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STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI VOL. V

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STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI VOL. V

CARLO LUIGI FARINI
L’OPINIONE, IL CONSTITUTIONNEL E L’UNITÀ D’ITALIA
(Pubblicato il 24 dicembre 1862).

Nel chiudere il secondo volume dello Stato Romano Carlo Luigi Farini, ora presidente del ministero, volle «aprir l’animo per forma che ogni onesto e benigno lettore di qualsivoglia parte lo comprendesse». Imperocché, dicea il Farini e onoro ogni uomo che è franco, che è fermo nelle sue convinzioni sincere»; e gridava contro «l’ipocrisia, la classica turpitudine ingannatrice dei semplici».

Protestava pertanto il nostro presidente del ministero di voler combattere i Mazziniani. «Li combatto, e li combatterò fermamente, francamente perché in coscienza credo la parte loro infesta alla concordia italiana, infesta alla libertà civile, funestissima all’indipendenza». E poi passava a dire i divarii che corrono tra la politica dei mazziniani e la politica di lui, Carlo Luigi Farini.

E dicea il nostro presidente del ministero: «Eglino a sinistra, noi a destra; essi per la repubblica, noi per le monarchie costituzionali; ESSI PER L’UNITA’ D’ITALIA, NOI PER LA FEDERAZIONE». Queste precise parole si leggono nello Stalo Romano per Luigi Carlo Farini, voi. n, Firenze, Felice Le Monnier 1850, cap. XVIII, pag. 387, linea 26 e 27.

Il Farini avea premesso «disprezzo e detesto tutte le ipocrisie», epperciò francamente ripigliava: i Mazziniani stanno per l’unità d’Italia, io sto per la federazione; e metteva a fascio i fautori della repubblica con quelli dell’unità italiana. Ed alla causa della federazione contro l’unità d’Italia il nostro Farini volea dedicare «l’ingegno, la parola, il braccio, tutto».

Ora volete dire che l’uomo della federazione sia divenuto il Ministro della unità d’Italia? Non lo crediamo, e non lo possiamo credere. Nella stessa pagina, in cui Farini dichiarava di voler combattere i fautori dell’unità d’Italia, deplorava nobilmente «la sventura degli uomini, che stanno con tutte le parti, la sventura di quei liberali che non sanno pigliare la parte loro, la schifosità dei servitori di tutti i governi, la turpitudine degl’ipocriti politici, lo vuo’ dire con parola volgare e proverbiale, perché è volgarissima turpitudine, la schifosità della gesuiteria politica. Nella vecchia società pagana ogni depravazione avea un altare; costoro hanno un turibolo per tutti i pariti: oggi col Papa, domani col circolo popolare: oggi ministri dei Principi costituzionali, domani ministri repubblicani. Vi dirò io chi siete, o signori: – voi siete ministri di depravazione; voi depravate le coscienze, voi scoraggile gli onesti, voi oltraggiate la virtù, voi imbellettate il male e la codardia, l’ambizione, la cupidigia col sacrosanto amore di patria. Vi dirò io chi siete: – Voi siete ministri di distruzione; voi preparate quella distruzione che la rivoluzione incessante ha operato in Francia, la distruzione della coscienza politica, quella distruzione che alla nobilissima Francia o stata più funesta di tutte le distruzioni operate dalla mannaia. Vi glorificate di servire il paese, la nazione, la patria, e non il principe, non le dinastie, non le repubbliche?

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Pretta ipocrisia, classica turpitudine ingannatrice dei semplici, la quale indarno vuoi far sua complice l’umana favella, indarno vuole attutare i rimorsi della coscienza. In ogni governo franchi amici e franchi nemici: si cade coi governi che si son serviti e difesi; si sale colla propria parte che trionfa: questa è la morale: Chi sta o vuoi stare sempre ritto… io non vuo’ dir come si chiami colui; dico che posa il piede nel fango, e alla fin fine nella coscienza pubblica, è un sepolto vivo nel fango».

Non è possibile che, dopo queste parole, il Farini, che nel 1850 dicea dei Mazziniani: «essi per l’unità d’Italia, noi per la federazione»; non è possibile che nel 1802 combatta la federazione e stia per l’unità d’Italia! Il Farini non vuole seppellirsi vivo nel fango, come coloro che stanno o vogliono star sempre ritti.

Dopo di ciò pare finirà la questione insorta testò tra l’Opinione di Torino e il Constitutionnel di Parigi. L’Opinione avea annunziato che il cavaliere Farini, parlando col signor conte di Sartiges, ministro francese presso la nostra Corte, dichiarava di non poter entrare in trattative, finché la politica delle Tuileries non fosse favorevole all’unità d’Italia. Il Constitutionnel del 22 dicembre avea un articolo sottoscritto Boniface, il quale smentiva completamente l’Opinione, e diceva entièrement controuvées le pretesa dichiarazioni fatte dal Farini. L’ Opinione del 23 dicembre rispondeva: «per quanto stimiamo il Constitutionnel un giornale autorevole, non possiamo accettare la sua smentita». E intanto l’Opinione confermava la data notizia.

