STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI (XI) (VOL. III)
LA QUESTIONE ROMANA SOTTO IL MINISTERO DI BEITINO RICASOLI
Dopo di avere discorso di Pio IX e di Napoleone III e della loro azione in Italia, conviene riassumere i principali tentativi per isciogliere la questione Romana, cominciando dalla morte di Cavour, e venendo fino alla Convenzione italo-franca del lo di settembre 1864. In questo tratto di tempo si succedettero tre Ministeri i quali tutti tentarono di conquistare Roma che il Parlamento avea dichiarato Capitale del Regno d’Italia. Il Ministero presieduto da Bettino Ricasoli lo tentò colle promesse, il Ministero presieduto da Urbano Rattazzi lo tentò colle minaccio e col grido Roma o Morte, passato dalla bocca di Garibaldi nelle note diplomatiche del Generale Durando; da ultimo il Ministero presieduto da Marco Minghetti lo tentò colla Convenzione.
DOCUMENTI
SULLA TENTATA SPOGLIAZIONE DEL PAPA
SOTTO IL MINISTERO RICASOLI
Documento 1.
Lettera di Bettino Ricasoli al Papa.
Torino, 10 settembre
Beatissimo Padre,
Compiono ormai dodici anni dacchè l’Italia commossa dalle parole di mansuetudine e di perdono uscite dalla vostra bocca, sperò chiusa la serie delle sue secolari sciagure, e aperta l’ora della sua rigenerazione. Ma poichè i potenti della terra l’avevano divisa fra signori diversi, e vi si erano serbato patrocinio ed imperio, quindi l’opera della rigenerazione non si potè svolgere pacificamente dentro i nostri confini, e fu necessità ricorrere alle armi per emanciparsi dalla signoria straniera accampata fra noi, perché le riforme civili non fossero impedite, o sino dai loro esordii soffocate e distrutte.
Allora voi, Beatissimo Padre, memore di essere in terra il rappresentante di un Dio di pace e di misericordia, e padre di tutti i fedeli, disdiceste la Vostra cooperazione agl’Italiani nella guerra, che era sacra per essi, della loro indipendenza; ma poichè voi eravate pure principe in Italia, così quest’atto arrecò loro una grande amarezza. Se ne irritarono gli animi, e fu spezzato quel vincolo di concorda che rendeva lieto ed efficace il procedere del nostro risorgimento.
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I disastri nazionali, che quasi immediatamente susseguirono, infiammarono vieppiù l’ardore delle passioni, e attraverso un funesto alternarsi di avvenimenti deplorabili, che tutti vorremmo dimenticati, s’impegnò fino d’allora fra la nazione italiana e la Sede Apostolica un conflitto fatale, che dura pur troppo ancora, e che certo riesce ad ambedue del pari pregiudicevole.
Una battaglia si finisce sempre o colla disfatta e la morte di uno dei combattenti, o colla loro riconciliazione. 1 diritti della nazionalità sono imperituri, come imperitura per promessa divina è la Sede di S. Pietro. Poichè pertanto niuno degli avversari può mancare sul campo, è necessario riconciliarli per non gettare il mondo in una perpetua ed orribile perturbazione. Come cattolico ed italiano, riputai doveroso, Beatissimo Padre, di meditare lungamente e profondamente l’arduo problema che il nostro tempo ci propone a risolvere; come ministro del regno italiano reputo doveroso sottomettere alla Santità Vostra le considerazioni, per le quali la conciliazione fra la Santa Sede e la nazione italiana deve essere non pure possibile, ma utilissima, mentre apparisce più che mni necessaria. Così operando non solo io segno l’impulso del mio intimo sentimento e dogli obblighi del mio ufficio quanto i convincimenti de’ miei colleghi, ma ubbidisco ancora alla espressa volontà di S. M. il Be, che, fedele alle gloriose e pie tradizioni della sua casa, ama con pari ardore la grandezza d’Italia e la grandezza della Chiesa cattolica.
