STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI X (VOL. II)
IL VESCOVO D’AVELLINO IN TORINO E SULL’EMANCIPAZIONE DEI VESCOVI (Pubblicato il 12 marzo 1861)
È giunto in Torino, sotto buona scorta, l’illustre Monsignor Francesco Gallo, Vescovo d’Avellino, arrestato in Napoli il 24 di febbraio, e trascinato al tribunale di Cavour e di Cassinis. Egli trovasi nella Casa dei Signori della Missione, dove sta da sei mesi il grande, virtuoso, pazientissimo Cardinale De Angelis, Arcivescovo di Fermo. Monsignor d’Avellino continua quella nobilissima serie di vittime fatte dalla rivoluzione, e il suo nome resterà nei dittici della Chiesa con quelli del Cardinale di Pisa, del Vescovo di Piacenza, e di tanti altri illustri Prelati, Arcivescovi e Vescovi processati, bistrattati, incatenati in nome della libertà.
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Speriamo che i cattolici di Torino si recheranno a fare omaggio a Monsignor Gallo, come già praticarono cogli altri illustri prigionieri giunti nella nostra Capitale. Monsignore patì assai il lungo e faticoso viaggio, ma la grazia di Dio lo sostenne, lo sostiene e lo sosterrà, e satis suaviter equitat quem gratta Dei pentat.
Quando noi tornammo ieri dal visitare il Vescovo d’Avellino, ci avvenne un caso singolare. Messa la mano in certi nostri opuscoli, elio conserviamo pei presenti bisogni, ne esci uno tutto al caso nostro. Era un’operetta pubblicata a Firenze nel 1848 da Massimo d’Azeglio, col titolo Sull’emancipazione civile degli israeliti. E gettativi sopra gli occhi, chiedemmo: E perché Massimo d’Azeglio non pubblica oggidì un nuovo volume intitolato dell’emancipazione religiosa dei Vescovi?
Oh i Vescovi sono, a’ giorni nostri, trattati assai peggio degli ebrei! Prima del 1848 nessuno imponeva agli ebrei di operare contro la loro coscienza e di riconoscere il Messia. Eppure, perché non erano ammessi a tutti i diritti civili, Massimo d’Azeglio-ne sentiva grande compassione! Noi cristiani scriveva il d’Azeglio, che ci travagliamo onde ottener giustizia per noi, rendiamola agli Uri; e non tormentiamo gli Israeliti, come non vorremmo essere noi tormentati ed oppressi».
Perché il nostro Massimo non indirizza oggidì simili parole a Cavour e a Cassinis? Perché non dice loro: «Non tormentiamo il Cardinale Arcivescovo di Fermo e il Vescovo d’Avellino, come non vorremmo noi essere tormentati ed oppressi?»
Massimo d’Azeglio scriveva per epigrafe al suo libro due dimando e due risposte della Dottrina Cristiana della diocesi di Torino, nelle quali dicevasi che tutti gli uomini del mondo sono nostro prossimo, e che dobbiamo amarli, perché Dio ce lo comanda. Quindi emancipare gli ebrei. .
Ma questo argomento non può servire anche pei Vescovi, per gli Arcivescovi e pei Cardinali? Non sono essi nostro prossimo? E come li ama il giornalismo, come li amano i Cavour ed i Cassinis?
A chi sorridendo m’interrogasse, dicea Massimo d’Azeglio, se io intendo di fare il Catechismo pei fanciulli; io risponderci, che se mi bastassero le forze vorrei non tanto far questo, quanto trovar modo onde quel Catechismo che gli uomini appresero quando erano fanciulli, lo rammentassero talvolta allorché, fatti adulti, vien loro data podestà di promulgar leggi e farle eseguire.
Suvvia, Massimo d’Azeglio, fatevi animo, pigliate il vostro Catechismo, e recatevi nel gabinetto del conte di Cavour per ricordarglielo. Ricordategli chi è il Papa, ricordategli che i Vescovi sono il nostro prossimo, ricordategli che bisogna rispettare la roba d’altri, ricordategli che bisogna onorare il Padre e la Madre per vivere lungamente su questa terra; che la nostra Madre è la Chiesa; il nostro Padre è il Romano Pontefice, ricordategli il non ammazzare; il non dire falso testimonio, e sopratutto quel grande principio, non fare ad altri ciò che non vorremmo che fosse fatto a noi; principio che saggiamente nel 1848 proponevate come cardine della politica cristiana.
