolamento incominciò dal giorno in cui quel bimbo di Visconti-Venosta protestava: isolati mai! Non c’è un cane che pensi a noi, o a noi ricorra. Speravamo di sederci al banchetto delle nazioni, e di pesare nelle bilancio del così detto equilibrio europeo, ma il mondo politico fa i fatti suoi, e ci lascia in un canto.
– 139 –
O Marco, l’antico Piemonte contava assai più del presente regno d’Italia. Abbiamo trecentomila soldati, siamo ventidue milioni, parliamo sempre, e non ci curano! Questa è la disgrazia più terribile che ci potesse incogliere. E perché non ci curano? Forse perché non si fidano di noi, né della nostra parola, né della nostra forza, né della nostra vita! Ah me infelice! Infelicissimi noi!
Equi, dopo aver mandato un profondo sospiro, Marco Minghetti si tacque. Ma il suo pensiero sorvolò ben presto sui briganti. Cani di briganti, riprese Marco; più se ne fucilano e più ne nascono. Sono tre anni che noi cerchiamo di estirpare il brigantaggio, e pare invece che noi seminiamo briganti. E possiamo mendicare pretesti, e sognare spedizioni, e calunniare Roma, ma è innegabile che questi briganti ci danno addosso, e gettano un po’ di ombra sulla grandezza, sulla solennità del plebiscito. Se nel Congresso di Parigi si fosse potuto arrecare a carico del Papa e degli altri governi un centesimo solo dei fatti briganteschi che oggidì avvengono a Napoli, che non avrebbero detto Walewski, Clarendon e Cavour? Oh il brigantaggio dee proprio cessare, cessare a qualunque costo, s’avesse anche a distruggere Napoli istessa.
Sul quale proposito Marco Minghetti si risovveniva che in quell’istesso momento il cavaliere Felice Cardon era in viaggio, incaricato di studiare le varie isole del Tirreno e le isole minori della Sardegna, per veder dove potesse stabilirsi il domicilio coatto, stabilito dall’articolo 5° della legge sul brigantaggio, testò votata dal Parlamento. E Marco faceva voti, perché il cavaliere Felice felicemente riuscisse nelle sue investigazioni, e trovasse un’isola dove stipare i briganti, i sospetti di brigantaggio ed i loro amici e parenti. Ma temea forte che una isola così grande potesse difficilmente trovarsi nel mare Tirreno, e pensava di chiederne una all’America. E poi diceva Marco: ma se quando era brigante io, o sospetto di brigantaggio, il Papa mi avesse rilegato in un’isola, il mondo civile che non avrebbe egli detto ‘f Ed il mondo civile non dirà nulla di Marco, che dopo un plebiscito crede necessario di deportare in massa la unanime plebe? Basta, pensiamo ad altro.
E rapprcsentaronsi alla fantasia di Marco Minghetti due inglesi, sir Hudson che partiva da Torino e sir Elliot die vi arrivava. Che diascolo, dicea Marco, che diascolo fa il conte Russell? Sir Hudson era il nostro buon amico, e cel toglie? A chi ricorreremo per aiuto e per consiglio? Sir Elliot! Ma questi fu alla Corte di Francesco II; ha visto come governava il re di Napoli e vedrà come governiamo noi. Ah! Marco, Marco, tutte lo tegole ti cadono sul capo, e ci mancava ancor questa, che il conte Russell ti levasse il tuo Hudson!.. Elliot… Russell… Hudson… e Marco sopraffatto dal dolore gettossi come Titiro sub tegmine fagi, tentando se gli riuscisse di poter velare gli occhi ad un po’ di sonno.
Ma mentre cominciava a dormire prese a sognare l’ammutinamento degli operai di Pietrarsa, e gli apparvero le ombre di coloro che caddero morti sotto le palle italiane. E non erano briganti, no: erano cittadini fedeli, come li chiama la Discussione del 17 di agosto. Agosto fatale! gridava nel sonno Marco Minghetti: Nel 1862, fu sparso il sangue dei Garibaldini, e nel 1863 il sangue dei cittadini fedeli!… Tuttavia perché si ammutinarono?
– 140 –
La legge vuol essere rispettata. (Ferdinando II dicea lo stesso). – E siccome il nostro Marco non è un’oca, e sa ciò che bolle nella pentola, prese a riflettere tra so e sé, che quanti nel regno di Napoli non appartenevano al brigantaggio erano lancio spezzate del socialismo, e tra briganti e socialisti non sapea a chi dare la preferenza. E quasi quasi Marco si consolava che a Napoli ci fossero i reazionari, perché altrimenti ci sarebbero i rivoltosi, cento volte peggiori di quelli.
