STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI (XIII)
IL CONTE DI CAVOUR SMENTITO DA LORD CLARENDON OTTO MESI DOPO LA SUA MORTE
(Pubblicato il 22 febbraio 1862).
Traduciamo dai giornali inglesi il seguente discorso detto da lord Clarendon nella Camera dei Lordi nella tornata del 17 di febbraio 1862 e relativo al Congresso di Parigi.
Lord Clarendon. Spero che le signorie vostre consentiranno che io parli d’un fatto che, sebbene riguardi me stesso, è di tale importanza generale, che gli schiarimenti che sono per darne, credo non solamente a me necessari, ma che sian per tornare pubblicamente utili. Già le signorie vostre avran conosciuto alcune lettere del conte Cavour che i giornali hanno, non ha molto, pubblicato; ora in queste lettere si accennano fatti a mio riguardo, che hanno in me creato la più grande meraviglia; e poiché ciò fu scritto quando io avevo l’onore d’essere Segretario per gli affari esteri nel governo della Regina, io sono in obbligo di dire che alcuni fra i particolari quivi narrati non sono veri. Io voglio bene essere mallevadore di tutto quel che dissi o feci mentre che tenevo quel carico pubblico, ma non posso certamente accettare quel che ò contrario alle mie azioni o detti, lo mi trovo fra due difficoltà contrarie: da una parte mi sento l’obbligo di chiarir le cose e dire com’esse veramente avvennero, e dall’altro canto sento repugnanza e dolore a dover contraddire il conte Cavour.
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Se egli ora vivesse, mi sarebbe agevole il correggere ogni inesattezza, a cui egli potesse essere involontariamente trascorso; ma poiché per grande sventura egli o mancato, io mi studierò di dire quel tanto che sarà necessario per rifiutare le cose più assurde dette sul mio conto.
L’assurdo sta precipuamente in questo, che io abbia potuto consigliare e spingere il Piemonte a romper guerra all’Austria, coll’accertare il conte Cavour che quello Stato sarebbe stato protetto e spalleggiato ancora dalle armi inglesi. Questo, dico, è tanto assurdo, che appena chiede confutazione. Quel che in tali affermazioni è di vero, è abbastanza conosciuto per la parte ch’io presi quando, come plenipotenziario inglese, parlai in favore dell’Italia nelle discussioni che, avvennero su questo argomento nel Congresso di Parigi. Il conte Cavour, fin da quando il Congresso la prima volta si adunò, insistette presso i plenipotenziarii di Francia e d’Inghilterra sulla necessità che le cose d’Italia fossero nel Congresso agitate.
Quei plenipotenziarii mostrarono al conte Cavour come fosse impossibile trattare una questione, ch’era al tutto fuori de’ lini, per cui si era adunata la Conferenza. Nondimeno, poiché la pace fu fermata,. la questione italiana fa mossa dai plenipotenziarii suddetti, e le parole che io dissi in tal congiuntura intorno ai governi di Roma e di Napoli, sono esattissimamente riferite nelle lettere del conte Cavour. Né io già mi ponto d’avere così parlato, ‘perché sentivo, come ogni inglese sentiva, grande affetto verso i mal governati Italiani, e ardentemente desideravo che alleviata fosse l’oppressione e rotta la tirannia che aggravava quel popolo, d’un capo all’altro della Penisola; od io pensavo che il Congresso, dove i grandi Stati d’Europa erano rappresentati, fosse luogo acconcio a manifestare siffatti sentimenti e siffatti desiderii. Ma dalle lunghe e vive discussioni altro effetto allora non seguì se non che i plenipotenziari austriaci e francesi convennero, che gli Stati Pontifici dovevano, in tempo opportuno, essere sgomberati delle truppe di quelle due nazioni. Ma questo leggiero risultato non contentò, anzi quasi irritò il conte Cavour; il quale, guardando alle cose con animo da italiano e piemontese, aveva posto tutto il suo cuore nel poter liberare l’Italia settentrionale dalla dominazione austriaca.
Naturale era nel conio Cavour la mala contentezza e Io sdegno; perché, com’egli usava di dirmi, egli non avrebbe ardito tornare al Parlamento di Torino senza recare qualche buon effetto conseguito nel Congresso. lo il vedeva allora tutti i giorni, e con piacere ascoltavo le suo parole, il cui unico obbietto erano gli affari d’Italia, de’ quali ragionando, egli era tanto grave, quanto vivo e fecondo. Ma le nostre conversazioni non avevano indole abbastanza pratica per farne argomento di corrispondenza col governo della Regina; e però non se ne trova l’atta rimembranza in alcun de’ carteggi diplomatici.
