STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI (XV) (VOL. III)
VITUPERII E CALUNNIE CONTRO IL NOSTRO SANTO PADRE PIO IX (Pubblicato il 1° dicembre 1861).
Restammo per molto tempo in forse se convenisse all’armonia far cenno di due atroci calunnie gettate recentemente contro il nostro Santo Padre Pio IX, e non tornasse meglio lasciarle sepolte nel pubblico disprezzo. Ma dopo di averci pensato seriamente ci risolvemmo di discorrerne, perché coteste nuove infamie mettevano sempre più in mostra lo schifoso aspetto della rivoluzione, e indirettamente rispondevano ai ministri, che vorrebbero recare in Roma la libertà di Torino, e affiggere alle cantonate di S. Pietro, e vendere sotto le finestre del Vaticano i cartelloni e i giornali che si spacciano sulle rive del Po.
Sappiasi adunque da’ cattolici, che i giornali torinesi, caldissimi ministeriali, hanno accusato Pio IX di essere un Framassone, e di avere dato il nome ad una Loggia di Franchi Muratori, e sappiasi di più, che sulle mura di Torino si legge, e per le vie della nostra città si vende una Strenna pèl 1862, intitolata: Le avventure galanti del conte Mastai Ferretti, già tenente di cavalleria, ora Papa Pio IX, narrate da una Monaca ad un Frate Zoccolante. La Strenna è stampata a Milano, tipografia Bozza, contrada S. Prospero, IS0 5, e il fisco di Milano la lasciò liberamente pubblicare, e di là venne a Torino, dove il ministero la lascia vendere pubblicamente e ne legge affissi gli annunzi sugli angoli della città, e vede con indifferenza i monelli che l’offrono ai passanti.
A tal punto dovea giungere la nostra Torino? Ah Santo Padre, perdonate a questi calunniatori, perdonate a noi che abbiamo avuto l’ardimento di ristampare l’infamissimo titolo. Vi chiediamo perdono in nome di Gesù Cristo, a cui fu detto dai Farisei: Daemonium habes: sei un indemoniato; in nome di Gesù Cristo che fu saturato d’obbrobrii, e udì multi bellantes contro di se; in nome di Gesti Cristo che fu accusato di cacciare i demonii in Beelzebub Principe daemoniorum. Questi vituperi, queste calunnie mettono il colmo all’iniquità, e di Torino può tosto dirsi ciò che Vincenzo Monti cantava dell’empia Parigi, la cui lordura e Par che dal puzzo i firmamenti ollenda «.
Gesù Cristo calunniato soventi volte come appartenente a società diaboliche, talora lo negò, e talora tacque; quia permisit alios sibi faventes pro se rispondere, come nota Cornelio A Lapide. Anche Pio IX fin dal 1847 veniva accusato dagli empii d’indifferentismo, e sull’esempio de l divino Maestro nella sua Allocuzione Ubi Primum rispondeva all’atroce calunnia, e, dopo di avere esposto il tristissimo sistema de’ rivoluzionarii che trovano buona ogni dottrina, e la paragonano alla fede cristiana, conchiudeva: Dcsunt nobis prue horrore verba, ad novam hanc cantra nos et tam atrocem iniuriam detestandam (1).
Ma non perciò i rivoluziormri cessarono dui calunniare Pio IX. Pubblicavasi in Roma sotto Mazzini un giornale intitolato il Positivo, e questo nel suo N. 35 del 21 di marzo 1849 stampava elio Pio IX apparteneva alla Giovine Italia, e il giornalista, aggiungendo la malizia all’insulto, asseriva che
(1) Pio IX Pontificis Maximi acta, pag. 70.
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l’asserto «nulla scema all’autorità pontificia, e nulla a quel principio che noi veneriamo nell’augusto Capo della cattolica Chiesa».
E il Positivo nel suo N. 37, pag. colonna 1, ribadiva la calunnia, e ripeteva che il conte Giovanni Mastai da secolare fu ascritto alla setta dei Carbonari, o da Vescovo alla Giovine Italia (1).
E Pio IX tacque. Ma il Costituzionale Romano, giornale cattolico, che per poco tempo potò allora veder la luce nella Roma di Mazzini, levossi indegnato contro tanta sfrontatezza, e il Positivo fin dal 28 di marzo 1849, N. 41, incominciava a brontolare una scusa, dicendo: «Il Positivo non ha dato per certo il fatto, ma di più ha confessato di non veder prove sufficienti per giudicarlo autentico». Più tardi, cioè il 28 di giugno del 1857, il direttore del Positivo ritrattava ampiamente e lodevolmente le sue calunnie, e diceva:
«Riconoscendo di avere, in varii miei scritti mandati alle stampe, erroneamente impugnati i sacri ed inviolabili diritti del Romano Pontefice riguardo al suo regno temporale, e di avere recato oltraggio al Clero cattolico, ed alla stessa venerabile persona di Sua Santità Pio IX gloriosamente regnante, con atto di mia spontanea e piena volontà disapprovo, condanno, ritratto pubblicamente quanto nei suddetti miei scritti e nel mio stesso procedere vi è stato di offensivo ai diritti sì spirituali come temporali del Romano Pontefice, di oltraggioso alla sacra persona di Sua Santità Pio IX gloriosamente regnante, ed al Clero cattolico, ed erroneo e mal sonante in materia di fede e di scandaloso ai fedeli di Gesù Cristo».