Questa conciliazione pertanto sarebbe impossibile, né gl’Italiani eminentemente cattolici oserebbero desiderarla, non che dimenticarla, se per ciò fosse d’uopo che la Chiesa rinunziasse ad alcuno di quei principii o di quei diritti, che appartengono al deposito della fede ed alla istituzione immortale dell’Uomo Dio. Noi chiediamo che la Chiesa, la quale, come interprete e custode del Vangelo, portò nella umana società un principio di legislazione sopranaturale, e per quello si fece iniziatrice del progresso sociale, segua la sua divina missione, e mostri sempre più la necessità di se stessa nella inesauribile fecondità dei suoi rapporti con ciò ch’ella ha una volta iniziato ed informato. Se ad ogni passo della società procedente ella non fosso atta a creare nuove forme, sulle quali far consistere i termini successivi dell’azione sociale, la Chiesa non sarebbe una istituzione universale e sempiterna, ma un fatto temporale e caduco. Dio è immutabile nella sua essenza, eppure è infinitamente fecondo in creare nuove sostanze e in produrre nuove forme.
Di questa sua inesauribile fecondità diede fin qui la Chiesa splendidissime testimonianze, trasformandosi sapientemente nelle sue attinenze col mondo civile ad ogni nuova evoluzione sociale. Quelli che oggi pretendono che ella rimanga immobile, oserebbero essi affermare che non ha mai cambiato nella sua parte esterna, relativa e formale? Oserebbero dire che la parte formale della Chiesa sia da Leone X a noi, quale fu da Gregorio VII a Leone X, e che questa già non fosse mutata da quella che durò da S. Pietro a Gregorio VII?
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Sul principio fu bello alla Chiesa raccogliersi nelle catacombe alla contemplazione delle verità eterne, povera ed ignorata dal mondo; ma quando i fedeli per la conseguita libertà uscirono all’aperto e strinsero nuovo vincolo fra loro, allora l’altare si trasportò dalla nudità delle catacombe allo splendore delle basiliche, e il culto e i ministri del culto parteciparono a quello splendore; e all’ascosa preghiera aggiunse la Chiesa il pubblico e solenne eloquio del magistero, che già cominciava ad esercitare splendidamente sulle genti.
Nella confusione e nel cozzo dei varii e spesso contrari elementi, coi quali si preparava nel medio evo l’era moderna, mercé della Chiesa il concetto cristiano si realizzò nelle relazioni di famiglia, di città, di Stato; creò nella coscienza il dogma di un diritto pubblico, e nella sua legislazione ne chiarì l’uso e fe’ sentirne i vantaggi; e allora la Chiesa divenne anco potere civile, e si fe’ giudice dei principi e dei popoli. Ma quando la società si fu educata ed ebbe ammaestrata ed illuminata la sua ragione, cessò il bisogno, e col bisogno si sciolse il vincolo della tutela clericale; si ricercarono e si ripresero le tradizioni della civiltà antica, ed un Pontefice meritò per quell’opera di dare il suo nome al suo secolo.
Se dunque la Chiesa, imitando Dio, suo archetipo, il quale, benchè onnipotente ed infallibile, pure modera con sapienza infinita l’esercizio della sua potenza in guisa che non ne soffra scapito la libertà umana, seppe finora contemperarsi, conservando intemerata la purità del dogma, alle necessità derivate dalle varie trasformazioni sociali; coloro che la vorrebbero immobile ed isolata dalla società civile, nimicandola allo spirito dei tempi nuovi, non sono essi che le recano ingiuria, non sono essi ohe la danneggiano anzichè noi, i quali solo le domandiamo ch’ella conservi l’alto suo magistero spirituale e sia moderatrice nell’ordine morale di quella libertà, per cui i popoli, ormai giunti alla maturità della ragione, hanno diritto di non ubbidire, né a leggi, né a governi, se non consentiti da loro nei modi legittimi?
Come la Chiesa non può per suo istituto avversare le oneste civili libertà, così non può non essere amica dello svolgimento della nazionalità. Fu provvidenziale consiglio che la gente umana venisse così a ripartirsi in gruppi distinti secondo la stirpe e la lingua con certa sede dove posassero e dove, quasi ad un modo contemperati in una certa concordanza di affetti e di istituzioni, né disturbassero le sedi altrui, né patissero di essere disturbate nelle loro proprie. Quale sia il pregio in che debbe aversi la nazionalità t’ha detto Iddio quando, volendo punire il popolo ebreo ribelle alle ammonizioni ed ai castighi, metteva mano al castigo più terribile di tutti, dando quel popolo in balia di gente straniera. Voi stesso l’avete mostrato, Beatissimo Padre, quando all’Imperatore d’Austria scrivevate nel 1848 esortandolo a «cessare una guerra che non avrebbe riconquistato all’Impero gli animi dei Lombardi e dei Veneti, onestamente alteri della e propria nazionalità».
