STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI (XI)
MORTE ED EPISTOLARIO DEL CONTE DI CAVOUR
Abbiamo incominciato il primo quaderno della terza serie delle Memorie per la storia de’ nostri tempi discorrendo della nascita del Regno d’Italia, ed incominceremo questo secondo favellando della morte del Conte di Cavour, l’uomo clie, dopo Napoleone III, più cooperasse alla rivoluzione italiana. L’ordine cronologico ci obbliga a passare cosi presto dalla culla alla tomba, avvegnachè pochi mesi dopo la nascita del famoso Regno, cessasse di vivere chi l’aveva messo al mondo. Del Conte di Cavour già abbiamo parlato nei precedenti volumi, massime nel primo, dipingendolo colle parole non sospette de’ suoi colleghi. Ci avverrà di doverne discorrere ancora più tardi. Qui recheremo la storia della sua morte come fu raccontata dalla nipote del famoso ministro. Poi raccoglieremo alcuni documenti sul defunto, quali vennero pubblicati nel 1862 da Domenico Berti, e nel 1863 da Nicomede Bianchi.
LA MORTE DEL CONTE DI CAVOUR RACCONTATA DA SUA NIPOTE
La contessa Alfieri, nipote del conte di Cavour, ha scritto una lettera al signor William de la Rive, dove racconta i particolari dell’ultima malattia di suo zio. L’Opinione del 26 di luglio 1862, N? 203, stampa questa lettera, e noi la riproduciamo come quella che potrà servire più tardi di documento così alla storia politica, come alla ecclesiastica. La delicatezza ci vieta ogni osservazione, e lasciamo quindi libera la parola alla contessa Alfieri-Cavour.
Il mercoledì, 29 maggio, dopo una lunga e tempestosa discussione in Parlamento circa i volontari italiani, mio zio si ridusse a casa triste, affaticato, preoccupato. Si riposò per qualche momento, disse al suo domestico che, vedendolo così disfatto, lo eccitava a prendersi qualche giorno di congedo: ?Non ne posso più, ma bisogna lavorare egualmente, il paese ha bisogno di me; forse questa state potrò andare a riposarmi in Isvizzera presso dei miei amici?. Poscia pranzò secondo la sua abitudine con suo fratello e suo nipote. Mangiò con abbastanza buon appetito, parlò della discussione del giorno, s’intrattenne d’affari di famiglia e fra gli altri impegnò vivamente mio padre a ristaurare il castello d1 Santena. ?è là soggiunse egli, che io voglio riposare un giorno vicino a’ miei?.
Dopo pranzo andò a fumare il suo sigaro sul balcone, ma dei leggieri brividi l’obbligarono a ricondursi nella sala; di là ben tosto si ritirò nel suo appartamento per dormirvi come era assuefatto.
Dormì un’ora circa; il suo risvegliarsi fu penoso ed un vomito violento succedette ad un malessere indefinibile. Si decise allora a coricarsi e licenziò il domestico che esitava a ritirarsi. Verso mezzanotte questo domestico che occupava una camera collocata al disotto di quella di mio zio, sentendo un rumore insolito, intese l’orecchio e riconobbe il passo precipitato del suo padrone.
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Esso non osò salire, giacchè da più mesi mio zio lavorava durante una gran, parte della notte o passeggiava nel suo appartamento parlando ad alta voce. Ma un violento colpo di campanello non tardò a togliere dalla perplessità il domestico, il quale, accorrendo, trovò il suo padrone disceso dal letto colla fisionomia alterata ed in preda a violenti dolori intestini. ?Ho, disse il conte, una delle mie abituali indisposizioni e temo un attacco di apoplessia; andate a cercarmi un medico?.