E l’antico direttore del Positivo conchiudeva: «Dichiaro e protesto dinanzi a Dio ed agli uomini di volere colla divina grazia, che umilmente imploro, di portarmi in avvenire, in parole ed in fatti, conformemente a’ miei doveri e cristiani e sacerdotali per trovare misericordia e salute al tremendo giudizio di Dio che mi aspetta, e meritarmi pietoso perdono dal suo santo e degnissimo Vicario e Supremo Pastore e Padre dei fedeli Pio IX, cui il Signore Iddio conceda giorni lunghi e felici (2)».
Di questa ritrattazione non si danno por intesi i giornali libertini, e ripetono le accuse antiche che Pio IX fu iscritto tra i Framassoni. Non sappiamo se sieno costoro più impudenti o più ignoranti. La prima Enciclica di Pio IX, assunto appena sulla cattedra di San Pietro, fu invece contro le società massoniche. Il9 di novembre del 1846 egli dinunziava all’Episcopato cattolico «quelle sette clandestine sboccate dalle tenebre a rovina e devastazione di ogni cosa sacra e pubblica»; e ricordava come i suoi predecessori le avessero colpite d’anatema; Clemente XII colla Costituzione In Eminenti, Benedetto XIV colla Costituzione Providas, Pio VII colla Costituzione Ecclesiam a Jesu Christo, Leone XII colla Costituzione Quo graviora. Le quali Costituzioni conchiudeva il nostro Santo Padre Pio IX «Apostolicac nostrae potestatis plenitudine confirmamus et diligentissime servari mandamus (3)».
E dopo di ciò vengono a dirci che Pio IX è Framassone! Ah, se lo credeste, se lo speraste, non sareste così arrabbiati contro di lui, non cerchereste no, né di spogliarlo, né di vilipenderlo, né di calunniarlo.
(1) Vedi II Prelato Italiano, ecc. Torino, 1850, pag. 26, 103, 119, 315.
(2) Le vittorie detta Chiesa nei primi anni del pontificato di Pio IX. Milano, 1859; quarta edizione, pag. 404.
(3) Allocuzione: Qui pluribus (Acta Pii IX, pag. 4).
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Pio IX è il vincitore della Massoneria, egli ne ha sventato le cabale, ne ha scoperto le congiure, ne ha smascherato le ipocrisie, l’ha fermata nel suo cammino, n’ha schiacciato il capo inverecondo.
Epperò la Massoneria si vendica di Pio IX, e destituisce il Gran Mastro che, per proprio interesse, non volle spogliare il Romano Pontefice, e leva alle stelle il principe Napoleone che ha proclamato la guerra al Vaticano. La Massoneria fa di più per vendicarsi di Pio IX, e conoscendo se stessa e le sue vergogne, non sa dove trovare peggiore insulto che appiccare il suo nome al Vicario di Gesù Cristo.
Ma questo insulto fu già fatto a Dio stesso. Schmitz, massone inglese, non ha detto che Dio era il primo Framassoue, e che non potendo egli tenere la Loggia lasciavano la cura ad Adamo? (I). Non è dunque da maravigliare se osano costoro gettare sul Vicario di Gesù Cristo quel vitupero onde già copersero il creatore dell’universo, e Gesù medesimo chiamandolo framassone, sansculottes, rivoluzionario.
Ora dovremmo scrivere due parole sull’altra accusa, ma la penna ci cade di mano, e non vuole vergare una sola linea sul sucido argomento. No, noi non faremo all’angelico Pio IX, al Pontefice dell’Immacolata, il torto di difenderlo da tanta calunnia. Gettate pure, o tristi, gettate la vostra bava contro l’intemerato padre dei fedeli. Essa non giunge fino a lui, così elevato, e ricade sul capo vostro. Voi che seminate il lezzo per tutta l’Italia, e l’avete ridotta non donna di provincia, ma… osate poi di vilipendere un Pio IX! Voi! (2).
Che dire intanto del barone Ricasoli che vuole ottenere un trionfo morale sul Papa, che vuoi provare al mondo cattolico come Pio IX possa vivere quieto, tranquillo, onorato in una Roma non sua, e poi in Torino, che per ora tiene il luogo di Roma, lascia stampare e vendere queste vergogne? Che dire d’un Regno d’Italia che dà simili Strenne agli Italiani, e incomincia fin d’ora il 1862 colla menzogna e colla calunnia? E sperate che ogni cosa possa riuscirvi a bene, che l’Italia, che il Piemonte principalmente possa divenire grande, rispettato e felice? Noi citeremo al Ricasoli due linee tolte dal libro di quel frate, a cui ha rubato la sua lettera scritta il 10 di settembre al Santo Padre: «La superbia cava le fondamenta della torre babelica, ed è fulminata; la carità fonda quella della Chiesa, e la sua cima è già nel ciclo da diciannove secoli (3)».
(1) Bazot, Code des Francs-Maçons, pag. 121.