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Col Catechismo alla mano dite, signor d’Azeglio, all’onorevole conte di Cavour; — Vorreste voi che vi spogliassero? — No. — E perché avete spogliato il Re di Napoli? — Vorreste che vi uccidessero? — No. — E perché avete fatto uccidere i soldati del Papa? — Vorreste che vi tradissero? — No. — E perché avete tradito i legati napoletani? — Vorreste che v’imprigionassero? —No. — E perché imprigionaste il Cardinale Arcivescovo di Fermo e il Vescovo d’Avellino?
E Massimo d’Azeglio potrebbe dir questo al conte di Cavour dinanzi al Senato del Regno, giacché la lezione di Catechismo riuscirebbe utile anche ai Senatori, e conchiudere poi il suo discorso con una proposta di legge sull’emancipazione religiosa dei Vescovi, proposta che si potrebbe formulare coi seguenti articoli:
Art. 1. Si dichiarano i Vescovi emancipati dalla volontà del Ministero.
Art. 2. I Vescovi sono liberi di obbedire al Papa ed alle leggi dulia Chiesa.
Art. 3. Como non si obbligano gli ebrei ad andare a Messa così non si obbligheranno i Vescovi a cantare Te Deum contro la propria coscienza.
PROTESTA DEL VESCOVO D’AVELLINO
Monsignor Francesco Gallo, Vescovo d’Avellino, al momento del suo arresto scriveva e spediva la seguente bellissima protesta al signor Consigliere degli affari ecclesiastici in Napoli:
Signor Consigliere,
Napoli, li 24 febbraio 1861.
Le catene, l’esilio, la morte stessa non faranno mai obbliare ad un Vescovo della Chiesa cattolica quello che deve a Dio, ed alla sua dignità. Questa protesta da me fatta in risposta alle prime minacce direttemi nel dicembre ultimo da cotesto Dicastero, son lieto oggi di poter ripetere a lei nel momento di partire prigioniero ed esiliato per Torino. Contento di questa sorte, di che il Signore Dio mi fa degno, io porto meco la calma dell’innocenza, la intrepidezza della giustizia, e rassegnato corro sicuro ad incontrare quale sarà per essere il destino che mi è riservato. A non preterire però alcuno dei miei doveri, ed a smentire per quanto è da me ogni sinistra interpretazione, che potrebbe alterare la verità dell’accaduto che mi riguarda, io protesto novellamente contro quest’ultimo atto, che nel mio arresto lede ogni diritto di legalità e di giustizia, in onta dei sacri canoni e delle leggi della Chiesa.
L’ordine da lei comunicatomi, signor Consigliere, non dice altro se non che è volontà del Re e del suo Governo che io mi recassi sollecitamente in Torino per sentire la parola del Re. Era quindi necessario che pria mi fossi io negato a quell’onorevole invito, perché si avesse dritto di procedere al mio arresto.
Il di lei uffizio mi premurava ad affrettare la mia partenza; ma non dava alcun termine perentorio all’oggetto; mentre il sig. generale Tupputi mi intimava di partire nel momento, ed a grazia mi era concesso un giorno e poco più per provvedermi del più necessario per sì precipitosa partenza. Pare che non vi fosse stato bisogno di venire a questi estremi; anzi pare che mancasse ogni diritto per contestare una simile condotta.
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Appena mi veniva significato la prima volta, che il sullodato generale si travagliava da più giorni per iscoprire il luogo del mio ritiro, mi affrettai a fargli sentire che, risparmiandosi da ulteriore imbarazzo, mi avesse dato ora per ricevermi in casa sua, e di favorire in quella del Principe di Fondi, ove io mi trovava. Egli prescelse questa, dopo avere assicurato che la sua missione limitavasi a l’accomandarmi per parte del Governo una moderazione, sulla quale per altro io ho coscienza di non avere a rimproverarmi. Al primo incontro però il generale….. m’intimava l’arresto, e dopo mi comunicava il di lei uffizio, che da me venne pacatamente accolto.
Da sé il sig. generale proponeva quindi di venire ad una transazione, invitandomi a fare atto dì adesione al Governo; e quando alla proposta io mi esibivo pronto, qualora fosse espressa in termini da non compromettere la mia coscienza è i miei doveri verso Dio e la Chiesa; imperiosamente il generale mi rispondeva: — O adesione illimitata, o esilio: il Governo non deve venire a patti con voi altri Vescovi, e che non è più il tempo, nel quale i Re s’inchinavano dinanzi al Papa.