Se così fosse stato, si sarebbe veduto che io sempre mostrai al conte Cavour la necessità, in cui noi eravamo, di serbare inviolati i trattati e lo stabilito dritto internazionale. Ma in pari tempo io non gli tenevo celato il nostro desiderio che l’Italia fosse libera da dominio straniero, e i governi di Napoli e Roma fossero riformati; dicendo come per conseguir tali Qui l’aiuto morale dell’Inghilterra non sarebbe mancato all’Italia.
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Il conte Cavour afferma nelle sue lettere ch’io dicessi queste parole: ?Quando voi vi trovaste alle prese col vostro nemico, noi verremmo in vostro soccorso?. Ora, se io avessi mai dettò questo, di che non serbo memoria alcuna, si sarebbe certamente riferito non alla guerra mossa dal Piemonte contro l’Austria, ma all’invasione del Piemonte fatta dall’Austria. Il conte Cavour sempre prevedeva un’invasione austriaca, e soleva dire che le libere istituzioni, la libera stampa, la libera parola mettevano il Piemonte nell’odio dell’Austria la quale non avrebbe mai posato infin a tanto che non avesse tentato di distruggere le libertà piemontesi. Di questo io mi sovvengo che, avendomi il conte domandato qual sarebbe stata l’attitudine dell’Inghilterra se il Piemonte fosse assalito, io gli risposi che l’Italia avrebbe in tal frangente avuto una prova pratica de’ sensi del Parlamento e del popolo inglese. Ma era questa opinione mia propria rispetto ad un caso ipotetico, alla qual dichiarazione non apposi io alcun’importanza, né credevo che sì grande ve l’avrebbe apposta il conte Cavour; sicchè fui meravigliato leggendo queste parole nelle sue lettere:
?Se le idee di lord Palmerston e degli altri ministri sono uguali a quelle di lord Clarendon, noi dobbiam fare apparecchi segreti, aprire un prestito di trenta milioni, e, tornato Lamarmora, offrire all’Austria un ultimatum, ch’essa non possa accettare, e cominciar così la guerra?.
In un’altra lettera il conte Cavour diceva:
?Parlandogli (a lord Clarendon) de’ mezzi morali e ancor materiali per operare contro l’Austria, io gli dissi: mandate truppe sopra i vostri vascelli, e lasciate una flottiglia nel porto della Spezia?.
Or io non mi ricordo aver trattato mai simili argomenti; ma la cosa è di per sé tanto strana, che io non posso credere che il conte stesso di Cavour mai accogliesse sì fatte speranze. Ma pensando all’ardore, con cui egli trattava quel che eragli tanto a cuore, e pensando al suo desiderio ardente di promuovere e aiutar l’utile del suo paese, io posso agevolmente comprendere, e spero che così faranno le signorie vostre, come le parole allora dette in via conversevole fossero da lui magnificate e aggrandite. Ma che io, segretario di Stato della Regina, senz’esserne richiesto da’ miei colleghi, e contro a’ dettati del comun senso, sapendo che l’Imperatore de’ Francesi in quel tempo non aveva alcun pensiero di far guerra all’Austria, anzi non voleva pur domandarle che levasse le sue truppe dalle Legazioni; che io in tali congiunture avessi raccomandato al Piemonte di commettere un atto così suicidale, come era quello di far guerra all’Austria, allora armatissima e con poderosi eserciti comandati da Radetzky, o incoraggiassi così una guerra con mezza Europa, è tale assurdità questa che io spero non mi sia bisogno di confutarla, né di ricorrere per ciò a quel carattere di soperchia discrezione e riservatezza, ch’esso conte Cavour m’attribuisce nelle sue lettere (Applausi}.
LETTERA DEL CONTE DI CAVOUR
CONTRO LO STATO D’ASSEDIO
(Pubblicata il 19 settembre 1862).