Si andò subito dal dottor Rossi, allievo del signor Tarella, che da più di venti anni era stato l’amico ed il medico della famiglia Cavour. Il signor Rossi che, dopo la morte del dottor Tarella, avea curato mio zio in tutte le sue malattie, tentò da prima di combattere il vomito; ma riconoscendo bentosto l’inutilità de’ suoi sforzi, ordine un primo salasso che recò sollievo all’ammalato. A otto ore del mattino ne praticò un secondo ed a cinque ore della sera un terzo. lo non vidi mio zio che dopo quest’ultima operazione; lo trovai in preda ad una febbre cosi forte, così affaticato, così sofferente, e così agitato che mi fermai soli pochi minuti vicino a lui…
La notte che tenue dietro a questa triste giornata fu abbastanza buona ed il venerdì 31 maggio la febbre era scomparsa. Malgrado le raccomandazioni del medico, mio zio ricevette i ministri e tenne con essi un consiglio che durò due ore e lavorò il resto del mattino col signor Nigra e col signor Artom. Quando sortivano questi ultimi, io entrai e non voleva che stringere la mano a mio zio, ma esso mi fece sedere al suo capezzale, mi disse che si sentiva pienamente guarito, che se non lo si avesse salassato tre volte il giorno innanzi avrebbe fatta una malattia di 15 giorni, e che non era tanto libero da spendere così il suo tempo. ?Il Parlamento e l’Italia, soggiunse, hanno bisogno di me?. Questo pensiero dovea ripetere senza posa e sotto mille forme diverse durante i giorni seguenti allorquando il delirio lo tormentava e quando lo si vedeva privo d’ogni altra facoltà, non essere più animato che dall’amore di quella patria, di cui parlò fino all’ultimo suo respiro. Esso mi tenne lungamente presso di lui, e la nostra conversazione si aggirò su di una quantità di oggetti.
Dopo la mia partenza, mio fratello volendo costringere suo zio a prendere qualche riposo, si pose di sentinella e non lasciò più entrare nessuno; verso undici ore vedendo il malato tranquillo, si ritirò, ma era scorsa appena una mezz’ora che fu chiamato da un domestico che venne in fretta a dirgli come il conte fosse stato preso da un violento brivido.
Mio fratello accorse tosto e trovò suo zio in preda ad una febbre violenta accompagnata da delirio. Non si allontanò più da lui. Alle cinque giunse il medico che constatò una febbre periodica ed ordinò il chinino, ma un disturbo di visceri annullò l’effetto del rimedio. Si ricorse allora ai mezzi ordinarii e due nuovi salassi vennero praticati nella giornata del sabato 1° giugno.
Questi due salassi procurarono a mio zio una notte più tranquilla della precedente. Tuttavia si lagnò di un freddo intenso.
Quando il mattino della domenica io giunsi al palazzo Cavour, trovai i domestici assai spaventati ed in lagrime.
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?II signor conte è perduto, mi dicevano essi, il signor conte non guarirà; i rimedi non agiscono più, il dottore Rossi lo ha trovato senza febbre, ma noi che lo conosciamo, sappiamo come stanno le cose?.
Tremante, entrai nella camera di mio zio e lo trovai pallido, affranto, assopito. M’invitò a lasciarlo solo ed a prender parte alla festa dello Statuto che si celebrava per la prima volta in tutta l’Italia. Io rifiuto; egli insiste. Allora, prima di ritirarmi, gli chiedo di lasciarmi tastare il suo polso; quello del braccio destro è calmo e regolare. Io pongo quindi la mia mano sulla sua mano e sul suo avambraccio destro, e con grande mio terrore li sento freddi come il marmo. Essi non dovevano più riscaldarsi.
Dopo la mia partenza, mio zio congedò mio padre e mio fratello, chiese l’ultimo volume della Storia del Consolalo e dell’Impero e si provò a leggerlo, ma ben tosto lo restituì al domestico dicendo: ci è strano non so più leggere, non posso più leggere?. Poi ordinò che gli si rifacesse il letto. Ma facendogli il domestico qualche rimostranza, egli pose bruscamente i piedi a terra e disse ridendo: ?Ora converrà bene che tu m’obbedisca!?. Questo movimento violento fa riaprire il salasso; mio zio tenta indarno di fermare il sangue che sgorga con impeto.