(2) Nell’opera di Parent-Duchatelet (Parigi, 1837) si trovano cifre e documenti sulla moralità di Torino, e uno di questi documenti sottoscritto da Urbano Rattazzi, Presidente della Camera dei Deputati del regno d’Italia!
(3) Prolegomeni alla storia universale della Chiesa, per D. Luigi Tosti, monaco di Montecassino, voi. Il, pagina 592.
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PROTESTA DEL CARDINALE VESCOVO DI IESI PER SACRILEGIII INSULTI A PIO IX
Era già stampato l’articolo precedente, quando ci giunse da lesi una lettera di protesta, che quell’esimio Vescovo, l’Eminentissimo Cardinale Monchini, mandò al prefetto Bollati in Ancona. Da questa lettera risulta che anche in lesi si vende il libello famoso contro il Papa Pio IX, che noi dovemmo, nostro malgrado, citare, e che sui cartelloni figurano le monache e i frati, come in Torino. Lode al zelante Pastore di lesi! La sua protesta è una solenne risposta alla circolare del Ministro Guardasigilli. A Napoli si fucila, e nel resto d’Italia la rivoluzione tenta di uccidere il Papa gladio linguae, come già i giudei uccisero il Redentore!
Eccellentissimo signor Prefetto,
Iesi, li 27 novembre 1861.
Più volte ho dovuto grandemente querelarmi colle autorità locali di questa città per gl’insulti che si fanno alla religione ed al costume, o colla pubblica vendita di libri empii ed osceni, o colla esposizione d’immagini turpi e sacrileghe, o colla violazione e profanazione dei giorni e de’ luoghi più santi, o per altre siffatte cose: ma sempre i miei giusti e ripetuti richiami sono stati indarno. Ora nuovi e dolorosi fatti mi spingono a recare le mie querele e le mie protestazioni a V. S. Ecc.ma, la quale, vorrei sperare, sia per fare loro diritto, opponendo un qualche riparo a tanto male. Sulle scene di questo teatro dileggia\asi la sacra persona del Papa, e quasi ciò fosse poco, quest’oggi era affisso un manifesto per la pubblica vendita di certo libercolaccio, il cui titolo mi vieta il pudore di riferire. In questa sconciatura piena di menzogne, di calunnie e di bestemmie si prende pur di mira la sacra persona del nostro Santo Padre, osi oltraggia nei modi più turpi ed empii col Capo augusto della religione la religione stessa, e perfino la Vergine Immacolata. Questa, signor Prefetto, non è libertà, ò sfrenata licenza, e la legge e chi tiene il potere dee infrenarla, se non vuoi vedersi la società precipitare sempre al peggio. Se non si rispetta quell’autorità, che è la più sacra e la più veneranda sulla terra, crede ella che si avrà riguardo per le altre di un ordine certamente inferiore? Questi miei diocesani buoni, religiosi e devoti al Papa ne sono stati altamente indignati, perché si veggono offesi con queste pubblicazioni in ciò che hanno di più caro. Lo scorso settembre, in pieno giorno., alla presenza di molti si strappava dalla porta d’una chiesa un Sacro Invito del Vescovo, col quale si eccitavano i fedeli a celebrare divotamente il triduo e la festa di S. Settimio, principal protettore. di questa città e diocesi. Ed una stampa irreligiosa con figure messe a dileggio si lascia sotto gli occhi del pubblico dov’è la maggior frequenza del popolo; ed un libello infamatorio di lai fatta si licenzia alla vendita, e non v’ha alcuno che vi frapponga il minimo ostacolo, lo adunque a nome della religione, della giustizia e del pudore chieggo pronta riparazione a sì gran male, ed ordini tali che ne impediscano dappoi la ripetizione. Riceva i sentimenti della mia considerazione
Finn: C. L. Card. Morichini, Vescovo.
Al sig. Prefetto Bellati
Ancona.
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ROMA E IL DEPUTATO FERRARI (Pubblicato il 4 dicembre 1861).
Mazzini e Ferrari sono empii, ma logici nella loro empietà. Essi comprendono che Roma papale è una parte del grande sistema cattolico e monarchico; quindi vogliono togliere Roma al Papa, la monarchia all’Europa e il Cattolicismo al mondo. Laddove i moderati meno sinceri, più ipocriti, epperò ravvolti in continue contraddizioni, affermano di volere bensì togliere Roma a Pio IX, ma di venerare il Pontefice, di rispettare, amare, professare il Cattolicismo, ed anzi di volere concedere libertà alla Chiesa.
Mazzini fin dal 1858 diceva agl’Italiani: colla monarchia voi non andrete mai a Roma. Eccone le parole tolte dal Pensiero ed Azione che Mazzini pubblicava a Londra, N° del 1° settembre 1858, pag. 4: «Roma, la nostra capitale, la nostra città sacra è vietata alla monarchia. Può un Re togliere Roma al Papato? Può un’autorità derivata, secondaria, cancellare, avversando risolutamente il Papato, la sorgente d’ogni autorità nell’Europa d’oggi? Può un Re bandir guerra a tutta quanta l’Europa governativa, consumando il più grande atto rivoluzionario che or possa idearsi?»