Noi stimiamo egualmente il Jacob dell’Opinione e il Boniface del Constitutionnel. Tuttavia incliniamo più a credere «La smentita dell’ultimo che alla notizia della prima. E come volete, monna Opinione, che il vostro Farini abbia fatto dichiarazioni al conte di Sartiges in favore dell’unità d’Italia, mentre il presidente del ministero già disse de’ Mazziniani: «noi per le monarchie nazionali; essi per l’unità d’Italia?». Non vi vergognate, o signori dell’Opinione, di attribuire al primo nostro ministro una contraddizione così smaccata? Il signor Boniface ha miglior concetto di lui, e non crede che il Farini possa giungere a tale eccesso da sostenere in faccia al rappresentante di Francia que’ sistemi che ha già riprovato come mazziniani, e che giurò di combattere coll’ingegno, colla parola e col braccio.

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PENSIONE AL CAVALIERE FARINI (Pubblicato i 1° aprile 1863).

Il progetto di legge per la pensione all’onor. Farini propone che venendo egli a morte, la metà di essa devolvasi alla di lui madre, l’altra metà alla moglie. La relazione ministeriale dice così:

« Signori! – A voi tutti sono note le circostanze, per le quali l’illustre nostro collega, il cav. Farini, fu costretto di rassegnare nelle mani di Sua Maestà le funzioni che esercitava nei consigli della Corona. L’Italia non ha certo dimenticati, né vorrà mai dimenticare gl’importanti servigi che questo illustre uomo di Stato le ha reso, tenendo alzata con una indomita tenacità, in momenti difficilissimi, quella bandiera che le acquistò, frammezzo a mille pericoli, il diritto di essere riconosciuta nazione.

«Essa, colpita nel giro di pochi mesi dalla grave sventura di aver perduta l’opera di due dei suoi più illustri fattori, è in dovere di non abbandonare, senza un attestato di riconoscenza, chi l’ha fedelmente servita, e tutta ha a lei dedicata la sua operosa esistenza, con una abnegazione e un disinteresse, di cui non s’hanno per sicuro esempi maggiori. Spinto da queste considerazioni, il Consiglio dei ministri ha unanimemente deliberato di proporre alla sanzione del Parlamento un progetto di legge, colla cui adozione esso si associerà alle intenzioni del valoroso nostro Sovrano, il quale, autorizzandola presentazione di questo progetto, intese fare novello omaggio alla santità della nostra causa col premiare uno dei suoi più illustri e più efficaci iniziatori». Registriamo il documento senza commenti.

LA PENSIONE AL CAVALIERE FARINI EX-PRESIDENTE DEL CONSIGLIO (Pubblicato il. 1 aprile 1863).

La Presse, del 2 di aprile, ci dà la dolorosa notizia che la salute del signor Farini non migliora, e che l’ultimo consulto medico non lascia nessuna speranza. Noi abbiamo già riferito la relazione del suo successore, Marco Minghetti, il quale ha proposto alla Camera, nella tornata del 27 di marzo, di assegnare al Farini una pensione annua di lire ottomila. Gli articoli di questo progetto di legge sono i tre seguenti:

«Art. <. È assegnata a Luigi Carlo Farini, già Presidente del nostro Consiglio dei Ministri, l’annua vitalizia pensione di L. 8000. Art. 2. In caso di morte del titolare, la suddetta pensione sarà riversibile per una metà a favore della madre di lui, e per l’altra metà a favore della moglie. Art. 3. Tale annualità sarà inscritta sul bilancio passivo dello Stato alla apposita categoria».

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Tutti i giornali dicono che ottomila lire non bastano. Che cosa sono ottomila lire a chi vi ha dato il ducato di Modena, il ducato di Parma e Bologna? Che cosa sono ottomila lire a chi ottenne da Napoleone III la licenza d’invadere le Marche e l’Umbria? Che cosa sono ottomila lire a chi promosse nel 1845 l’insurrezione di Rimini, e scrisse il manifesto degl’insorti? Che cosa sono ottomila lire a chi sostenne la rivoluzione colle sue storie, colle sue lettere, co’ suoi proclami?

LA MALATTIA E LA PENSIONE DEL CAV. FARINI (Pubblicato il 16 aprile 1863).

L’Opinione del 15 aprile, N° 104, ci dà le due seguenti notizie relative al cav. Farini. La prima notizia dice: «La Commissione nominata dalla Camera per esaminare lo schema di legge concernente la pensione da accordarsi al cav. Farini, nella riunione che tenne ieri, sappiamo che, secondo il mandato ricevuto dagli uffizi, deliberò di proporre sia accordato al cav. Farini un assegnamento vitalizio di L. 25 mila annue, riversibile alla di lui morte per L. 4 mila alla madre, e L. 4 alla moglie; e gli sia inoltre accordato un dono nazionale di un capitale di L. 200 mila. L’onorevole deputato Giorgini venne nominato relatore». Dopo di ciò l’Opinione immediatamente soggiunge: «Le notizie del cavaliere Farini sono pur troppo viepiù inquietanti. Sorpreso da un colpo apoplettico, rimase parecchio ore senza dar segno di vita, e, mentre pareva manifestarsi un leggiero miglioramento, la malattia si è invece aggravata».