Il concetto cristiano del potere sociale, siccome non comporta la oppressione d’individuo a individuo, così non la comporta da nazione a nazione. Né la conquista può mai legittimare la signoria di una nazione sopra un’altra, perché la forza bruta non è capace a creare il diritto. Non voglio in appoggio di questo vero autorità migliore. Beatissimo Padre, delle parole solenni del vostro predecessore nella cattedra di S. Pietro, Gregorio XVI:
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«Un ingiusto conquistatore con tutta la sua potenza non può mai spogliare la nazione, ingiustamente conquistata, dei suoi diritti. Potrà con la l’orza ridurla schiava, rovesciare i suoi tribunali, uccidere i suoi rappresentanti, ma non potrà giammai indipendentemente dal suo consenso tacito o espresso privarla dei suoi originali diritti relativamente a quei magistrati, a quei tribunali, a quella forma cioè che la costituivano imperante (I)».
Gl’Italiani pertanto, rivendicando i loro diritti di nazione, e costituendosi in regno con liberi ordinamenti, non hanno contravvenuto ad alcun principio religioso e civile; nella loro fede di cristiani e di cattolici non hanno trovato alcun precetto che condannasse il loro operato. — Che essi mettendosi sulla via che»la Provvidenza loro schiudeva davanti non avessero in animo di fare ingiuria alla religione, né danno alla Chiesa, lo prova l’esultanza e la venerazione, di cui vi circondarono nei primordii del vostro Pontificato; lo prova il dolore profondo e Io sgomento, col quale accolsero l’Enciclica del 29 aprile. Essi ebbero a deplorare che nell’animo vostro anzichè consentire, miseramente fra loro si combattessero i doveri di Pontefice con quelli di Principe; essi desideravano che una conciliazione si potesse ottenere fra le due eminenti qualità che si riuniscono nella sacra vostra persona. Ma sventuratameute per proteste ripetute e per l’atti non oscuri essi ebbero a persuadersi che questa conciliazione non era possibile, e non potendo rinunziare all’essere loro ed ai diritti imprescrittibili della nazione, come non avrebbero mai rinunziato alla fede dei padri loro, crederono necessario che il Principe cedesse al Pontefice.
Non potevano gl’Italiani non tener conto delle contraddizioni, nelle quali, a causa della riunione di queste due qualità nella stessa persona, frequentemente incorreva la Sede Apostolica.
Queste contraddizioni, mentre irritavano gli animi contro il Principe, certo non giovavano a crescere riverenza al Pontefice. Si veniva allora ad esaminare le origini di questo potere, i suoi procedimenti e l’uso; e bisogna pur confessare che quest’esame non gli tornava sotto più riguardi favorevole. Si considerava la sua necessità, la sua utilità nelle relazioni colla Chiesa. L’opinione pubblica non rispondeva favorevolmente sotto questo aspetto.
Porgendo il Vangelo molti detti e fatti di spregio e di condanna dei beni terrestri, né meno porgendo Cristo molti avvertimenti ai discepoli, che non si abbiano da dar pensiero ne di possesso, né d’imperio, non riescirebbe agevole trovare anche un solo dei dottori e dei teologi della Chiesa, il quale affermasse necessario all’esercizio del suo santo ministero il principato.
Fu tempo forse, quando tuiti i diritti erano incerti ed in balìa della forza, che all’indipendenza della Chiesa giovò il prestigio di una sovranità temporale. Ma poichè dal caos del medio evo uscirono gli stati moderni, e si furono consolidati colle successive aggregazioni dei loro elementi naturali, e il diritto pubblico europeo si fondò sopra basi ragionevoli e giuste, che giovò alla Chiesa il possedere piccolo regno, se non ad agitarla fra le contraddizioni e le ambagi della politica, distrarla colla cura degl’interessi mondani dalla cura dei beni celesti, farla serva alle gelosie, alle cupidigie, alle insidie dei potenti della terra?
(1) Mauro Cappellari, poi Gregorio XVI. Il trionfo della Santa Sede. Discorso preliminare— edizione del 1799.