E nello stesso giornale Pensiero ed Azione, numero del 15 di novembre 4858, pag. 85, Mazzini soggiungeva: «Caduto il Papa, cadono prive di base le monarchie. Può un Re, rimanendo tale, vibrare quel colpo e costituirsi carnefice del principio, in virtù del quale egli stesso regge?» Basta enunciare queste domande per comprendere di bettola risposta. Un giornale, che si dice avversario di Mazzini, la Gazzetta del Popolo, il 27 di novembre del 1861, N° 328, ripeteva alla lettera ciò che Mazzini aveva scritto nel 1858, che cioè un Re non poteva stare nella Roma dei Papi, perché bisogna che il Papa, abbia una sede sua, dove nessun Re gli stia o sopra, o sodo, o a fianco.
Quello che Mazzini asseriva principalmente della monarchia, Giuseppe Ferrari l’applica al Cattolicismo. Il Ferrari chiamò se stesso nella Camera: «Un antico soldato di questa immensa guerra fatta dal mondo civile contro il Sommo Pontefice». E ripigliava: «Io nacqui, io vissi tra i nemici suoi… e ora impaziente, ora attristato, ora fremente, ora desolato, qualunque fosse l’attitudine mia esteriore, io ho sempre voluto andare a Roma (Atti ufficiali della Camera, tornata del 26 marzo 1861, N. 40, pag. 144)».
Ma per andare a Roma, secondo il deputato Ferrari, bisogna distruggere il Cattolicismo. Il 27 di maggio del 1860 Ferrari avea detto alla Camera. «Il Papato che voi credete morto, o quasi morto, io che non sono sospetto di troppo j ciecamente venerarlo, lo credo fortissime; io veggo che quanti lo assaltano coraggiosamente, capitano male (Atti uff. N. 42)». E il 26 di marzo del 1861
Lo stesso Ferrari diceva al conte di Cavour: «Senza idee non si rimane a Roma, che è fatale ai Re, che non fu mai vista dall’ultimo suo Re, e che voi dovete rendere meno funesta all’attuale famiglia regnante (Atti uff., del 1861, N. 40, pag. 144)».
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Laonde il Ferrari fin dal marzo di quest’anno denunziava alla Camera, chela rivoluzione capitanata dal nostro governo non sarebbe andata a Roma, o non vi sarebbe rimasta. E perché? Perché le e raccomandazioni, diceva Ferrari, che erano fatte dal Presidente del Consiglio (Cavour) di attenerci alla religione cattolica, di essere sempre più religiosi nell’atto stesso che è da noi spogliato il Pontefice non sono conformi alle tradizioni della moderna civiltà». Secondo il Ferrari, per andare a Roma era mestieri mutare sistema, disfare il Cattolicismo: «Rimanendo l’antico sistema, si rimane nell’antichissima Italia; si fanno regni che svaniscono in un istante; e pur troppo la penisola nostra è, secondo le parole di Macchiavelli, il paese delle conquiste miracolose, ma anche delle disfatte non meno miracolose, come si scorge da Braccio da Montone, da Francesco Sforza, dai condottieri che regnarono sulla terra dei Papi col titolo di Vicari della Chiesa, e la cui dominazione in pochissimi anni svaniva per sempre (loc. sup. cit.).
E il Ferrari conchiudeva: «Non con eccessi di devozione, non con dottrine teologiche, ma colle idee proclamate dalla rivoluzione francese si può vincere la causa che diciamo di Roma». E quali sono queste idee e questi principii? Ferrari rispondeva: «Questi principii sono quelli degli Enciclopedisti, di Rousseau, di Volture, dei liberi pensatori, e ci possono redimere dal Pontefice, perché riscatano la ragione».
Il 2 di dicembre, lo stesso Deputato, inaugurando col suo discorso le nuove interpellanze si Roma, ripeteva le stesse idee e cantava vittoria contro il ministero, che non ha potuto fin qui mettere il piede in Roma ed anzi ogni giorno più se ne allontana. Il deputato Ferrari ha ragione. Se vogliamo restare cattolici e rispettare Pio IX come Pontefice dobbiamo pure rispettarlo come Re. Se s’intende di spoglia-Io come Re, si deve pure esautorare come Pontefice, altrimenti non si va a Roma. E il Ferrari in ciò è conseguente a se stesso, ed è logico come Mazzini.
Conchiudiamo, che troppa materia abbiamo di questi giorni per le mani, e ci conviene raccoglile documenti piuttosto che entrare in raziocinii. Se si vuole spogliare il Papajella sua Roma, bisogna rinnegare la monarchia, rinnegare il Cattolicesimo. Le lettere di Ricasoli sono sacrilegii, e i libelli Pro Causa Italica ipocrisie vigliaceli’. Per procacciare a Roma le delizie di Napoli sono pronti i Romani, pronti gì altri Italiani, pronti principalmente i Piemontesi a rinnegare la religione cattolica? So sì, vadano innanzi; accumulino rovine sopra rovine, e innalzino altari alla Dea Ragione; ne raccoglieranno a suo tempo i frutti. Ma se inorridiscono a tale proposta, oli! allora si fermino sulla lubrica via, e s gettino a’ piedi del Santo Padre Pio IX.