Non occorre dire che ci duole assai della nuova disgrazia toccata al cavaliere Farini. Se dipendesse da noi, vorremmo restituirgli l’antica salute. Ma ormai dicono che si disperi della sua guarigione, quantunque sia in età ancor buona, essendo nato nel 1812, due anni dopo il conte di Cavour.

La Perseveranza del 15 aprile scrive su questo doloroso argomento sotto la data di Torino, 14 aprile: Il Farini ha avuto ieri l’altro a sera una sincope-, ed è rimasto sei ore senza dar segni di vita né poter essere mosso neanche di dove alle prime era caduto. Né aveva racquistato sino a ieri la favella ed il moto. I figliuoli stanno presso di lui. Questa dolorosa notizia ha affrettato la nomina della Commissione per la proposta di legge di una pensione al Farini, riversibile per metà alla madre, per metà alla moglie. E questa Commissione ha accelerato il suo lavoro, e nominato quest’oggi il suo relatore nel Giorgini. «Non vi so per l’appunto dire le risoluzioni della Commissione; ma credo che esse sieno molto più larghe che non la proposta del ministro. Ed è bene. Il Farini ha tenuto la promessa di morir povero; e non che avere un dippiù, se ora morisse, morrebbe con un di meno. E questo la nazione italiana non deve né può sopportare. Essa deve sentire e provare di sentire, che un colpo di genio del Farini, governatore in Modena alla conchiusione della pace di Villafranca, risollevò le popolazioni dallo sgomento in cui quella pace l’ebbe gittate, e pose il primo suggello e dette la prima spinta alla formazione dell’unità d’Italia».

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RELAZIONE E PROGETTO DI LEGGE PER ASSEGNO E RICOMPENSA AL CAV. FARINI (Pubblicato il 18 aprile 1863).

Signori,

Dopo la pace di Villafranca corsero per l’Italia giorni di sgomento e d’angoscia: quando, troncato a mezzo il corso della vittoria, il frutto d’immensi san ili/i pareva perduto, e le ristaurazioni imminenti: quando, senza Napoli che non s’era anche mosso, senza il Piemonte, che aveva dovuto ritirarsi dalla lotta non curando i consigli, disprezzando le minaccie dell’Europa, le popolazioni dell’Italia centrale, sole abbandonate a se stesse, innalzarono il vessillo dell’unità nazionale. Questa rivoluzione che non somigliò a nessun’altra, che non fu macchiata da nessun delitto, che non trascorse di un passo, che non deviò un momento dallo scopo che s’era prefisso, che unì l’audacia alla prudenza, all’entusiasmo che non misura gli ostacoli, la pazienza e l’abilità che li vince: questa rivoluzione, o per dir meglio questa politica, che ci meritò il rispetto e le simpatie dell’Europa, che impedì le ristaurazioni, che fece le annessioni, che salvò l’Italia, ebbe a capo due uomini: uno di questi fu Carlo Farini.

D’una lunga e operosa esistenza, che fu tutta consacrata all’Italia, basti rammentare questo solo periodo, per dire di che al Farini sia debitrice l’Italia.

Ma il lavoro concitato, indefesso, le continue e violenti emozioni di quel tempo e de’ successivi gli andarono lentamente corrodendo le forze, e spegnendo il vigore dell’animo, il Farini cadeva al suo posto, servendo il paese, come un soldato mutilato sul campo di battaglia.

Proteggere i suoi ultimi giorni dagli effetti di quella povertà, che era stata la sua più nobile ambizione, è dunque per l’Italia un debito sacro; e la proposta di un assegno, che il Parlamento gli dovesse decretare, fu, come doveva, accolta dagli uffici con affettuosa premura. Il dubbio non poteva cadere che sul modo e sulla misura dell’assegno.

Si sarebbe da qualcheduno desiderato che questo consistesse in un dono conveniente alla grandezza del nuovo regno e all’importanza dei servigi, dei quali sarebbe stato la ricompensa. E la Commissione non avrebbe esitato a far suo questo desiderio, se a combattere non si fosse potuta addurre altra ragione che quella tondata sulle strettezze dell’erario. Ma noi abbiamo creduto che l’idea di una ricompensa nazionale, trasmissibile ai discendenti, sebbene potesse appoggiarsi all’esempio di altre nazioni, avrebbe ripugnato a tutto quanto lo spirito delle nostre istituzioni. D’altra parte il principio che ogni grande estraordinario servizio reso allo Stato dia titolo ad una ricompensa da ridursi in danaro, non potrebbe alla lunga non indebolire il sentimento dei doveri che abbiamo verso la patria, abbassare i caratteri, offuscare il merito e corrompere i motivi stessi della virtù.