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lo verrei, Santo Padre, che la rettitudine del vostro intelletto e della vostra coscienza, e la bontà del vostro cuore giudicassero soli, se ciò sia giusto ed utile e decoroso alla Santa Sede e alla Chiesa.
Intanto questo deplorabile conflitto arreca le più tristi conseguenze non men per l’Italia che per la Chiesa. Il Clero già si divide tra sè, già si divide il gregge dai suoi pastori. Vi hanno Prelati, Vescovi, sacerdoti, che apertamente ricusano associarsi alla guerra che si fa da Roma al regno italiano; molti più vi ripugnano nel loro segreto. Le moltitudini veggono con indignazione ministri del santuario mescolarsi in cospirazioni contro lo Stato e negare al voto pubblico la preghiera dimandata dalle autorità; e fremono impazienti quando odono da! pergamo abusata la divina parola per farne strumento di biasimo è di maledizione contro tutto ciò che gl’Italiani appresero ad ammirare e benedire. Le moltitudini, non use a distinguere troppo sottilmente le cose, potrebbero alla fine essere indotte ad attribuire il fatto degli uomini alla religione, di cui sono ministri, ed alienarsi da quella comunione, alla quale da diciotto secoli gl’Italiani hanno la gloria e la fortuna di appartenere.
Non vogliate, Santo Padre, non vogliate sospendere sull’abisso del dubbio un popolo intero, che sinceramente desidera potervi credere e venerarvi. La Chiesa ha bisogno di essere libera, e noi le renderemo intera la sua libertà. Noi più di tutti vogliamo che la Chiesa sia libera, perché la sua libertà è garanzia della nostra; ma per essere libera è necessario ch’ella si sciolga dai lacci della politica, pei quali finora ella fu strumento contro di noi in mano or dell’uno, or dell’altro dei potentati.
La Chiesa ha da insegnare le verità eterne coll’autorità divina del suo celeste fondatore, che mai non le manca di sua assistenza: ella dev’essere la mediatrice fra i combattenti, la tutrice dei deboli e degli oppressi: ma quanto più docili orecchi troverà la sua voce, se non si potrà sospettare che interessi mondani la inspirino! Voi potete, Santo Padre, innovare anco una volta la faccia del mondo; voi potete condurre la Sede Apostolica ad una altezza ignorata per molti secoli dalla Chiesa. Se volete essere maggiore dei Re della terra, spogliatevi delle miserie del regno, che vi agguaglia a loro. L’Italia vi darà sede sicura, libertà intera, grandezza nuova. Ella venera il Pontefice, ma non potrebbe arrestarsi innanzi al Principe; ella vuoi rimanere cattolica, ma vuoi esser libera e indipendente nazione. Che se voi vorrete ascoltare la preghiera di questa figlia prediletta, guadagnerete sugli animi l’impero che avete rinunziato come Principe, e dall’alto del Vaticano, quando voi leverete la mano per benedire Roma e il mondo, vedrete le nazioni, restituite ai loro diritti, curvarsi riverenti innanzi a voi, loro vindice e patrono.
RICASOLI
In questa lettera l’ipocrisia è eguale alla ignoranza, e l’audacia, e i tranelli, e le contraddizioni del Barone che osa trattare a tu per tu col Santo Padre Pio IX, dànno al documento tale una dose di ridicolo da chiamare. il riso sulle labbra d’Eraclito. Bettino Ricasoli scrive al Papa: cedetemi il vostro regno, e così sarete più libero! Che cosa si direbbe d’un francese, che scrivesse a Napoleone III: rinunziale l’impero, e andatevene in America, dove godrete maggior libertà?
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Quand’anche Napoleone III non fosse quell’uomo oculato e destro che è, non avrebbe certamente assunto l’incarico di trasmettere al Santo Padre una lettera così indegna e così ridicola. Il barone Ricasoli avrebbe dovuto capire che l’Imperatore dei Francesi, rifiutando di far da mediatore tra lui ed il Papa, gli diede una lezione di galateo e di civiltà nel trattare col Capo della Chiesa. Quindi il Barone Ricasoli invece di presentare questa sua bruttura alla Camera avrebbe dovuto distruggerne perfino la memoria.
DOCUMENTO II.