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Il deputato Ferrari fece un’allusione al plagio del barone Ricasoli, il quale, come abbiam dimostrato, rubò la lettera che scrisse al Papa, dai Prologomeni di 1). Luigi Tosti, monaco di Montecassino. Il deputato Ferrari disse che si proponeva di esaminare i documenti presentati dal Ricasoli, e soggiunse: «Il mio esame sarà tranquillo come se si trattasse di una discussione pacifica con un monaco di Montecassino». Gli Alti Ufficiali notano ilarità. E di fatto avendo il Ricasoli ricopiato le pagine del monaco di Montecassino, i Deputati che discutono con Ricasoli, discutono col monaco, e il Ricasoli non è altro che il gerente dei Prolegomeni. Oh povero regno d’Italia!
LE OPINIONI DEI DEPUTATI SULLE OPINIONI DI NAPOLEONE III (Pubblicato il 7 dicembre 1861 ).
In geometria ed in alchimia vi hanno due questioni ormai riconosciute insolubili, la quadratura del circolo e la scoperta del lapis philosophorum, che dovrebbe servire per tramutare in oro tutti i metalli. A queste quistioni sta per aggiungersene una terza di eguale difficoltà, ma d’ordine politico, vale a dire se la maestà di Napoleone III sia favorevole al Santo Padre Pio IX, ovvero alla rivoluzione italiana. che vuole levargli perfino la sua Roma.
È dal 2 di dicembre che la nostra Camera dei Deputati discute su questo punto, e chi sta per l’una, chi per l’altra sentenza, e ognuno con i suoi argomenti, i suoi fatti, le sue speranze, i suoi timori; ma il dubbio non cessa né in questi né in quelli, e ormai si riconosce il problema difficilissimo e condannato come gli accennati problemi, a martellare la tessa di qualche dotto, senza nessun vantaggio per la scienza sociale.
Tuttavia sarà bene raccogliere le diverse opinioni emessj su questo tema delle simpatie, delle amicizie, delle alleanze, delle protezioni napoleoniche, giacchè noi riputiamo fatto gravissimo e forse singolare nelle istorie, che di un uomo come il Bonaparte che impera dal 2 dicembre del 1851, cioè da dieci anni, ed ha tento scritto, tanto parlato ed operato cotanto possa nondimeno discutersi ancora, e non per celia, ma da senno, che cosa egli pensi e voglia; chi aiuti e protegga chi abbia da sperare o temere del fatte suo.
Le opinioni manifestate intorno al grande problema politico sono quattro. 1 primi dicono che Napoleone III sta per la rivoluzione italiana, che l’ha assistita, l’assiste e l’assisterà anche nell’avvenire. I secondi affermano che Napoleone III sta pel Santo Padre Pio IX, essendo obbligato a lui con solenni promesse, e così esigendo la Francia e il suo particolare interesse. 1 terzi sostengono che Napoleone III è ad un tempo favorevole ed alla rivoluzione italiana ed al Papa, che s’ha messo in testa che la rivoluzione e la Chiesa possano andare d’accordo, o vuole perciò che la rivoluzione non offenda Pio IX, né il suo potere, e in pari tempo pretende che nessuno tocchi la rivoluzione.
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Finalmente i quarti opinano che Napoleone III non sia amico né della rivoluzione, né della Chiesa, né de’ cattolici, né degl’italianissimi, né di Pio IX, né di Bellino Ricasoli, ma solamente di se stesso e del suo Impero; e di Roma e d’Italia, e del Papa e del Piemonte voglia usare a proprio vantaggio.
Questo è il sunto delle diverse opinioni, ed ora sarà pregio dell’opera dar di piglio agli Alti Ufficiali della Camera, e venire enumerando i Deputati che la pensano in una delle quattro maniere accennate, recandone in mezzo, come è nostro costume, le precise parole.
Opinione del dep. Ferrari sulle opinioni di Napoleone III.
Il deputato Ferrari, che parlò il primo nella tornala del 2 dicembre, disse così: «Che pensa l’erede di Napoleone I della tradizione che lo precede? Su qual punto del passato si Essa il suo sguardo? Forse sulla statua rovesciata della Dea Ragione? Forse sull’incoronazione di Napoleone I? Io non lo so, non devo saperlo, solo posso dire che i documenti, la storia, le leggendola filosofia della Francia contemporanea dicono grande essere la vita delle nazioni, e che in ogni modo la gran questione di Roma, questa questione che è vanto e tristezza dell’Italia nostra, abbraccia il mondo colla religione e l’universo intero con Dio. Qui tutto è grande, tutto terribile; trattasi di Voltaire, di Ronald, di Bossuet, di Rousseau, dei grandi campioni della causa dell’umanità. Che cosa avrà dunque pensalo Napoleone III leggendo che il sig. Ricasoli desidera di andare a Roma al più presto possibile null’interesse del regno? Ancora una volta noi non lo sappiamo, ma possiamo congetturare che avrà trovala la nota non seria, e lo avrà detto nello stile garbatissimo della lingua francese che aguzza e dissimula ogni epigramma» (Atti Ufficiali, N. 337, pag. 1301).