La Nazione di Firenze pubblicava, nel suo numero del 17 settembre, una lettera del Conte di Cavour contro lo stato d’assedio. La Nazione premetteva a quel documento le seguenti parole: ?La lettera del conte di Cavour è del 2 ottobre 1860: quella data è preziosa. Allora l’edificio dell’unità italiana non era costrutto che in parte, e quella parte era troppo fresca per essere sicuri che la calce avesse fatto presa: allora la rivoluzione nell’Italia meridionale aveva ben altre armi e ben altro prestigio che nel passato agosto: allora non era stata messa alla prova del tempo la saggezza addimostrata nei casi recenti da tutti gl’Italiani; allora finalmente v’era Camillo di Cavour, nel quale ognuno sapeva come e quanto si potesse riporre di fiducia.
?Nondimeno il gran ministro rigettò i consigli degli uomini più sinceri e illuminati: egli non volle separare la responsabilità del governo da quella del Parlamento; egli voleva acquistare all’Italia la gloria d’aver compiuta la sua rivoluzione con a fianco tutte le forme di libertà costituzionale?.
Ecco la lettera:
Torino, 2 ottobre 1860.
Mio caro amico,
Vi ringrazio della lettera scrittami il 30 settembre, ma non sono d’accordo con voi nei consigli che essa contiene.
Funesta mi pare, a dirvela francamente, la proposta di fare accordare dal Parlamento al Re i pieni poteri, fino al completo scioglimento di ogni questione italiana.
Voi rammenterete senza dubbio quanto i giornali inglesi rimproverassero gl’Italiani per aver sospeso le garanzie costituzionali durante la guerra dell’anno scorso. Il rinnovare ora, in epoca di pace apparente, una tale disposizione avrebbe il più funesto effetto sull’opinione pubblica in Inghilterra, e presso tutti i liberali del continente.
Nell’interno dello Stato questo provvedimento non varrebbe certo a rimettere la concordia nel grande partito nazionale. Il miglior modo di dimostrare quanto il paese sia alieno dal dividere le teorie del Mazzini, si è di lasciare al Parlamento liberalissima facoltà di censura e di controllo. Il voto favorevole, che sarà sancito dalla grande maggioranza dei deputati, darà al ministero un’autorità morale di gran lunga superiore ad ogni dittatura.
Il vostro consiglio riescirebbe pertanto ad attuare il concetto di Garibaldi, che mira appunto ad ottenere una gran dittatura rivoluzionaria, da esercitarsi in nome del Re senza controllo di stampa libera, di guarentigie individuali, né parlamentari.
Io reputo invece che non sarà l’ultimo titolo di gloria per l’Italia di aver saputo costituirsi a nazione senza sacrificare la libertà alla indipendenza, senza passare per le mani dittatoriali di un Cromwell, ma svincolandosi dall’assolutismo monarchico senza cadere nel dispotismo rivoluzionario.
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Ora non vi ha altro modo di raggiungere questo scopo che di attingere nel concorso del Parlamento la sola forza morale capace di vincere le sette e di conservare le simpatie dell’Europa liberale. Ritornare ai comitati di salute pubblica, o, ciò che torna lo stesso, alle dittature rivoluzionarie di uno o di più, uccide la libertà legale che vogliamo inseparabile compagna della indipendenza della nazione.
Credetemi sempre
Cavour.
UNA LETTERA DEL CONTE DI CAVOUR
CONTRO LE ANNESSIONI
(Pubblicata il 5 ottobre 1862).
La Nazione, del 3 di ottobre, n° 276, porta in capo una lettera scritta tisi conte di Cavour nel febbraio del 1860. La Nazione non dice a chi la lettera sia indirizzata; ma siccome essa può servire di documento per la storia, così noi la ristampiamo. Eccola:
?Torino, 1° febbraio 1860.