Una sola cosa vogliamo notare relativamente a questo documento. Il sig. Ricasoli osa affermare che le risposte date dal Santo Padre alle lettere di S. M. il Re Vittorio Emanuele furono «di tal genere da recare offesa alla dignità regia». Noi sfidiamo il sig. Ricasoli ad indicarci in quale lettera al Re Vittorio Emanuele e con quali parole Pio IX abbia recato offesa alla dignità regia. Se le ammonizioni che il Capo della Chiesa da ad un Sovrano, come è suo diritto e dovere, sono dette offese alla dignità regia dal Presidente del Consiglio, allora questi non ha veruna idea né di un Papa, né di un Re cattolico. Ecco il documento.
Lettera all’Ill.mo sig. comm. Costantino Nigra, inviato straordinario
e ministro plenipotenziario di S. M. il Re d’Italia a Parigi.
Torino, 10 settembre 1861.
Ill.mo signor Ministro,
Dalle ultime comunicazioni che ho avuto l’onore di cambiare colla V. S. Illustrissima, Ella avrà potuto rilevare come siano incessanti e ognora più gravi le preoccupazioni nel governo del Re intorno alla questione romana.
Mentre il governo non si dissimula!e molle difficoltà che si oppongono ad una soluzione, quale i diritti e le necessità italiane la vogliano, per la molliplicità e la grandezza degl’interessi che vi sono implicati, non può d’altro canto dissimularsi i pericoli d’una troppo lunga dilazione, i quali per varie cause si vanno facendo di giorno in giorno più urgenti. Non vi è quasi difficoltà interna, di cui l’opinione pubblica fra gl’Italiani non riferisca l’origine alla mancanza della capitale, Roma. Nessuno è persuaso che possa stabilirsi un assetto soddisfacente dell’amministrazione dello Slato, finché il centro dell’amministrazione non sia traslocato a Roma, punto egualmente distante dagli estremi della Penisola. La logica dell’unità nazionale, sentimento che oggi prevale fra gl’Italiani, non comporta che l’unità sia spezzata dallo inframmettersi nel cuore del regno di uno Stato eterogeneo, e per di più ostile. Poiché bisogna pur dire che le impazienze legittime della nazione pel possesso della sua capitale sono attizzate dal contegno della Curia romana nelle cose di Napoli. Non insisterò su questo punto, sul quale la S. V. ebbe le più ampie informazioni nel mio dispaccio circolare del 24 agosto decorso, ma richiamerò la sua attenzione sugli argomenti che ne emergono in favore di una pronta risoluzione degli affari di Roma.
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Il governo del Re per altro, se da un lato sente questa urgenza, non ha dimenticato dall’altro gl’impegni presi con se stesso e in faccia all’Europa colle sue solenni dichiarazioni. E se anche queste non fossero, egli già sarebbe per proprio sentimento persuaso del dovere di procedere con ogni rispetto versa il Pontefice, in cui venera il Capo della cattolicità, e con ogni riguardo verso S. M. l’Imperatore dei Francesi, nostro glorioso alleato, il quale colla presenza delle sue truppe intende guarentire che la sicurezza personale del Papa e gli interessi cattolici non soffrano nocumento.
Ritenuto pertanto negl’Italiani l’incontestabile diritto di aver Roma, che appartiene alla nazione, e per conseguenza nel governo italiano l’imprescindibile dovere di condurre le cose a questo termine; dirimpetto all’attitudine della unanime pubblica opinione; per evitare gravi disturbi ed impeti inconsiderati sempre deplorabili anco se prevenuti o repressi, il governo ha stimato di fare un ultimo appello alla rettitudine della mente e alla bontà del cuore del Pontefice per venire a un accordo sulle basi della piena libertà della Chiesa da una parte, abbandonando il governo italiano qualsivoglia immistione nelle materie religiose, e della rinuncia dall’altra del potere temporale.
La S. V. troverà allegata in copia la lettera, che per ordine espresso di S. M. ho avuto l’onore d’indirizzare su questo proposito alla Santità del Papa Pio IX. La V. S. si compiacerà comunicare questo documento al governo di S. M. l’Imperatore dei Francesi, presso il quale ella è accreditato, pregandolo innanzi tutto che voglia commettere al rappresentante del governo imperiale a Roma, di far pervenire alle mani di Sua Santità l’indirizzo qui acchiuso e il capitolo annesso. La mancanza d’ogni rapporto diplomatico fra il governo italiano e la Santa Sede non ci permette di far pervenire al Santo Padre in modo diretto questi due documenti. ÌNé la irritazione degli animi che disgraziatamente esiste a Roma verso di noi, permette nemmeno di inviare colà a questo fine una missione straordinaria con la quale la Corte Romana ricuserebbe probabilmente ogni specie di rapporto.