Dopa tale formale dichiarazione, sulla quale io non vengo a Care ulteriore riflessione, rimettendola al giudizio di Dio ed al buon senso di quanti ne avranno notizia, io sentii allora il dovere di rispondere, e quindi manifestare a lei, signor Consigliere, solennemente la stessa mia risposta, cioè che un Vescovo non può, né deve venire a patti con Dio e colla sua coscienza; che se deve ubbidienza alle autorità costituite, deve a tutte preferire l’autorità di Dio: che se i l!r si credono autorizzati a non più inchinarsi oggi innanzi «I Vicario di Gesti Cristo, per lo contrario i Vescovi si reputano onorati di prostrarsi ai Vice-Dio in terra, e baciare la polvere che egli calpesta: e che fino al loro fiato supremo sapranno affrontare eziandio la morte per rivendicare i sacri ed inviolabili diritti della Sede Apostolica, e preferire ad ogni riguardo -terreno l’obbedienza e soggezione alle leggi della Chiesa.
Sarà compiacente, sig. Consigliere, di trasmettere uftìzialmente a Torino questi miei sensi, che mi onoravo significarle; che colà io spero mi avvalori Dio colla sua grazia a sostenerli col fatto e colle voce, né smentirli mentre mi dura la vita.
Francesco Gallo, Vescovo di Avellino.
L’ESILIO DEI VESCOVI NAPOLETANI
E L’IPOCRISIA DEL MINISTERO
(Pubblicato il 3 luglio 1863)
Uno dei più eloquenti commentarii alla famigerata massima: Chiesa libera in libero Stato, si è lo stato in cui si trovano le diocesi delle provincie napoletane. Il così detto ministro dei culti dichiarava l’anno scorso che tra 65 Vescovi delle provincie meridionali, cinquantaquattro sono lontani dalle loro diocesi.
Se il governo avesse potuto, anche cercando col fuscellino, trovare qualche colpa da apporre ai Vescovi, per cui questi debbono vivere lontani dalle loro diocesi, non avrebbe mancato di farne pompa.
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Ma in tre anni dacché la libertà piemontese lavora ad annettere le provincie napoletano col bel esito che tutti sanno, non si è potuto scoprire un solo reato in uno dei 54 Vescovi esulanti dalle loro diocesi, per cui questo scandalo del governo potesse essere menomamente giustificato. Il Vescovo d’Avellino è sostenuto da tanti mesi in carcere, si pensò u, ili dal ministero di fargli il processo, o si poté almeno in modo estragiudiziale apporgli qualche colpa?
Non è a dire come questo fatto solo screditi il governo italiano presso gli stranieri. Coloro stessi che nutrono tutt’altro che tenerezza per il Cattolicismo 0 per l’Episcopato, condannano altamente quest’errore gravissimo del ministero, che per tal guisa si accatta odio e taccia di persecutore e di tiranno mentre affetta di essere apostolo e mantenitore di libertà e di tolleranza. I giornali stessi volterriani e protestanti di Francia, come il Sieele e il Tèmps, per tacere di altri meno ostili ai Cattolicismo, biasimarono questo modo di procedere del nostro governo.
Recentemente una Commissione parlamentare recossi in quelle provincie per indagare la cause del brigantaggio e i rimedi onde estirparlo. Ma dite un po’ se i Commissari trovarono l’ombra sola di una cooperazione a quella tremenda sciagura del nostro paese nei Vescovi! Pensate se avrebbero serbato silenzio riguardo ad una scoperta così preziosa, se mai avessero potuto aver buono in mano, non diciamo di provare, ma di sospettare che i Vescovi, anzi che un Vescovo solo fosse complice dei briganti! Il silenzio dei commissari è una pruova splendida dell’innocenza dei Vescovi. E aggiungeremo che lo stesso vuoi dirsi di tutto il Clero di quelle provincie, giacché la Commissione se nulla avesse scoperto a carico di quegli ecclesiastici, non avrebbe certamente serbato il segreto.
Anzi si è annunziato dai giornali stessi ministeriali, che tra i rimedi suggeriti in confidenza ai ministri dai commissari per reprimere il brigantaggio, uno dei principali era quello di richiamare i Vescovi nelle loro diocesi. Di fatto è incontestato che uno dei motivi più potenti di avversione nei Meridionali contro il Piemonte si è la persecuzione contro i Vescovi. Quelle popolazioni sono ancora scevre e pure dall’influenza volterriana dei nostri rivoluzionari; e quindi stimano sopra ogni altra cosa la religione cattolica, e sono svisceratamente affezionati ai loro Vescovi, ai loro sacerdoti. Della qual cosa rendono testimonianza gli stessi giornali rivoluzionari, i quali fremono e arrabbiano, e bestemmiano, perché quei popoli sono ancora sepolti nella superstizione. Superstizione quanto vorrete: ma il fatto è che il popolo ama i suoi Vescovi, i suoi sacerdoti, e che Talleyrand direbbe: C’est plus qu’un crine e’ est une faule quello di toccare un popolo nella parte più delicata!