?Mi reco a premuroso debito di comunicarvi le quattro proposizioni fatte dall’Inghilterra alla Francia, delle quali ricevetti ieri ufficiale partecipazione. Nell’intento di dare assetto alle cose italiane sarebbe convenuto: ?1° Che la Francia e l’Austria non interverrebbero colla forza negli affari interni della Penisola, eccetto che ne fossero invitate dal consenso unanime delle cinque grandi Potenze d’Europa;
?2° Che in conseguenza di questo accordo l’Imperatore dei Francesi prenderebbe gli opportuni concerti col Santo Padre per il ritiro da Roma delle truppe francesi. Quanto al tempo ed al modo di questo ritiro, dovrebbesi procedere in guisa da lasciare al governo pontificio tutta l’opportunità di provvedere al presidio di Roma mediante truppe di Sua Santità, e di adottare le necessarie precauzioni contro il disordine e l’anarchia. — L’Inghilterra crede che, mercé siffatti partiti e le provvisioni convenienti, la sicurezza di Sua Santità possa essere posta interamente in salvo. Saranno inoltre presi gli opportuni concerti per lo sgombro dell’Italia del Nord dalle truppe francesi in un periodo di tempo conveniente;
?3° II governo interno della Venezia non formerà oggetto di negoziati per le Potenze di Europa:
?4° La Gran Bretagna e la Francia inviteranno il Re di Sardegna ad assumere l’impegno di non mandare truppe nell’Italia centrale prima che i diversi Stati e Provinole che la compongono, non abbiano solennemente espressi i loro voti intorno ai loro destini futuri, col mezzo di una votazione delle loro Assemblee rielette.
?Nel caso in cui questa votazione riuscisse in favore dell’annessione al Piemonte, la Gran Bretagna e la Francia non richiederanno più oltreché le truppe sarde si astengano dall’entrare negli Stati e nelle provincie prementovate.
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Queste sono le proposte dell’Inghilterra, le quali vennero in massima accettate dalla Francia. L’Imperatore dei Francesi fece soltanto una riserva intorno all’articolo su Venezia, la causa della quale egli intende di perorare e difendere co’ suoi buoni uffici.
?L’Imperatore vuole per altro che le sue intenzioni circa le surriferite proposte non vengano fatte pubbliche prima d’aver fatto pervenire a Vienna accomodate spiegazioni, ed avere avuto tempo d’invitare le Corti di Berlino e di Pietroburgo ad accedervi, affinché il nuovo assetto dell’Italia trionfi, sancito dalle due grandi Potenze del Nord. La Francia raccomanda pure caldamente che, durante questi ultimi e definitivi negoziati, niun atto si compia o s’intraprenda, il quale possa in forma alcuna alterare lo stato presente delle cose.
?Condizione unica dell’annessione si è un nuovo voto delle popolazioni, consultate non già col suffragio universale, ma per mezzo di nuove Assemblee elette nella forma che si reputerà più acconcia. Rispetto alla loro riunione il governo del Re ha aperto pratiche a Parigi e a Londra, delle quali io vi ragguaglierò a suo tempo. Queste avventurose notizie, che non senza profonda commozione dell’animo vi partecipo, provano che l’annessione può dirsi oggimai un fatto compiuto, e che è raggiunta la meta dei comuni desiderii.
?Gradite, ecc.
?C. Cavour?.
LA VERITà SULLA MORTE
DEL CONTE DI CAVOUR
Il marchese Gustavo di Cavour ha indirizzato la seguente alle Nationalitès in risposta ad un articolo della Gazzette de France:
?Turin, 20 juin 1861
?Monsieur le Redacteur,
?L’article de la Gazette de Franco que vous m’avez signalé, contient de graves inexactitudes sur les circonstances qui ont accompagné les actes religienx par lesquels mon bien aimé frère a voulu consacrer le dernier jour de sa vie mortelle.
?Il est absolument faux qu’il ait fait, ou que l’on ajt exigé de lui avant sa mori, une rétractation formelle en présence de deux temoins.
?Il est faux pareillement qu’on ait fait demander par le télégraphe a Rome une dernière absolution pour lui au Souverain Pontife.
?Il est faux que notre cure qui l’a admirablement assiste a son lit de mort, se soit ensuite rendu a Rome.?Ce digne ecclésiastique, auquel mon frère accordai! beaucoup d’estima et de sympatie, n’a pas quitte Turin depuis le jour fatal de 6 juin, et il celebrerà demain dans son église paroissiale un service solenne en mémoire de son ancien paroissien.
?Veuillez aggréer, monsieur, l’expression de mes sentiments de parfaite considération.
?G. De Cavour?.
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IL CONFESSORE DEL CONTE DI CAVOUR
(Pubblicato il 9 agosto 1861).
è la quinta o sesta volta che la Gazzetta del Popolo si occupa ne’ suoi primi articoli del Padre Giacomo da Poirino, amministratore della Parrocchia degli Angioli in Torino e ne piglia le difese, e ne scrive il panegirico, e unita col Siede di Parigi lo dichiara venerabile. Quest’episodio della nostra rivoluzione merita un cenno.