La benevola mediazione della Francia è adunque indispensabile, affinchè i due documenti sopraccennati possano giungere fino alle mani di Sua Santità, e possa in tal guisa sperimentarsi anche questo modo d’intelligenza e d’accordo, I benefizi d’una conciliazione sono tanto grandi ed evidenti per tutti, che io nutro fiducia che in contemplazione della possibilità dei medesimi, il governo di S. M. l’Imperatore si compiacerà di aderire al desiderio del governo italiano. Ella vorrà inoltre ricordare che nella mia nota del 21 giugno al conte di Gropello io dichiarava, che lasciando all’alto senno dell’imperatore di stabilire il momento opportuno, in cui Roma senza pericolo potesse lasciarsi a se stessa, noi ci saremmo fatto un dovere di facilitare la soluzione di quella quistione, colla speranza che il governo francese non ci avrebbe rifiutati i suoi buoni uffici per indurre la Corte di Roma ad accettare un accordo che sarebbe fecondo di fauste conseguenze alla religione e all’Italia,
Ella è incaricata pertanto d’invocare i buoni uffici cui qui si accenna, non solo perché la nostra preghiera pervenga al Santo Padre, ma eziandio perché sia. presso di lui efficacemente patrocinata. Nessuna voce può essere più autorevole a Roma, né con più, condiscendenza ascoltata di quella della Francia, che veglia colà da dodici anni colla sua possente rispettata tutela.
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Mentre la S. V. avrà cura di esprimere al governo di S. M. I. quanto sia piena la nostra fiducia nelle sue benevole disposizioni e nell’efficacia’ della sua intromissione in questo rilevantissimo affare. Ella vorrà ancora far sentire che il governo del Re, se quest’ultimo tentativo per disavventura venisse a fallire, si troverebbe avvolto in gravissime difficoltà; e che, malgrado tutto il suo buon volere per temperare le dolorose conseguenze che potessero emergere da un rifiuto della Curia Romana sia nell’ordine religioso, sia nell’ordine politico, non potrebbe impedire però che lo spirito pubblico degl’Italiani non venisse vivamente e profondamente a commuoversi.
Gli effetti di una ripulsa si possono più facilmente prevedere che calcolare: ma è certo che il sentimento religioso negl’Italiani ne riceverebbe una grandissima scossa, e che l’impazienza della nazione, che finora sono contenute dalla speranza di una risoluzione più o meno prossima, diverrebbero molto difficilmente frenabili.
Innanzi di por fine al presente dispaccio io credo non inutile prevenire un obbietto che forse potrebbe venirle fatto riguardo alla forma seguita in questa grave Decorrenza. Può sembrare a taluno non conforme agli usi, alle tradizioni e forse anche alla riverenza, che l’indirizzo rivolto al Sommo Pontefice, sia firmalo da me, anziché da S. M. il Re nostro. Questa deviazione dalle pratiche generalmente accettate riconosce due cause. Prima di tutto è da sapersi, e V. S. III. Ma non lo ignora per certo, che in altre occasioni analoghe a quella in cui ci troviamo, S. M. si è personalmente indirizzata al Papa, e, o non ne ha ricevuto risposta, o ne ha ricevuto di tal genere da recare offesa alla diguità regia. Non era dunque possibile dopo tali precedenti esporre a nuovo pericolo di offesa il decoro del nostro Sovrano. È sembrato di più al governo del Re che in una occasione in cui rispettosamente si rivolge la parola al Sommo Pontefice a nome della nazione italiana, l’interprete consueto delle deliberazioni del potere esecutivo, che sopratutto in assenza del Parlamento italiano, si è quello che rappresenta la nazione medesima, dovesse pure esser quello che si faceva interprete dei suoi voli e dei suoi sentimenti.
Autorizzo la S. V. a dar lettura e rilasciar copia del presente e della lettera per S. S. a S. E. il ministro degli affari esteri.