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Una delle glorie più vere della nostra rivoluzione e del nostro paese, una giustizia che tutti i partiti saranno superbi di rendersi scambievolmente, è appunto questa. In Italia le vicende politiche sono state per molti una causa di rovina, il potere non ha arricchito nessuno. C’è in questo fatto un motivo di consolazione per noi; un altro insegnamento per le generazioni avvenire: non lo tocchiamo! v

La Commissione fu dunque unanime nel ritenere che il dono nazionale da decretarsi al commendatore Farini non dovesse aver altro scopo, che quello di provvedere a certi bisogni, dei quali non era difficile determinare l’indole e l’estensione. Essa è inoltre convinta, che allo scopo indicato basteranno gli assegni fatti col progetto di legge che ho l’onore di sottoporvi. Possa il voto che voi darete giungere all’illustre cittadino come un attestato dei sentimenti, coi quali la rappresentanza del paese l’accompagna nel suo modesto ritiro.

Sì, signori. Due anni non sono compiuti da che il conte di Cavour scese nella tomba, e una grave infermità obbliga il Farini a ritirarsi dalla vita pubblica. Ma noi, chiamati a continuare l’opera loro, noi forse destinati a veder chiusa la volta del grande edificio, noi ricorderemo sempre con devota riconoscenza le braccia vigorose che ne piantarono le fondamenta.

Progetto di legge.

Art. 1. E’ assegnato a Luigi Carlo Farini, già presidente del Consiglio dei ministri, una rendita vitalizia di lire 25|in., reversibile dopo la di lui morte per lire 4|m. alla madre, e per altrettante alla moglie.

Art. 2. È inoltre accordato al cav. Farini un dono di lire 200|m. effettive.

Art. 3. Gli assegni di che agli articoli precedenti saranno inscritti sul bilancio passivo dello Stato in appositi capitoli.

I COSPIRATORI PAGATI DA FARINI COI DANARI DELL’EMILIA (Pubblicato il 14 maggio 1863).

In quello così strano quanto impudente commentario sul conte di Cavour che si pubblicò nella Rivista Contemporanea, leggesi: «Trovo scritto con abbastanza di autenticità, che L. Farini, dittatore dell’Emilia, era stato largo dei migliori mezzi per condurre a termine» la rivolta della Sicilia, pag. 48.

Quel che qui il N. Bianchi trova scritto, non è se non la patente dichiarazione che esso Crispi fece nella seduta del 26 febbraio 1863, dicendo «Non dimenticherà l’onorevole Presidente del Consiglio che, quando era nell’Emilia. e noi cospiravamo in Sicilia, ci fu largo di favori pel trionfo della causa nazionale».

Si notino due cose: primo, che non era dopo succeduta la sollevazione, ma quando si cospirava. Secondo, che è ben fuori di posto quel titolo di causa nazionale, quando la Sicilia non cercava che d’esser distaccata dal Napoletano.

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GLI ULTIMI MOMENTI DI CARLO LUIGI FARINI (Pubblicato il 14 agosto 1864).

Il signor L. Frapolli che fu ministro di Carlo Luigi Farini dittatore in Modena, pubblicò in tre numeri del Diritto (219, 220, 221) uno studio storico sugli ultimi suoi anni. Nel terzo articolo che vide la luce sul Diritto del 13 di agosto leggesi una relazione sull’ultima malattia del Farini che merita di venire raccolta. Il Frapolli è amicissimo del Farini e scrive sul Diritto, due cose che dicono come scriva, e come senta. Giunto a dire del Farini nel 1863 si esprime così:

«II sole di marzo tiepido scioglieva le aure di primavera. Grave di episodii strazianti e di sublimi fatti fervea la lotta disperata sulla lontana Vistola; e, tutta, l’Europa dei popoli ne era commossa. . Napoleone di Gerolamo – del quale dirà la storia quanta parte ebbe nel riscatto d’Italia – aveva pronunciata, al Lussemburgo, la eloquente arringa per cui tremò un istante il carnefice della Neva. Il magico filo che traversa i monti, ne dava un sunto fra noi. Farini più non si contenne. V’era in quel dì consiglio dei ministri. Lesse loro il dispaccio e tacque; poi si raccolse col capo fra le mani, in profonda meditazione. Finito il consiglio, chiese udienza dal Re.

«Quel dispaccio era stato, per la mente inferma di Farini, una rivelazione. Per lui, le genti di Francia già varcavano il Reno e le Alpi, per costringere i despoti d’Europa alla giustizia; e rinvenuto l’entusiasmo dei giovani anni, ci mal sopportava che l’Italia fosse ultima alla santa guerra; domandava al Re, rinnovasse i prodigi di Palestro; insisteva presso i colleghi, perché tutto si approntasse; sperava di essere primo alla partenza.