Un antico diceva: Hoc unum scio me nihil scire. In sostanza il Ferrari ripete lo stesso sulle opinioni di Napoleone III. Pensa però che il Bonaparte non reputi impresa da pigliare a gabbo il toccare Roma, che ricordi l’avvenuto allo zio Napoleone I ed al cugino Napoleone 11, e che quindi abbia riso di Ricasoli che vuole Roma, e della lettera che per ciò aveva scritto e voleva mandare al Santi) Padre. Nella gran questione di Roma tutto è grande e terribile, salvo però i documenti di Bellino Ricasoli, che sono eminentemente ridicoli.
Opinione del dep. Alfieri sulle opinioni di Napoleone III
II deputato Alfieri, quantunque privo della medaglia dei Deputali, che si lasciò rubare viaggiando da Firenze a Bologna, fu il secondo a parlare delle opinioni del Bonaparte. A suo parere Napoleone III si assunse l’incarico di mandatario del Cattolicesimo in Roma, e non vuole, e non può consegnare l’indipendenza del Pontefice al ministero nostro. Udite l’Alfieri, non l’Astigiano, ma lo smedagliato:
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«lo non posso meravigliarmi che il nostro potente alleato, essendosi (a torto, od a ragione, non tocca a me di discuterlo) assunto l’incarico di mandatario del Cattolicesimo in Roma, non abbia creduto di adempiere a tale suo mandato, confidando la sicurezza e la indipendenza del Pontefice al ministero nostro in quei tempi; bensì mi meraviglio che i nostri ministri abbiano potuto farsi questo concetto anche per un giorno solo, e molto più che abbiano preso questo supposto a base di tutto un loro sistema politico» (Atti Uff., N. 337, pag. 1304).
Opinione del dep. Massari sulle opinioni di Napoleone III.
Il deputato Massari parlò egli pure il 2 dicembre, e convenne che per ora a Roma non si va, non si può andare, e non si vuole andare; perché la Francia ci ha dato un rifiuto. Nondimeno crede il Massari che Napoleone Il1 sia estremamente benevolo verso di noi, anche quando rifiuta, quando ci rimbrotta, quando ci flagella, come la madre del Filicaia che i figli con pietoso affetto
«Stringe e d’amor si strugge a lor davante…
E se ride o s’adira, è sempre amante».
«O signori, cosi il Massari, noi dicevamo che a Roma si deve andare, non contro la Francia, ma d’accordo colla medesima. Per ora c’è stato un ritinto. Noi dobbiamo rispettare ed apprezzare le cagioni di questo rifiuto. Certo, siccome esso è proceduto da un governo, le cui intenzioni estremamente benevole verso di noi non sono un mistero per nessuno, e che sarebbe mostruosa ingratitudine di negare, così questi motivi hanno dovuto essere rispettabili, ed io li rispetto» Atti Uff., N. 338, pag. 1305).
Opinione del dep. Musolino sulle opinioni di Napoleone III.
Il deputato Musolino non confida per niente su Napoleone III. Egli l’ha detto senza ambagi, e le sue parole non abbisognano di commento. Potremmo riferire per intero il suo discorso, ma basti il brano seguente:
«La Francia ci ha dato la Lombardia, perché servisse di base alla futura unità italiana? Proclamò il principio di non intervento, perché noi potessimo, avere quella libertà di azione che avemmo? Le annessioni posteriori furono nelle intenzioni, nelle previsioni della Francia? Sono questi, o signori, i problemi che io v’invito a meditare e risolvere. Se voi vi limitate all’apparenza, avrete senza dubbio motivo di essere grandemente soddisfatti; ma se guardate alla realtà, trovate materia di essere spaventati. Imperocchè non siamo stati noi che abbiamo guadagnato il gabinetto della Tuilleries; ma è desso che ha guadagnato noi; noi finora siamo stati strumenti della di lui politica, ed il soccorso che ci concesse fu più nel suo, anzichè nel nostro interesse» (Atti Uff., N. 338, pag. 1307).
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Opinione del dep. Brofferio sulle opinioni di Napoleone III.
Il deputato Brofferio nella tornata del 3 di dicembre distinse tra Francia e Francia, tra Francesi e Francesi, tra Napoleoni e Napoleoni, e incominciò il suo discorso così: «Io invio un saluto di fraternità alla Francia. Non alla Francia che regna e governa per opprimere e per calpestare, ma alla nazione generosa, nobile, forte, intelligente, che colla sua rivoluzione chiamò tutti gli altri popoli sulla via della giustizia, del progresso, della civiltà, dulia risurrezione. Essa ha diritto alla pubblica riconoscenza (Mene I)» (Atti Uff., N. 339, pag. 1312).
Opinione del dep. Ricciardi stille opinioni di Napoleone III.
Il deputato Ricciardi che parlò nella tornata del 4 di dicembre, fu esplicito come il deputato Musolino. Ricciardi ama la Francia per tante ragioni, e principalmente perché in Francia nacquero le sue figlie; ma non ama Napoleone III, perché se le sue figlie nacquero in Francia, non nacquero però nelle Tuillerie. Ecco le parole del Ricciardi: «In primo luogo credo necessario dover dichiarare la mia simpatia profonda per la nazione francese; per la Francia, dalla quale ho ricevuto affettuosa ospitalità durante tutta la mia vita esulante; perla Francia, in cui nacquero le mie figlie; per la Francia, la quale versava per noi il sangue suo più generoso a Magenta ed a Solferino; ma la Francia e colui che la regge supremamente, la Francia e colui, nelle cui mani quel popolo generoso ha abdicato il suo libero arbitrio, non sono la medesima cosa. Ora per me sta che Napoleone non vuole punto né poco quello che noi vogliamo» (Atti Uff., N. 341, pag. 1317).