Quale dunque è il motivo, per cui i Vescovi sono costretti ad esulare dalle loro diocesi? Si è che il governo o per impotenza, ovvero per connivenza lascia che quella mano di bricconi, che si trovano in ogni città, si rechino in mano il mestolo, e dispongano a loro talento della libertà, ed aneli. delle sostanze e delle vite dei cittadini. Que’ tristi per prima cosa sfogano i loro rancori contro il Clero, e specialmente contro i Vescovi, contro cui aizzano e sguinzagliano la feccia della marmaglia a cui danno nome di popolo.
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I Vescovi si trovano nell’alternativa o di lasciare svillaneggiare ed insultare la loro dignità, che loro sta a cuore più. che la propria vita, ovvero essere occasione di lotte, e forse anche di spargimento di sangue; giacché il popolo vero, levandosi contro il popolo canaglia a difesa dei suoi Pastori, facilmente ai verrebbe a scene luttuose; massime in quei paesi, dove gli spiriti sono vivaci, e il sangue è bollente nelle vene.
L’enormità di questo scandalo fece onta persino al ministero: il quale pure in fatto d’onte non patisce scrupoli!
Quindi fece correre la voce che il guardasigilli aveva invitato i Vescovi esuli napoletani a ritornare alle proprie sedi, promettendo loro che avrebbe adoperato tutti i mezzi, affinchè non fossero più disturbati dalle sommosse popolari. Il Monitore, eccellente giornale di Napoli, avendo accolto quella notizia con piacere, . come è naturale, ricevette una lettera di Monsignor Laspro, Vescovo di Gallipoli, il quale smentisce quella diceria. Ecco la lettera dell’egregio Prelato.
Napoli, 25 giugno.
Egregio Signor Direttore,
Il suo pregiato giornale, in data del 24, riferisce da una corrispondenza torinese, che il ministro Guardasigilli ferisse: «Molli Vescovi esuli dalle loro diocesi, del Napoletano specialmente, pregandoli di ritornare alle proprie Sedi, e di riaprire i Seminari, al qual fine il signor Pisanelli prometteva di adoperare tutti i mezzi giusti e leciti, affinchè, ritornati al loro posto, come fece F Arcivescovo di Troni, in seguito all’invito ministeriale, non fossero disturbali dalla ciurmaglia rivoluzionaria.
Tralascio le saggio riflessioni soggiunte dal corrispondente; oltre le quali mi preme significarle, che una tale notizia è falsa, od almeno inesatta; e potrebbe confermare nell’errore, o nell’avversione quelli, i quali, sia di buona, sia di mala fede, si permettono di tacciare i Vescovi, quasichè fosse nel loro arbitrio il ritornare alle Diocesi, a cui si sentono legati per molti sacri vincoli di dovere e di affetto.
Il signor Guardasigilli non ha mai rivolto ai Vescovi siffatto invito, e, Io so certo, nemmeno al lodato Monsignor Arcivescovo di Trani. Gode invece dell’illegale sequestro apposto alle rendite delle loro Mense, e né una porzione sola delle medesime viene spesa per quel fine a cui la destinarono i pii benefattori e le leggi canoniche. Oh i miei poverelli! E in che mai si può dire di avere essi peccato contro l’Italia. per essere cosi defraudati del loro patrimonio?!!
La vera e principale causa della forzata assenza dei Vescovi, signor Direttore, è per non trovarsi tuttora abbandonati in balìa di pochi tristi, senza che il governo li guarentisca in quei diritti che qualsiasi governo crederebbesi obbligato di guarentire all’ultimo dei cittadini. Per qual cosa i Prelati incontrerebbero di nuovo la dura alternativa, o di vedere impunemente insultata la loro dignità più che la persona, o di mettere a rischio il vero popolo, che vorrebbe assumerne la difesa.
Intorno ai Seminari, è vero che il signor ministro, compreso dalle rimostranze dell’Episcopato napoletano, emanò la circolare del 20 di marzo passato; ma è vero altresì, che ci lascia ancora desiderarne il sincero adempimento.
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Piacciale, signor Direttore, ridurre la detta corrispondenza al senso della verità sopra espressa; gradisca per questo favore i miei distinti ringraziamenti.
Valerio, Vescovo di Gallipoli.
Da questa lettera veniamo a conoscere un’altra enormità del ministero. Esso sequestra i beni delle Mense dei Vescovi, costretti a vivere fuori di diocesi! Questo vuoi dire che il ministero fa comunella colla marmaglia; giacché questa caccia i Vescovi, e il ministero ne arraffa i beni! Che bella coppia!