Mentre però si appigliava a questo conforto, eccoti Marco rivolgere gli occhi all’Austria ed alla Francia che fanno all’amore. La Francia è mia sposa, dicea Marco; il conte di Cavour ha stretto gli sponsali a Plombières, s’è celebrato il matrimonio a Magenta ed a Solferino, e le abbiamo fatto i regali di nozze, dandole Nizza e la Savoia. Ed ora la Francia va coll’Austriaco? E si mostra più amica del Tedesco che dell’Italiano? E mentre non si cura di noi, si profonde in riverenze verso l’Imperatore? Oh ingrata! oh crudele!
Chi sa che voglia dir gelosia può di leggieri immaginare lo strazio ed il livore di Marco! La sua Gazzetta di Torino ha scritto: «L’Austria sembra pigliar ora nuova e quasi insperata importanza nei consigli dell’Europa e stringere colla Francia un’alleanza, che gl’interessi d’Italia non può certo giovare». Questo è in parte il pensiero di Marco. Egli vuoi dire a Napoleone III, che, se ha in mente di unirsi coll’Austria, restituisca prima Nizza e Savoia. Finché il Bonaparte nega a Marco Roma e Venezia, pazienza, ma collegarsi col nostro eterno nemico, è cosa intollerabile, e Marco non la può digerire. Egli si sente nell’anima tale e tanta rabbia, che, giungendo il 17 agosto in Torino, sfogavasi cantando:
Che sia la gelosia
Un gelo in mezzo al fuoco
È ver, ma questo è poco;
È il più crudel tormento
D’un cuor che s’innamora,
Ma questo è poco ancora.
Io nel mio cuor lo sento,
Ma non lo so spiegar.
Diremo domani delle altre meditazioni di Marco Minghetti. Per oggi basti l’aggiungere ch’egli mandò a supplicare Dettino Ricasoli di venire a Torino per dargli un colpo di mano. Ma il Ricasoli si scusò dicendo che non ci vede, ed ha risposto quel testo dell’Evangelio, che se un cieco conduce un altro cieco, amendue cadono nella fossa.
II.
Marco Minghelti nel silenzio della sua campagna meditò sulle finanze italiane e sul Danaro di S. Pietro. I settecento milioni d’imprestito si van consumando, lo rendite dello Stalo diminuiscono oltre ogni previsione, crescono le spese straordinarie, e i tuoi calcoli, o Marco, se ne vanno in fumo! Pera, diceva Marco, pera quel giorno in cui ho promesso di ristorare le finanze! S’è stabilita, è vero, qualche nuova imposta, imposta gravissima pei contribuenti che debbono pagarla, ma nulla pel vantaggio che ne torna all’erario.
– 141 –
E poi se l’imposta fa crescere le rendite come cinque, le spese aumentano nello stesso tempo come venti! Ed io debbo ristorare queste finanze maledette? E n’ho dato la mia parola d’onore?
Oh fu grande davvero la mia pazzia I Ma mi conforta il pensare che la ristorazione delle finanze l’ho promessa pel 1867, e forse prima di quell’anno sarà venuto taluno a levarmi d’impiccio.
E mentre il Minghetti veniva consolandosi con questa speranza, le sue riflessioni corsero sul Danaro dì S. Pietro, di cui l’ Armonia avea annunziato una spedizione a Roma. E Marco diceva nel suo cuore, sperando che nessuno potesse udirlo: Confessiamolo schiettamente; questo Danaro di S. Pietro, è un gran fatto. Possiamo uscircene pel rotto della maglia e ipocritamente compiangere, che duecento milioni di cattolici abbiano dato soltanto trentadue milioni di lire; ma non di meno questi trentadue milioni sono un gran che. Qual Principe, povero e spogliato, otterrebbe da’ suoi trentadue milioni? Quanti ne ottenne Napoleone 1 a Sant’Elena, o Luigi Filippo in Inghilterra? E questa strega di Armonia, che sotto gli occhi nostri vien fuori ogni giorno colle sue oblazioni e colle sue proteste, e non cessa mai, e trova sempre offerte da registrare? E questo grande miracolo di Papa, che in mezzo a tanta miseria spende e spande, paga gl’interessi delle sue cedole, sostiene i pubblici officiali che gli serbarono la fede, soccorre poveri, premia artisti, promuove opere grandiose, e trova danari per tutto e per tutti? o Marco, Marco, dov’è ita la tua economia politica! Pio IX che dovrebbe far bancarotta, ha danaro per sè e per gli altri, e gli italianissimi che dovrebbero sovrabbondare di danaro, non trovano omai più il becco d’un quattrino!