Le cure del domestico non hanno esito più felice. Finalmente giunge il chirurgo che riesce ad arrestare l’emorragia. Qualche ora più tardi, una febbre violenta assaliva il conte, il suo respiro diveniva affannoso, la sua pelle ardeva e la sua testa incominciava a vacillare; ma tuttavia esponeva con ammirabile giustezza ciò che aveva fatto per l’Italia, ciò che ancora gli rimaneva a fare, i suoi disegni per l’avvenire ed i mezzi arditi che si proponeva d’impiegare, dimostrandosi preoccupato esclusivamente degl’interessi del paese, esprimendo il timore che la notizia della sua malattia compromettesse il buon successo dell’imprestito di 400 milioni che lo Stato era in procinto di fare. La notte fu sì cattiva, che il mattino del lunedì il dottor Rossi chiese un consulto. Mentre mio fratello correva dal dottore Melloni, lo stato dell’ammalato s’aggravava, l’agitazione aumentava, il respiro diveniva ognor più affannoso, e la sete si faceta sì intensa, che ad ogni minuto mio zio prendeva dei pezzi di ghiaccio o beveva dell’acqua di seltz agghiacciata. Tutto ad un trailo rivolgendosi ad dottor Rossi, gli disse: La mia testa si confonde ed ho bisogno di tulle le mie facoltà per trattare dei gravi affari; fatemi salassare; solo un salasso può salvarmi?. Il medico consentì e fece chiamare il chirurgo. Questi praticò una nuova incisione, ma il sangue non uscì; a forza di comprimere la vena si riuscì ad estrarre due o Ire oncie d’un sangue nero e coagulato. Quando ebbe terminalo, il chirurgo mi disse: ?Sono assai inquieto sullo stato del signor conte; la natura è già inerte; non ha ella osservato che i salassi dei primi giorni non sono neppure cicatrizzati??. In quel momento mi venne annunziato il dottore Mattoni, il quale impallidì quando fu informato di quanto era accaduto.
Convenne disporre mio zio al consulto. Egli non voleva udirne a parlare, dichiarando che aveva piena fiducia nel dottor Rossi, ma finì per cedere alle sollecitudini di mio padre e di mio fratello e mi disse: ?Fa entrare i medici, giacche anche tu desideri che io li veda Signori, egli aggiunse quando li vide, mi guariscano prontamente, ho l’Italia sulle braccia, ed il tempo è prezioso.
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Domenica debbo recarmi a Bardonné che per visitare col signor Bixio ed altri amici di Parigi i lavori del Moncenisio. Io non intendo punto quale sia la mia malattia. Essa resiste alla solita cura; ho sofferto assai negli scorsi giorni, ora non soffro più, ma non posso lavorare, né porre insieme due idee, credo che la sede del male sia la mia povera testa?. I medici gli risposero che la sua malattia era una febbre periodica con minaccia di trasporto al cervello; che quest’ultimo pericolo era stato combattuto col mezzo dei salassi, ed ora faceva d’uopo d’impedire ad ogni costo il ritorno della febbre; per conseguenza ordinarono una forte dose di solfato di chinino liquido da prendersi in tre volte prima delle ore H di sera.
Questa prescrizione dispiacque a mio zio, che chiese delle pillole. I medici rifiutarono. Si portò il chinino liquido, esso lo respinse; io presi allora il bicchiere e lo presentai al mio zio, pregandolo a beverne il contenuto per farmi piacere. ?Ho, mi rispose, una invincibile ripugnanza per questo rimedio che mi fa l’effetto di un veleno, ma non voglio rifiutarti cosa alcuna?. Prese il bicchiere dalle mie mani, ingoiò il liquido d’un sol tratto e mi chiese se era contenta; ma il vomito non tardò a giustificare la sua istintiva ripugnanza, e si rinnovò ogniqualvolta tentò di prendere quel rimedio.
A 9 ore di sera si annunciò il principe di Carignano: mio fratello ed io, che temevamo l’emozione che poteva produrre una tal visita, andavamo incontro al Principe, ma mio zio avendone conosciuta la voce, volle ad ogni costo vederlo, è parlò con lui durante un quarto d’ora circa. Nell’uscire il Principe disse: ?Non affliggetevi, il conte non istà così male, come vi immaginate; egli è forte e robusto, e supererà la malattia. Esso ha troppo lavorato in questi ultimi tempi; ha bisogno di riposo e di tranquillità?.
Durante il resto della sera, mio zio fu abbastanza calmo; ma ad un’ora l’accesso della febbre ritornò ancora più violento del giorno innanzi, il delirio ricominciava accompagnato da un’agitazione terribile. I medici, che arrivarono all’alba, ordinarono dei senapismi alle gambe e sulla testa e l’applicazione continua di vesciche piene di ghiaccio. 1 senapismi non ebbero nemmeno la efficacia di far diventar rossa la pelle, ed il malato respingeva continuamente le vesciche che si tenevano sull’ardente sua fronte, dicendo: ?Non mi tormentate; lasciatemi riposare?. Essendo rimasto solo per un momento col suo domestico, gli disse: ?Martino, è forza separarci; quando sarà tempo, farai chiamare il Padre Giacomo, parroco della Madonna degli Angeli, che mi ha promesso di assistermi ne’ miei ultimi momenti. Manda ora a chiamare il signor Castelli ed il signor Farini; debbo parlare con essi?.