Opinione del dep. Rattazzi sulle opinioni di Napoleone III.
Finalmente chiuderemo questa rassegna esponendo l’opinione del signor Rattazzi, che sebbene reduce da Parigi ne sa meno degli altri. Nel suo brindisi detto nell’Hotel du Louvre si guardò ben bene dal proferire una parola su Roma, pel timore che il Bonaparte gli tirasse gli orecchi; ma in Torino, lungi dal pedagogo, sfringuellò un discorso eterno su Roma. Innanzi tutto premise: ed è evidente che non ci è possibile avere Roma; ma poi conchiuse che Napoleone III tardi o tosto ce la darà. Uditelo:
«lo domando, o signori, se il governo francese avesse avversato l’unità italiana, se avesse voluto che l’Italia fosse divisa e dipendente, qual ragione lo spingeva a riconoscere il governo italiano? Non poteva egli seguire l’esempio delle altre Potenze che non intendevano di fare questa ricognizione? Certo non v’era alcuno che glielo impedisse. E notate, o signori, che la ricognizione del regno d’Italia fu l’atta dono che il Parlamento aveva solennemente col suo voto dichiarato che Roma era la capitale naturale del nuovo regno, che Roma apparteneva all’Italia (Bene! bene!); il che prova che l’atto di ricognizione conteneva implicitamente anche la ricognizione della capitalo d’Italia» (Applausi) (Atti Uff., N. 341, pag. 1320).
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Sono dunque sette Deputati che parlarono di Napoleone III, e quasi tutti con opinioni diverse sull’Imperatore dei Francesi. In un punto trovaronsi d’accordo, cioè nel dire che a Roma non si va per ora, e non si può andare.
Ed anzi i deputati Alfieri e Massari presero a sostenere la tesi, che Roma non era necessaria per l’unità d’Italia. Anzi lo smedagliato Alfieri sostenne che per fare l’Italia bisognava abbandonare Roma, giacchè «Roma non sorse mai per lare l’Italia; Roma talvolta sorse per rifare l’impero Romano; in Roma non vi ha una buona lezione, non un buon esempio di politica nazionale» (Atti Ufficiali, N. 337, pag. 1304).
IL FICO D’ADAMO E DETTINO RICASOLI (Pubblicato il 12 dicembre 1861).
Si legge nel capo 3° del Genesi che a’ nostri primi padri, dopo di avere mangiato del frutto proibito «si apersero gli occhi, ed avendo conosciuto che erano ignudi, cucirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture». Trovasi in Egitto una specie di fico chiamato fico d’Adamo, le foglie del quale sono grandissime, e pare che di queste si servissero i nostri progenitori. E Adamo, avendo udito la voce del Signore Iddio che camminava nel Paradiso, si nascose; e il Signore lo chiamò e dissegli: Adamo, dove sei tu? E Adamo rispose: Ho udito la tua voce nel Paradiso ed ho avuto ribrezzo, perché era ignudo, e mi sono nascosto.
Antonio Martini fa su questo punto il seguente commento: «L’esempio del. primo uom peccatore è imitato pur da’ suoi figliuoli, i quali nessuna cosa temono tanto come la vista e la confessione della verità, da cui sono condannati; onde cercano per ogni parte scuse e pretesti per nascondere e diminuire i proprii peccati».
E questo si avverava testè in Dettino Ricasoli. Iddio volle pigliar vendetta della rivoluzione facendone vedere la nudità. Qstcndam nuditatem tuam, fu la gran sentenza della giustizia divina, la quale inoltre dispose, che i rivoluzionari stessi smascherassero la rivoluzione, la mettessero in luce ne’suoi principii, ne’ suoi effetti, nelle sue conseguenze, spogliandola d’ogni ipocrisia, e mostrandola nel suo schifosissimo aspetto.
Quindi sorse il deputato Ferrari e disse: «Siamo sulle spine quanto alla finanza, nell’incertezza quanto alla diplomazia, nel provvisorio quanto all’amministrazione (1)». Sorse Pisanelli ed aggiunse: «Noi abbiamo bisogno d’ordine… La rivoluzione permanente aliena da noi le simpatie della parte conservatrice degli Italiani, che è pur gran parte di tutta Europa (2)». Sorse Brofferio ed esclamò:
(1) Atti Uff., N. 331, pag. 1302.
(2) Atti Uff., N. 340, pag. 1315.
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«No, l’Italia non è fatta, anzi non fu mai tanto disfatta come in questi giorni (1)».
E Brofferio mostrò che l’Italia è in mano dei ladri, che gli assassini dividono colla polizia l’infame bottino, che i tribunali vengono meno al loro dovere, che l’istruzione è un caos, e le leggi una Babilonia. E Ricciardi provava che nel regno delle Due Sicilie tutti sono scontenti. E Petrucelli, e Mellana, e Crispi, o tutti gli altri oratori uno dopo l’altro venivano manifestando lo stato orribile in cui versa l’Italia.