RICASOLI
Documento III
Lettera a Sua Eminenza il Cardinale Antonelli,
segretario di Stato di S. S. a Roma.
Torino, il 10 settembre 1861.
Eminenza,
11 governo di S. M. il Ré Vittorio Emanuele, gravemente preoccupalo dalle funeste conseguenze che, tanto nell’ordine religioso quanto nell’ordine politico, potrebbero derivare dal contegno assunto dalla Corte di Roma verso la nazione italiana e il suo governo, ha voluto fare appello ancora una volta alla mente ed al cuore del Santo Padre, perché nella sua sapienza e nella sua bontà consenta ad un accordo, che lasciando intatti i diritti della nazione, provvederebbe efficacemente alla dignità ed alla grandezza della Chiesa.
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Ho l’onore di trasmettere all’E. V. la lettera che, per ordine espresso di S. M. il Re, ho umiliata alla Santità del Pontefice.
Per l’eminente sua dignità nella Chiesa, pel luogo cospicuo che ha nell’amministrazione dello Stato, non meno che per la fiducia che S. S. in lei ripone, ella meglio di ogni altro potrebbe porgere in questa occasione utili ed ascoltati consigli.
Al sentimento dei veri interessi della Chiesa non può non accoppiarsi nell’animo dell’E. V. il sentimento della prosperità di una nazione, cui ella appartiene per nascita; e quindi spero che si studierà di riuscire in un’opera che la farà benemerita della Santa Sede non solo, ma di tutto il mondo cattolico.
Ricasoli.
Documento IV.
Ci restringiamo a ricordare che il Ministero piemontese ha dichiarato che esso non si tiene vincolato dai Concordati ossia trattati colla S. Sede. Quindi, qualora gli articoli fossero anche tali che potessero essere accettati dalla S. Sede, come mai questa potrebbe far assegnamento sulle guarentigie offerte dal Piemonte?
Capitolato.
Art. 1. Il Sommo Pontefice conserva la dignità, la inviolabilità e tutte le altre prerogative della sovranità, ed inoltre quelle preminenze rispetto al Re ed agli altri Sovrani, che sono stabilite dalle consuetudini.
I Cardinali di Santa Madre Chiesa conservano il titolo di principi e le onorificenze relative.
Art. 2. Il governo di S. M. il Re d’Italia assume l’impegno di non frapporre ostacolo in veruna occasione agli atti che il Sommo Pontefice esercita per diritto divino come Capo della Chiesa, e per diritto canonico come patriarca d’Occidente e primate d’Italia.
Art. 3. Lo stesso governo riconosce nel Sommo Pontefice il diritto d’inviare i suoi nunzi all’estero, e s’impegna a proteggerli, finché saranno sul territorio. dello Stato.
Art. 4. Il Sommo Pontefice avrà libera comunicazione con tutti i Vescovi e i fedeli, e reciprocamente, senza ingerenza governativa.
Potrà perimenti convocare, nei luoghi e nei modi che crederà opportuni, i Concilii e i Sinodi ecclesiastici.
Art. 5. I Vescovi nelle loro diocesi e i parrochi nelle loro parrocchie saranno indipendenti da ogni ingerenza governativa nell’esercizio del loro ministero.
Art. 6. Essi però rimangono soggetti al diritto comune quando si tratti di reati puniti dalle leggi del regno.
Art. 7. S. M. rinuncia ad ogni patronato sui benefizi ecclesiastici.
Ari. 8. Il governo italiano rinuncia a qualunque ingerenza nella nomina dei Vescovi.
Art. 9. ti governo medesimo si obbliga di fornire alla Santa Sede una dotazione fissa ed intangibile in quella somma che sarà concordata.
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Art. 10. Il governo di S. M. il Re d’Italia, all’oggetto che tutte le Potenze è tutti i popoli cattolici possano concorrere al mantenimento della Santa Sede, aprirà con le Potenze istesse i negoziati opportuni per determinare la quota, per la quale ciascheduna di esse concorre nella dotazione di cui è parola nell’articolo precedente.
Art. 11. Le trattative avranno altresì per oggetto di ottenere guarentigie di quanto è stabilito negli articoli antecedenti.
Art. 12. Mediante queste condizioni il Sommo Pontefice verrà col governo di S. M. il Re d’Italia ad un accordo per mezzo di commissari che saranno a lale effetto delegati.
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