Tentò indarno ed a varie riprese di fare le sue ultime confidenze a! signor Castelli. Un po’ più fortunato col signor Farini, riuscì a dirgli: ?Voi mi avete curato e guarito da una simile malattia qualche anno fa; mi rimetto in voi, consultate i medici, ponetevi d’accordo con loro e decidete sul da farsi?.
Il signor Farini insisté affinché si continuassero le applicazioni di ghiaccio. Mio zio vi si sottopose; quindi il signor Farini fece preparare ed applicare sotto i proprii occhi de’ senapismi più violenti, ma senza miglior esito che il giorno precedente. Quel giorno mio zio parlò continuamente del riconoscimento del regno d’Italia per parte della Francia,
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d’una lettera che il signor Vimercati doveva recare da Parigi, e chiedeva con insistenza di vedere il signor Artom, col quale doveva trattare di affari; poi passando alla marina: ?Ci abbisognano, egli disse, vent’anni per creare una flotta capace di proteggere e difendere le nostre coste, ma ci riusciremo: ho diretto tutti i miei sforzi a questo scopo, e l’unione tra la nostra antica marina e la marina napoletana è fatta.
?Perché non si è fatto Io stesso per l’armata di terra? Ciò avrebbe forse dispiaciuto al nostro esercito. Del resto, in certe eventualità, Garibaldi e i suoi volontari ci saranno incontestabilmente utili. Eppure è d’uopo che io rinunzi al portafoglio della marina, sono troppo stanco, troppo sovracarico di lavoro. Il generale Menabrea consentirà egli a surrogarmi? Io lo credo capacissimo di creare ed ordinare la marina italiana. è questa una buona idea ch’io ho avuta; no, no, non mi rifiuterà il suo concorso?.
Il martedì a sera la notizia della gravi tà della malattia di mio zio si era sparsa per la città; il palazzo Cavour fu come assediato dalla popolazione di Torino e si dovette lasciare aperto tutta la notte. L’appartamento, lo scalone, il vestibolo, il cortile, non restarono mai sgombri un solo momento, e quando alle ore due io mi ritirai, ebbi gran fatica a farmi strada in mezzo ad una folla cupa, silenziosa e desolata. La notte fu cattiva, lo stato dell’ammalato peggiorò talmente, che al mercoledì mattina i medici interrogati dal marchese di Rorà e dal mio fratello, che avevano vegliato presso mio zio, dissero che se il conte aveva qualche disposizione da prendere, non vi era tempo da perdere.
Io fui incaricata della dolorosa missione di prevenire mio zio del suo state?; tremante, desolata, non trovai altre parole che queste: ?Mio zio, il padre Giacomo è venuto a chiedere vostre notizie, vuole ella riceverlo un momento??. Esso mi guardò fissamente, mi capì, mi strinse la mano; mi rispose: — Fallo entrare. — Poscia chiese che si lasciasse solo.
Il suo colloquio col curato durò una mezz’ora circa, ed allorquando il padre Giacomo si ritirò, mio zio fece chiamare il signor Farini, a cui indirizzò queste parole: Mia nipote mi ha fatto venire il padre Giacomo, debbo prepararmi al gran passo dell’eternità. Mi sono confessato ed ho ricevuto l’assoluzione; più tardi mi comunicherà. Voglio che si sappia, voglio ohe il buon popolo di Torino sappia clic io muoio da buon cristiano. Sono tranquillo, non ho mai fatto male ad alcuno…
Entrai dopo il signor Farini e supplicai mio zio che mi promettesse di chiamare od il signor Riberi, o Bufialini, o Tommasi di Napoli, che il pubblica si faceva premura perché fossero consultati. ?Ormai è troppo tardi, rispose, forse chiamati più presto mi avrebbero salvato. Però, se tu lo vuoi, fa venire il signor Riberi?.