E qui nuova fonte di mal umore nel popolo. I Vescovi, tolto il puro e pretto necessario al loro sostentamento, profondono il rimanente a favore dei poveri o colla limosina, o facendo lavorare al restauro delle chiese o per altra opera di beneficenza. Ora cacciati i Vescovi e sequestrati i loro beni, con cui s’impinguano i preti apostati, i frati sfratati, fannulloni, scandalosi, il popolo si rimane a denti asciutti. E non volete che imprechi ai Piemontesi?
Quanto è giusta e tenera l’esclamazione di Monsignor di Gallipoli: «Oh i miei poverelli 1 E in che mai si può dire di aver essi peccato contro l’Italia, per essere così defraudati del loro patrimonio!» Sì i beni dei Vescovi sono il patrimonio dei poveretti, come dicono i canoni (1), E quindi il signor Pisanelli, togliendo i beni ai 50 Vescovi che tiene lontani dalle loro diocesi, defrauda migliaia e migliaia di poveri del loro patrimonio! E pensiamo che benedizioni manderanno quei meschinelli contro il Piemonte! E il savio ci avverte che «l’imprecazione del povero, il quale amareggiato di cuore ti maledice, sarà esaudita, ed esaudirallo Colui che lo creò» (Eccles. , cap. IV, 6).
L’altra cosa che ci vini fatto conoscere dalla lettera di Monsignor di Gallipoli sicché il ministro dei culti diede buone parole e tristi fatti riguardo ai seminari, come accade sempre al ministero quando trattasi della Chiesa e dei suoi ministri. Allora il ministro aveva bisogno di farsi vedere ben disposto a favorire l’insegnamento teologico nei pubblici seminarle voleva persino prestar la mano ai Vescovi per aiutarli nell’esigere l’osservanza della disciplina ecclesiastica. Ma delle sue parole fece fango! È un’ipocrisia di più; e null’altro!
Insomma è inutile farsi illusione! i nostri ministri non sono mai di parola colla Chiesa che quando si tratta di vessarla. Non sono mai fermi che quando si tratta di tormentare i Vescovi, i preti, i frati! Continuano per anni ed anni a tenere esiliati i Vescovi, imprigionati i Cardinali. In questo anno una perseveranza mirabile! Ma se stringono un concordato, se fanno una promessa, se si esibiscono a compiere qualche atto di giustizia a favore dei preti, dei Vescovi, siate sicuri che ogni cosa si porta il vento.
(1) Molto opportunamente la Calzetta del Popolo del 2 luglio ci da la traduzione di una parte del capo xx, sezione xxv del Concilia di Trento: noi la riferiremo qui in servigio del signor Pisanelli. Eccola: «Il Sacro Sinodo ammonisce inoltre l’Imperatore, il Re, le Repubbliche, i Principi, e tutti i singoli d’ogni Stato e dignità siano, perché quanto più essi sono potenti e autorevoli, tanto più santamente venerino le cose spettanti al diritto ecclesiastico, come cose di Dio, e poste sotto il suo patrocinio, e non permettano ch’esse patiscano danno per colpa di baroni, vassalli, rettori od altri signori laici, di magistrati, e specialmente di ministri degli stessi Principi; ma attendono severamente contro coloro che impediscono la libertà del Clero, le sue immunità, e la sua giurisdizione. Siano essi (Imperatore e Re) esempio ai loro subalterni con la pietà, la religione, e la protezione della Chiesa, imitando i loro ottimi e religiosissimi antecessori, che aumentarono con la loro autorità e munificenza le cose della Chiesa, e vendicarono le offese fatte ad esse, ecc. ecc.».
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Gli incameratori nel 1861 occuparono nelle Marche e nell’Umbria cento ventidue monasteri, dispersero ottocento settantasette religiosi, e concentrarono, ossia amalgamarono l’una su l’altra diciassette corporazioni, due di monache, quindici di frati. A tutto il 1861 s’erano distrutti in Italia settecento ventuno conventi, e dispersi undicimila ottocento tra monache e frati. Nei solo anno 1861 s’incamerarono i beni di centoquattro collegiate colla rendita totale di L. 524, 801, 39. Eppure la così detta Cassa ecclesiastica con tanti incameramenti ha un bilancio simile a quello del governo. La contabilità del 1861 non è ancora in ordine, sebbene siamo già nel 1863! Si conoscono i conti del 1860, e questi danno una rendita di L. 5,066, 245 e una spesa di L. 6, 805, 412. E perché? Perché si debbono mantenere i frati della Cassa che mangiano a due palmenti!
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