15 dapprima è da sapersi clic cosa già questo giornale intitolato la Gazzella del Popolo, che cosi all’improvviso mostra tanto zelo, tanto affetto, tanta devozione ad un prete, anzi ad un frate, e ad un frate mendicante, un di quei frati che si vollero di preferenza abolire, perché come diceva in Senato il conte di Cavour, favorivano l’accattonaggio (1).
Noi non andremo a cercare che cosa dicesse della Gazzella del Popolo il signor Brofferio. Descrivendo tre soli mesi delle sue pubblicazioni, scriveva dei suoi compilatori che altro non fecero se non ?calunniare, denunciare, prostituire, corrompere, maledire, infamare, deludere, falsificare, non per trenta monete come Giuda, ma per cinque centesimi, senza l’onore del fico e della corda?. (Voce nel Deserto, N° 20 del 29 dicembre 1850).
Non andremo a cercare come i suoi, compilatori un giorno protestassero di non essersi confessati, di non volersi confessare, e che non si confesserebbero nemmeno a termine di vita.
Non andremo a cercare come chiamassero l’ostia consacrata un gnocco, come muovessero la più aspra e insolentissima guerra al P. Ignazio, parroco della Madonna degli Angioli, e poi a tutti i frati in generale, ed ora principalmente al Papa.
(1) Nella tornata del Senato del 9 maggio 1855 il conte di Cavour si sbracciava contro frati e gli Ordini mendicanti. Fra le altre cose disse: Io credo, o signori, di dover dichiarare che, a parer mio, tutti gli ordini religiosi che riposano sul principio della mendicità, sono ora radicalmente inutili, sono ora dannosi? (Rendiconto Ufficiale, N° 147, pag. 515). E più innanzi, dopo aver detto che il governo doveva sbandierare l’accattonaggio, soggiungeva: ?Ora, o signori, come potete sperare che si consideri l’accattonaggio come alto riprovevole, quando tanti stabilimenti, i quali sono considerali come rispettabili, e che debbono, finché esistono, essere rispettati, quando, dico, tanti stabilimenti sussistono sul principio dell’accattonaggio? (Loc. cit.).
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Lasceremo tutto questo da parte, contentandoci di citare quello che dei preti, dei frati e del Cattolicismo scriveva la Gazzella del Popolo l’11 di luglio del 1861 nel suo N” 190. Leggete e inorridite:
?Coi preti noi non crediamo che sia punto bisogno di bazzicar mai, né nascendo, né vivendo, e tanto meno morendo, perché per solito in quest’ultimo periodo non si ha troppa voglia di mascherate. — E i preti vestiteli col tricorno, o berlindottescamente, col cilindro, strangolateli col colletto a uso cane, o col pezzuolo a uso bambinello, che non vuoi macchiarsi mangiando la pappa; vedeteli parati da messa o da vespro, da vivo o da morto, son sempre maschere anche se non si incollino un volto di cartone sulla faccia, perché già la faccia dei preti è sempre artificiale. — Peccato che ce ne sia qualcuno ancora di galantuomo. — E’ quello che rovina il negozio, perché fa credere alla possibilità di una CIARLATANERIA, che un po’ alla volta, man mano che si van squarciando le tenebre, va via dileguando all’apparir della luce.
?Tanto e tanto, tutto in una volta non si può avere. Per piantare sodamente il dominio di grandi verità, s’è dovuto pur troppo passar sempre attraverso lotte terribili, perché i bastioni dell’ignoranza fortificati in quiete da secoli, davano molto a sudare, e ne daranno ancora per Dio sa quanto, ai soldati della intelligenza?.
Capite? Il Cattolicismo è una ciarlataneria, preti e frati sono ciarlatani e un po’ alla volta, come dice il titolo dell’articolo, bisogna disfarsi della religione e del sacerdozio. Or bene la Gazzetta del Popolo è divenuta improvvisamente amica di uno di questi preti e di questi frati, e ben lungi dallo strangolarlo col colletto a uso cane, lo vuoi mettere in un Panteon.
Leggete ciò che la Gazzella del Popolo scrive nel suo numero 218 dell’8 di agosto, e voi vedrete come i suoi panegirici vengano ricambiati colle più rare confidenze e preziose comunicazioni.
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