Erano le otto del mattino quando mandai a chiamare il signor Riberi; egli venne alle cinque della sera. I medici ordinari prescrissero delle ventose aIfa nuca e dei vescicanti alle gambe. I vescicanti non si attaccarono, e mio zio non sentì neppure la dolorosa applicazione delle ventose. Appena dal pubblico si seppe che il conte doveva ricevere il Viatico, la folla trasse verso la Madonna degli Angeli per iscortare il SS. Sacramento. Verso le 5, la processione si pose in marcia, e poco dopo mio zio riceveva il Viatico fra i singhiozzi d’una famiglia e di una popolazione desolata.
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Dopo la funzione, mio zio ringraziò con effusione il parroco, e gli disse: ?lo sapeva bene che voi mi avreste assistito nella mia ultima ora?. Poscia, spossato (essendo rimasto seduto fino a quel momento), si coricò supino per non più rialzarsi. In quel frattempo giunse il signor Riberi. Mio zio lo riconobbe immediatamente e gli disse, sorridendo: ?Io vi ho fatto chiamare un po’ tardi, perché non era ancora un malato degno di voi?. Riberi s’intrattenne a lungo coi dottori Rossi e Mafl’oni, ma non ordinò che rimedi insignificanti. Nel ritirarsi ci invitò a far prendere un po’ di cibo al conte, giacchè il polso era assai depresso. Promise di ritornare verso le undici, ma non ci diede alcuna speranza. Verso le nove si annunziò l’arrivo del Re, che per evitare la folla che ingombrava il cortile, la grande scala e quasi tutta la casa, entrò da una piccola scala e per una porta nascosta prima che avessimo prevenuto l’ammalato della visita che doveva ricevere. Mio zio riconobbe perfettamente il Re, e gli disse: ?Sire, ho molte cose da comunicarle, molte carte da farle vedere, ma sono troppo ammalato, mi sarà impossibile andarla a visitare, ma domani le invierò Farini, le parlerà di tutto minutamente. Vostra Maestà non ha ricevuto da Parigi la lettera che aspettava? L’Imperatore è ora assai benevolo per noi, sì molto benevolo, ed i nostri poveri Napoletani, sì intelligenti; ve ne sono che hanno molto ingegno; ve ne sono anche di quelli che sono molto corrotti. Questi bisogna lavarli. Sì, o Sire, si lavino si lavino?.
Il Re strinse la mano del suo ministro morente e sortì per parlare coi medici. Esso supplicò il signor Riberi di tentare un salasso alla iugulare o di mettere qualche sanguisuga dietro l’orecchio per liberare il cervello. Il signor Riberi rispose che lo stato dei polsi non lo permetteva, ma che se il malato passava la notte si sarebbe all’indomani potuto tentare gli estremi rimedi dell’arte. Partito il Re, il conte riprese la serie de’ suoi discorsi:
?L’Italia del Nord è fatta, diceva egli, non vi sono più Lombardi, né Piemontesi, né Toscani, né Romagnoli; noi siamo tutti Italiani; ma vi sono ancora dei Napoletani. Oh vi ha molta corruzione nel loro paese. Non è loro colpa, poveri diavoli, furono così mal governati. Gli è quel briccone di Ferdinando. No, no, un governo tanto corruttore non può essere ristaurato, la Provvidenza non lo permetterà. Bisogna moralizzare il paese, educare i fanciulli e la gioventù, creare delle sale d’asilo, dei collegi militari; ma non sarà ingiuriandoli che si modificheranno i Napoletani. Essi mi domandano degli impieghi, delle croci, degli avanzamenti; bisogna che lavorino, che siano onesti, ed io darò loro croci, avanzamenti, decorazioni; ma sopratutto non si sorpassi a nulla per es. si, l’impiegato non deve essere nemmeno sospettato. Non istato d’assedio, non questi mezzi di governo assoluto. Tutti sanno governare collo stato d’assedio. lo li governerò colla libertà e mostrerò ciò che possono fare di quelle belle regioni dieci anni di libertà. Fra vent’anni saranno le provincie più ricche dell’Italia. Non mai stato d’assedio: ve lo raccomando.
?Garibaldi, proseguì egli, è un galantuomo, io non gli voglio alcun male. Esso vuole andare a Roma e Venezia, ed io pure; nessuno ha più fretta di noi. Quanto all’Istria e al Tirolo è un’altra cosa. Sarà per un’altra generazione. Noi abbiamo fatto abbastanza, noi altri abbiamo fatta l’Italia: sì l’Italia, e la cosa va.