«Il 20 marzo, nella mattina, si tenne ancora alla presidenza, ed era più del solito operoso, e tutto disponeva pel gran viaggio. Firmò alcuni decreti che gli stavano u cuore; né si diede pace finché una povera famiglia, alla quale egli aveva procurato un sussidio, non ebbe ottenuto il regolare mandato di pagamento. Non presentò dimissioni dalla carica di ministro, né allora, né poi. rientrato a casa sua, rilasciò procura al maggior figlio; fece dono dell’orologio avito alla povera Ada; domandò si ritenesse, per la sera, un carro al cammin di ferro.

«Nel dopopranzo un amico di lui – e non della ventura – si trovava a custodia sua nel salotto dell’appartamento, dalla famiglia Farmi occupato, al N” 12 del Viale a Piazza d’Armi. Il pover Uomo sedeva nell’apertura d’una finestra, la faccia rimpetto al crepuscolo che inviluppava i monti di Susa.

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Quando rivolto sereno il ciglio verso l’amico: «Per là, diceva animato, per là si passa in Francia Oh! Grande e generosa è la Francia; vedete, i suoi eserciti percorrono l’Europa; la Polonia e l’Ungheria sono salve; il Papa più non esiste… l’Italia è fatta. Oh! Voi, voi non avete fede, voi rimanete freddo…» Ahi! Davvero, c’era di che farsi di gelo. -Poi, ricaduto, abbassava tristamente il capo di contro al piano e: Quanto è bella la natura, egli sclamava: guarda quelle vette come si frastagliano sul ciclo di rose e chiudeva le stanche pupille.

Ma tosto ei si alzava a furia, e «Presto, presto, Giuseppe, l’uniforme; è l’ora della partenza, Cialdini è a cavallo; egli marcia con centomila soldati, bisogna raggiungerlo, raggiungerlo». E la forza di due robusti amici potevano a mala pena trattenerlo.

«Verso le dieci e mezzo della sera, Michelangelo Castelli ed il secondo figlio di Farini, Armando, adempivano al pio incarico di condurre l’amico e il padre alla stazione. Rimanevano il figlio Domenico ed il sottoscritto a conforto delle afflitte donne. Della turba dorata più non si vide alcuno: Ei non era più.

«Partì Farini da Torino in quella sera del 20 marzo – tre anni prima, giorno per giorno, egli vi era entrato portatore delle tre corone dell’Emilia – ora ne partiva, ma per essere condotto allo stabilimento di salute della Novalesa, nelle Alpi del Cenisio. Là, dopo i primi giorni, si credette ad un miglioramento; era calmo; passeggiava, parlava coi contadini e non si accorgevano del che ne fosse.

«Il 12 aprile – era domenica – Farini camminava tranquillamente nel tristo luogo, fra’ suoi due figli, quando, sentitosi male, ei s’appoggiò sull’uno di essi, si lasciò cadere a poco a poco, e perdette la loquela; poi fu assalito da crisi violenta che durò presso a tre ore. – Era stato posto sopra uno stramazzo. – Quando in sè rinvenne e che potè farsi comprendere, egli aveva le sue idee più chiare che d’ordinario. «Io soffro, ei lamentava, soffro molto; io lo vedo «bene, devo morire poco a poco; però è troppo il dolore, e non è giusto, per «me che non ho mai voluto far che del bene!».

«Poi ritornava all’abituale «quasi beata, ma tremenda apatia, ed allo stato assoluto d’immemore infanzia nel quale ei si trova, e dal quale, più non si risorge.

«Così finiva un uomo. Povero Farini!».

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MARCO MINGHETTI E LE FINANZE ITALIANE

Fu detto che la questione Italiana era una questione di finanze, e la sentenza è vera sotto moltissimi rispetti. Tutte le rivoluzioni sono doppiamente una questione delle finanze, in quanto cioè i rivoluzionarii le fanno nascere per amore finanziario, e poi una catastrofe finanziaria le fa morire. Converrà pertanto che noi in queste nostre Memorie ci occupiamo alquanto diffusamente delle finanze italiane, massima che da tal lato in ispecie bisogna giudicare Marco Minghetti succeduto a Carlo Farini nella Presidenza del Ministero. Ecco adunque alcuni articoli che oltre i fatti recano eziandio gli affetti del giorno in cui vennero scritti e pubblicati.

ROMA IPOTECATA DAL CONTE DI CAVOUR (Pubblicato il 23 gennaio 1863).

«Il conte di Cavour tolse al programma repubblicano t’ultima grande idea che questo racchiudeva, e proclamò Roma capitale d’Italia, Ipotecando, per cosi dire, la città eterna a beneficio del principio monarchico»

(Jacini, La questione Romana al principio del 1863, pag. 47).