Marco si mise le mani nei capelli, e poi, fattosi col braccio puntello al capo, pianse di sdegno, e continuò le sue meditazioni. E meditò sul Congresso di Francoforte. Avevamo, disse Marco a se stesso, avevamo due grandi nemici, Roma e l’Austria. Roma è più ferma che mai, e fummo, nostro malgrado costretti a smettere ogni pensiero di conquistarla, ed ora l’Austria cresce straordinariamente in potenza, e senza tante annessioni, senza violare trattati, senza invocare nuovi diritti si rende formidabile. E i giornali imbecilli predicano da quindici anni che l’Austria si sfasciai Sfasciarsi? Essa non salì mai a tanta floridezza. E se le riesce di riordinare la Germania, e di mettersene alla testa? Se la Prussia si accorda con lei, o almeno non le guasta le uova nel paniere? O Marco, vattel’a pesca Venezia! La piglierai insieme con Roma!
Ma il pensiero che più tormentava Marco Minghetti era questo, che, mentre i rivoluzionari collegati divisavano di atterrare l’Impero austriaco, fossero obbligati a veder nascere un nuovo austriaco Impero nel Messico. E quel Napoleone III, che aveva tolto all’Austria la Lombardia, invece di toglierle anche la Venezia, si adoperasse, perché fosse eretto un nuovo Impero a vantaggio del fratello dell’Imperatore. Se Napoleone III, dicea Marco, uvea voglia d’un Impero messicano, gli mancavano forse candidati a cui affidarlo? Non avrebbe potuto trovarne molti tra’ suoi parenti, ed anche in Italia tra i parenti de’ suoi parenti?
– 142 –
E va invece a cercare l’arciduca Massimiliano! Possiamo almeno sperare clic l’Austria in ricambio ceda la Venezia? Sarebbe sciocchezza il lusingarcene, dicea Marco. E non vedete che Massimiliano, se accetta l’Impero del Messico, ha pili l’aria di fare che di’ ricevere un benefizio?
Povero Marco I egli non trovava un punto solo su cui fermarsi con qualche speranza. Da qualunque parte guardasse l’orizzonte se gli rappresentava torbido e minaccioso. E v’era per giunta il congresso cattolico di Malines che stava per inaugurarsi, Congresso che dirà la sua parola in difesa del Papa e contro la rivoluzione;. Marco avrebbe desiderato, che siccome egli ed i suoi pii» non parlano di Roma, così ne tacessero parimente i cattolici, sperando che questo silenzio potrebbe tardi o tosto condurre all’indifferenza. Ma i cattolici non possono tacere quando la Chiesa è combattuta, quando la libertà del Santo Padre è insidiata e minacciata. Di che parleranno nel 1863 a Malines come già parlarono altrove; e parleranno sempre colla stessa affezione pel Papa e collo stesso odio contro la rivoluzione. Marco già sentiva quelle proteste, e ne tremava, sebbene facesse proposito di sorriderne e fingere di non curarsene menomamente.
Da ultimo, rivolgendo uno sguardo su questa Italia e sulle sue condizioni morali e politiche, Marco Minghetti capiva che le cose non poteano durare nello stato presente. Cavour, osservava Marco, avea concepito smisurati disegni, ma di lui si può conchiudere come Svetonio di Cesare: talia agentem atqve meditantem mors praevenit. Anche noi, ripigliava Marco, anche noi vogliam fare grandi cose? Ma nel meglio chi sa che non venga a coglierci la morte o la bancarotta o qualche altra disgrazia inaspettata che ci riduca in mina? Vedi intanto, o Marco, quanti delitti in ogni parte, e come di tiranni tutte piene sono le terre d’Italia! Vedi mazziniani, passagliani, briganti, tutta gente della stessa risma! Vedi in Sicilia, e tei mostra la Discussione all’ordine del giorno le rapine, le estorsioni di ogni genere, e gli omicidi!» Vedi il Lombardo che ti parla della necessità «di mutare l’indirizzo del presente gabinetto!» Vedi in Firenze come se la pigliano contro Napoleone 1Il! O Marco, Marco, che ti resta egli mai se non ripetere ciò che dicevà a se stesso Onofrio Minzoni:
Oh povero Marcuccio….
Sarai fuor d’ogni noia
Quando trarratti del piovan nell’orto
Ad ingrassar le rape il beccamorto.
– 143 –
fonte