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E poi quella confederazione tedesca e un’anomalia: essa si discioglierà e l’unità tedesca sarà fondata, ma la Casa d’Asburgo non potrebbe modificarsi.
Che faranno i Prussiani, essi così lenti a decidersi? Essi metteranno cinquantanni a fare quello che noi abbiamo fatto in tre.
?Mentre la febbre dell’unità assale l’Europa, all’America viene il ghiribizzo di dividersi! Intendete qualche cosa voi altri delle dissensioni intestine degli Stati Uniti? Quanto a me, che nella mia giovinezza sono stato un appassionato ammiratore degli Americani, ho ben perduto le mie illusioni, e confesso che quanto accade al di là dell’Atlantico, è per me un vero enigma!
Quindi mio zio mi chiese dove si trovavano i varii corpi del nostro esercito e parecchi militari suoi amici; turbata e commossa, io risposi male alle sue domande. Egli mi guardò con affetto e tristezza e mi disse: ?Mia cara, tu non sai ciò che mi dici: poco fa mi dicesti che il generale P. comandava a Parma, come può essere che egli si trovi ora a Bologna??.
Soffocata uscii dalla camera per piangere. Egli continuò a discorrere con mio fratello, gli parlò del famoso discorso del signor Ricasoli in risposta al generale Garibaldi e del signor Farini, e disse che i signori Ricasoli e Farini erano i due soli uomini capaci di surrogarlo. Checchè abbiano detto più tardi i giornali, questi due uomini di Stato furono i soli che designò per suoi successori. La voce del mio povero zio, che fino a quel momento era stata fortissima, incominciava ad indebolirsi; i domestici spaventati ci dicevano: ?La voce del signor conte diventa debole, quando cesserà di parlare, cesserà di vivere?.
Il dottor Maffoni, che vegliava accanto all’ammalato, consigliò di fargli prendere del brodo con del pan trito e un bicchiere di Bordeaux. Prese il tutto con piacere, ed avendogli richiesto se aveva trovata buona la zuppa, mi rispose: ?Troppo buona, Riberi ci sgriderà domani tutti e due. Di al cuoco che il suo brodo era troppo succulento per un ammalato come me?. Era questa la prima volta che consentiva a prendere qualche nutrimento dacchè era ammalato. Ma tutto ad un tratto le sue gambe s’agghiacciarono, un sudor freddo ricoprì la sua fronte, e si lagnò d’un dolore al braccio sinistro, a quello stesso braccio, che dal giorno della domenica era freddo come il marmo.
Il dottor Maffoni tentò di riscaldare le membra gelate con dei cataplasmi, delle frizioni e dei panni caldissimi. I suoi sforzi furono vani. Egli mi ordinò allora di dare una tazza di brodo a mio zio, che la bevette con piacere, e mi chiese ancora un sorso di Bordeaux. Ma quasi tosto la sua lingua divenne spessa, e non parlò più che con difficoltà. Tuttavia mi chiese che gli si togliesse il cataplasma che aveva sul braccio sinistro, mi aiutò colla sua mano destra a toglierlo, mi prese la guancia, avvicinò il suo capo alla mia bocca, mi abbracciò due volte e mi disse: ?Grazie e addio, mia cara o; poi dopo aver detto teneramente addio a mio fratello, parve prendere un istante di riposo. Ma il polso diventava ognor più depresso. Mandammo a chiamare il Padre Giacomo, che giunse alle cinque e mezzo coll’Olio Santo. Il conte Io riconobbe, gli strinse la mano e disse: ?Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato?.
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Queste furono le sue ultime parole. Il parroco gli amministrò il Sacramento degli agonizzanti in mezzo ai singhiozzi della famiglia, degli amici, dei domestici. Mio zio mi fece più volte segno di dargli del ghiaccio sminuzzato, ma avvedendomi che lo inghiottiva con difficoltà, bagnai il mio fazzoletto nell’acqua gelata e con
esso inumidii le sue labbra. Ebbe ancora la forza di prendere dalle mie mani il fazzoletto, e di recarselo egli stesso alla bocca per ispegnere la sete inestinguibile che lo divorava; qualche minuto dopo, giovedì 6 giugno, alle ore sei e tre quarti ilei mattino, due deboli colpi di rantolo tosto repressi ci fecero conoscere, che senza soffrire, senza agonia aveva reso l’anima a Dio.
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