Di questi giorni il signor Stefano Jacini già ministro dei lavori pubblici, ora deputato al Parlamento italiano, regalò gentilmente all ‘Armonia un suo libretto di 88 pagine stampate in Milano dalla tipografia Vallardi, col titolo La Questione di Roma al principio del 4863. Il sig. Jacini s’indusse a scrivere questo libretto con profondo convincimento, e con una fede grandissima nella potenza salutare della pubblicità». Sul primo capitolo l’autore tratta della sconfortante situazione attuale dal problema di Roma, nel secondo del conte di Cavour che ha ipotecato Roma a beneficio del principio monarchico (sic) -, nel terzo, dei modi, coi quali il conte di Cavour e i di lui successori tentarono di risolvere la questione romana; nel quarto dell’occupazione francese in Roma considerata come il vero scoglio del problema; nel quinto, quali sieno le soluzioni della questione romana, che il governo italiano potrebbe tentare; nel sesto, se la lettera dell’Imperatore Napoleone 1Il, in data del 20 maggio 1862, possa servire di basi a’ negoziati per risolvere la questione romana.

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In questo sesto ed ultimo capitolo il signor Jacini conchiude che, se non esiste altro mezzo per togliere Roma al Papa, clic adagiarsi a quello proposto da Napoleone Ili nella sua-lettera del 20 di maggio 1862, conviene appigliarvisi francamente, e «impegnarsi a rispettare il patrimonio di S. Pietro»; lo che, dice il signor Jacini, non può impedire «che il governo italiano prosegua ad impiegare tutti i mezzi morati che ci debbono condurre a Roma». Anzi l’ex ministro afferma che, accettata questa proposta napoleonica «il governo italiano non cesserà di fare un diuturno assedio morale tino a che Roma non sia divenuta realmente capitale d’Italia». E per provare che male non si è apposto ne’ suoi ragionamenti, il signor Jacini cita un articolo della Civiltà Cattolica, che, nel quaderno del 6 dicembre 1862, combatteva il disegno napoleonico.

Noi non entreremo in questa discussione, paghi di sapere che sei rivoluzionari accettassero una transazione col Papa, l’accetterebbero soltanto coll’animo di violarla, come apertamente confessano. Solo vogliamo confrontare il linguaggio del conte di Cavour nell’ottobre del 1860 con quello del sig. Jacini nel gennaio del 1863.

Nella tornata dell’11 ottobre 1860 il conte di Cavour rivolto ai rappresentanti delle antiche provincie dello Stato, della Lombardia, dell’Emilia e della Toscana, radunati in Parlamento, pronunziò quelle memorande parole: « La nostra stella polare, o signori, v e lo dichiaro apertamente, è di fare che la città eterna, sulla quale venticinque secoli hanno accumulato ogni specie di gloria, diventi la splendida capitale del regno italico» .

Il Parlamento soggiunge il signor Jacini, era stato convocato nell’autunno del 1860, acciocchè accordasse al governo la facoltà di accettare le annessioni dell’Umbria, delle Marche, del Napoletano e della Sicilia. Non poteva sfuggire alla profonda intuizione del conte di Cavour, che non sarebbe stato lecito ritardare di un sol giorno une esplicita dichiarazione del governo circa alla capitale del regno rinnovato e quadruplicato di Vittorio Emanuele; imperciocchè ai nuovi venuti nella grande famiglia doveva essere tolta non meno la prospettiva di essere governati in perpetuo da una città insigne e benemerita, ma situata ai confini dello Stato, quanto l’eventualità d’una discussione sulla scelta d’una capitale; discussione che non avrebbe servito ad altro che ad irritare gli animi, a scatenare ed a corroborare lo spirito di rivalità municipale. Davanti al nome augusto di Roma tutti si sarebbero inchinati».

La Camera elettiva nella tornata del 27 marzo 1861 approvò alla quasi unanimità il seguente ordine del giorno: «La Camera, udite le dichiarazioni del ministero, confidando che, assicurata la dignità, il decoro e l’indipendenza del Pontefice, e la piena libertà della Chiesa, abbia luogo, di concerto colla Francia, l’applicazione del non intervento, e che Roma, capitale acclamata dall’opinione nazionale, sia congiunta all’Italia, passa all’ordine del giorno». Pochi mesi dopo, cioè ai 12 dicembre del 1861, il voto venne rinnovato nel seguente modo:

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«La Camera conferma il voto del 21 marzo che dichiara Roma capitale d’Italia, e confida che il governo darà opera alacremente a compiere l’armamento, ecc., ecc.» .

« Or bene, domanderemo noi col signor Jacini medesimo, in quale posizione si trova oggi codesto grave problema del giorno? Bisogna confessarlo; in una posizione, oltre ogni dire, sconfortante. Noi ci siamo immersi in una via cieca che non ha uscita… L’Italia ha proclamato solennemente essere il possesso di Roma una necessità della propria esistenza politica normale, necessità sentita istintivamente da tutta la nazione; ma, dopo due anni d’agitazioni e di sterili conati, è condannata a riconoscere come si trovi ancora da capo non altrimenti che al primo giorno».

Il signor Jacini era ministro e deputato quando si proclamò Roma capitale. Oh chi gli avesse detto che due anni dopo non solo Pio IX comanderebbe ancora gloriosamente sul Tevere, ma il signor Jacini medesimo sarebbe costretto a scrivere un libro per consigliare il governo a rinunziare apparentemente a Roma! E da qui a due anni che cosa sarà? Drouyn de Lhuys ha dichiarato che l’avvenire è pel Papa e pe’ suoi fedeli figliuoli. E la storia conferma la sentenza. Ma perciò appunto la Santa Sede non ipotecherà mai l’avvenire, come il conte di Cavour ha ipotecato Roma.

Si è questa una frase del signor Jacini, che noi abbiamo voluto rilevare. Egli confessa che Roma capitale d’Italia era un’idea di Mazzini, a cui il conte di Cavour la tolse, «ipotecando la città eterna a benefizio del principio monarchico». Fino a un certo punto il Jacini non ha torto. Il conte di Cavour per combattere i Mazziniani diventava mazziniano, e nella sua politica nazionale procedette ipotecando. Egli ha ipotecato dapprima il nostro commercio e l’ha messo in mano dell’Inghilterra, ha ipotecato le nostre finanze; ha ipotecato certe persone che qui non vogliamo nominare; ha ipotecato Nizza e Savoia; ha ipotecato le nostre glorie, e le più belle pagine della storia piemontese; ha ipotecato la nostra indipendenza e ci rese mancipii di Napoleone III; ha ipotecato i principii conservatori gettandosi in braccio dei rivoluzionari. Ogni qual volta il conte di Cavour trovavasi in qualche imbroglio, ipotecava. Ha ipotecato a Parigi, ha ipotecato a Plombières, ha ipotecato a Torino. E nell’ottobre del ì 860, per togliersi d’ogni impiccio e lusingare la parte rivoluzionaria, ipotecava Roma. Poveri Romani, da due anni ipotecati!

Ma il signor Jacini afferma che il conte di Cavour ipotecava Roma a beneficio del principio monarchico. Come? Il conte di Cavour per salvare la monarchia proponeva la morte del regno più antico e più legittimo del mondo? Per salvare la monarchia voleva spogliato il Vicario di Colui, pel quale i Re regnano, e i Principi imperano? Oh vedete un po’ come il conte di Cavour ha salvato la monarchia! Il signor di Thouvenel, l’11 di agosto del 1862, scriveva al suo incaricato d’affari a Torino, che se Garibaldi andava innanzi «non tarderebbe il trono di Sua Maestà italiana a trovarsi in pericolo». E Garibaldi non vuole tornare indietro, e non intende di dormire a Caprera. Garibaldi non è ancor morto, e forse prima di morire farà qualche commento all’opuscolo del signor Jacini.

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Intanto pensino i Romani che cosa avverrebbe di loro se cadessero negli artigli della rivoluzione, mentre questa li ipoteca prima ancora di averli conquistati! N»r consigliamo i cittadini di Roma a chiedere ai tribunali la cancellazione forzata dell’ipoteca, che ha posto sulla loro città il conte di Cavour. L’iscrizione fu nulla, perché il conte di Cavour ha ipotecato le cose altrui.

LE FINANZE ITALIANE ISTAURATE TRE ANNI DOPO LA MORTE DEL REGNO D’ITALIA (Pubblicato il 17 febbraio 1863).

Allegri, o Italiani, allegri! Ridete in Torino e piangete in Roma, che così vuole la rivoluzione. Il ministro Minghetti v’ha detto dalla tribuna parlamentare il 14 di febbraio che voi avete proprio grandi ragioni di ridere! Egli vi ha detto che la situazione finanziaria del nuovo regno d’Italia è spaventosa, ed ha soggiunto che chi non ne sente la gravità, non ama la patria! Egli v’ha detto che il nuovo regno d’Italia per procedere innanzi abbisogna subito d’un prestito di settecento milioni effettivi, i quali significano almeno mille milioni I Egli v’ha detto che con questi mille milioni le finanze del regno d’Italia saranno ristorate nel 1867, anno in cui non si sa ben prevedere dove saranno e il ministro Minghetti e l’unità italiana!

Prima del signor Minghetti fu ministro delle finanze il signor Quintino Sella, il quale nel 1862 fece la sua esposizione, come sogliono tutti i ministri, e disse: e Il pareggio delle entrate ordinarie colle spese ordinarie entro il 1864 è per l’Italia questione di vita o di morte, questione del to be, or not to be» . Mettendo adunque a confronto le dichiarazioni di Sella nel giugno 1862 colle dichiarazioni di Marco Minghetti suo successore, ne abbiamo che non potendosi ristaurare le finanze italiane entro il 1864, il regno d’Italia dovrà necessariamente morire, e arriverà per lui il fatale not to be, ossia non sarà più. Ma giunto poi il 1867, cioè tre anni dopo la morte del povero regno, allora le finanze italiane saranno ristorate!

Questo risulta evidentemente dalle previsioni dei due ministri, e sfidiamo qualsiasi ministeriale a negare la nostra argomentazione. Uno vi dice: – So non otteniamo il pareggio nel 1864 siam morti. – E vel dice Quintino Sella, uno de’ più valorosi economisti italiani! L’altro soggiunge: – Otterremo il pareggio nel 1867. – E lo dichiara Marco Minghetti, uno che ha stampato non sappiamo quanti volumi di Economia politica. Dunque morremo nel 1864, secondo le previsioni del primo ministro, e tre anni dopo che saremo morti, cioè ne) 1867, i bilanci del regno d’Italia batteranno, e le spese resteranno in armonia colle entrate.

Dopo di ciò, o Italiani, godete pure, tripudiate, impazzite, fate bacchanalia, avete le migliori ragioni del mondo per inneggiare a Bacco, e vestirvi da Tiadi, da Menadi e da Mimalonidi. Bacco è il vero Dio del nuovo regno d’Italia.

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Gli antichi chiamavano questo Dio Edotte, che si può intendere mangione, sebbene altri lo spieghi diversamente. E Bacco mangiava i tori, onde fu detto Taurofago. Sicché ben vedesi quanto ragionevolmente i nostri politiconi abbiano introdotti grandi baccanali in Torino in onore del Taurocefalo, del Taurocaro, del Taurocrano, del Tauromorfo, del Taurofago Bacco. Ah vivano i grandi sacerdoti del dio Edone! Evoè, evoè! Coraggio, ministri del regno d’Italia. Mangiate, mangiate: «Ognun segua Bacco te, Evoè, evoè – Viva Bacco il nostro re!»

Il signor Farini, presidente del nostro ministero, chiedeva in grazia all’assemblea dell’Emilia la consolazione di morir povero; e siccome il Farini ama straordinariamente l’Italia, così le volle far parte di questa sua grande consolazione. Le finanze italiane non potranno essere ristorate nel 1864. Dunque il nuovo regno può tenersi certo del grande, sublime, consolatissimo onore di morir povero!

PENSIERI QUARESIMALI DI MARCO MINGHETTI, MINISTRO DELLE FINANZE (Pubblicato il 19 febbraio 1863).

Raduniamo sotto questo titolo alcune sentenze e confessioni di Marco Minghetti, contenute nel discorso che disse alla Camera dei Deputati il 14 di febbraio, e tolte dagli Atti Ufficiali, N° 1023, pag. 5976 e seguenti.

La questione finanziaria primeggia e sovrasta in questo momento su tutte le altre. Perfino quelle questioni politiche, la soluzione delle quali forma il supremo intento dei nostri pensieri, ove intendiamo consacrare tutti i nostri sforzi; perfino quelle questioni sembrano in questo momento pausare dinanzi alla stringente necessità dell’interno ordinamento. La finanza è come il fato degli antichi, che i volenti conduce e i repugnanti trascina.

I vari bilanci degli Stati divisi d’Italia, che formavano un complesso di poco più che 500 milioni di spese, furono quasi raddoppiali, e un disavanzo di 400 milioni divenne, per così dire, lo stato abituale dell’Italia riunita!

Non solo fu aumentato il numero degli uffizi e la pianta degl’impiegati in tutto il regno, ma furono accresciuti eziandio gli stipendi loro notabilmente. Le leggi promulgate nel Piemonte al tempo dei pieni poteri crebbero d’oltre un terzo gli stipendi, e questo servì di norma a parificare l’aumento nelle altre parti del regno. Né io credo d’andar lungi dal vero argomentando che queste riforme aggravarono il bilancio di 50 milioni annui.

Aggiungansi a questo le pensioni, le aspettative, le disponibilità venute in seguito o dalla soppressione delle amministrazioni centrali, o della rimozione di persone per motivi politici, talora anche di cambiamenti successivi fatti poco maturamente e che fu d’uopo correggere appresso lo credo di non poter calcolar a meno di 20 milioni annui l’aumento avvenuto in questa categoria di spese.

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Gl’interessi del debito pubblico crebbero di oltre settanta milioni nel solo triennio 1859-60-61. Imperocchè a sopperire a tutti gli aumenti di spese nessun altro metodo fu trovato se non quello di ricorrere al credito pubblico; metodo necessario talvolta, ma assai pericoloso; imperocchè nasconde agli occhi del pubblico la differenza e la sproporzione tra le forze contributive del paese e i suoi dispendi; e certamente quasi scava un abisso, dinanzi al quale un giorno la nazione si riscuote maravigliata e sdegnosa.

Nei tre primi anni del nostro risorgimento noi abbiamo speso oltre un miliardo più delle rendite, attingendolo al credito pubblico, per l’anno 1862 abbiamo 3?5 milioni da saldare, per l’anno 1863 abbiamo in prospettiva 400 milioni di disavanzo.

Il debito italiano fu già raddoppiato, le imposte diminuirono, le spese permanenti si accrebbero; è tempo, o signori, di fermarsi; è tempo di guardare dove andiamo continuando per questa via.

È tempo di por riparo a questa grave (1) situazione. Se alcuno non sente la gravità di questa situazione, mi sia lecito dire che egli non ama la patria. (Sensazione. – Bravo! Bene!).

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa/vol_02_02_margotti_memorie_per_la_storia_dei_nostri_tempi_1865.html

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