E il Deputato Levito ci dava un’idea della veracità ministeriale dicendo: «Le assicurazioni dell’onorevole presidente del Consiglio, e la leggiadria del discorrere del suo collega pei lavori pubblici non possono impedire che il giorno 5 novembre ultimo un’orda di briganti si portasse su Trivigno a massacravi cinque galantuomini, ed in quel giorno medesimo in cui il governatore di Basilicata faceva partire il generale Della Chiesa dal capoluogo della provincia con 450 bersaglieri, spacciando di averla finita coi briganti; che i briganti non fossero penetrati in Aliano, dove moriva per mano assassina il capitano dei bersaglieri, Palizzi; che non fossero entrati in Stigliano dove la bandiera borbonica restava a sventolare due giorni, a grande disdoro del paese e del governo; che non avessero saccheggiato Corigliano, Grassano, Accettura, Pietragalla, dove un pugno di eroi trincerati nel palazzo ducale tennero 17 ore di resistenza; che non fossero entrati in Bella, dove periva il sacerdote Bruno, fratello di un capitano di volontari.
«I discorsi degli onorevoli ministri non tolgono che i saccheggiatori non fossero entrati in Vaglio, ove a sei miglia da Potenza scannavano con altri liberali il sindaco, signor La Casma; che i satelliti di Borgès non invadessero Craco; dove morì il deputato del 1848, signor Costantino Rigirone; che non fossero penetrati in Salandra, dove il nobile mio amico e compagno di studii, sig. Celestino Spaziento, era legato ad una colonna e vivo abbruciato ecc. (2)».
Anche lo stesso ministero faceva delle confessioni. Ricasoli confessava che corriamo pericolo, se non facciam senno, di perdere l’ottenuto e procrastinare l’ottenibile, e che abbiamo dodicimila emigrati, de’ quali cinquemila soltanto nel 1861 ci costarono oltre due milioni (3). E il ministro della guerra confessò che il numero dei delitti ordinari andava crescendo in Sicilia, e che nelle Marche e nell’Umbria per le leve «si ebbero a deplorare fatti, e a contare renitenti non pochi, in ispecie nell’Umbria (4)».
Per queste e per cento altre confessioni simili fatte concordamente dalla Camera sull’anarchia, sui delitti, sulla confusione babelica che regna in Italia, il povero Bottino Bicasoli vi trovò nudo. L’Armonia gli avea strappato di dosso la sottanna del P. Tosti che s’avea acconciato sulla persona come cosa propria, e amici e nemici mostrarono nella Camera le pessime condizioni a cui la rivoluzione e il suo governo aveano ridotto l’Italia.
(1) Atti Uff., N. 340, pag. 1313.
(2) Atti Uff., N. 354, pag. 1368.
(3) Atti Uff., N. 354 pag. 1367.
(4) Atti Uff., loc. cit., pag. 1368.
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Laonde il povero Ricasoli ricorse al fico d’Adamo per coprire la sua nudità. Ed eccolo a strappare ad una ad una le foglie per vestirsene. Uditelo.
«lo dichiaro solennemente che nei miei rapporti diplomatici coll’estero, quello che ha recato grandissimo danno nello trattative d’interesse nazionale, quello che ha reso la mia parola meno efficace, è stato appunto (Con calore) questo continuo inventare e spandere notizie allarmanti sulle nostre condizioni interne (Vivissimi applausi dalla Camera e dalle tribune)». Prima foglia del fico d’Adamo!
«Io sostengo (Con forza) dirimpetto alla Camera, che le condizioni dell’Italia non sono in quello stato nel quale alcuni con voluttà, che in verità io non so comprendere, si compiacciono dipingerle». Seconda foglia del fico d’Adamo!
«L’Italia, per i pregi degli Italiani, per il loro senno, per la loro virtù, e per non so qual beneficio della Provvidenza, nelle condizioni in cui si trova, è forse il paese meglio ordinato d’Europa (tiravo! a destra e al centro — Movimenti a sinistra)». Terza foglia del fico d’Adamo!
«Io mi appello alla coscienza di tutti, se finalmente, dopo una rivoluzione cosi profonda, uscendo dai reggimi che avevano turbato le condizioni morali ed economiche delle popolazioni e disseccate completamente tu«te le fonti della pubblica felicità, un paese può essere in migliore stato di quello in cui si trova l’Italia». Quarta foglia del fico d’Adamo!
«Ripeto ancora, le condizioni politiche sono eccellenti; dappertutto le popolazioni confermano col loro contegno la loro adesione a quelle condizioni, in cui si sono posto volontariamente; dappertutto accettano il plebiscito». Quinta foglia del fico d’Adamo!
«Non vi sono altro che reati ordinari, lo non voglio contarne il numero, non ho statistiche. Forse, se io avessi una statistica criminale, chi sa se non potrei con due parole dimostrare da questo banco come le condizioni morali dell’Italia non siano per niente inferiori a quelle della Francia, dell’Inghilterra, delle nazioni più prospere, più civilizzate». Sesta foglia del fico d’Adamo!
«lo lo dico con la verità, e lo ripeterò ancora, io faccio appello al sentimento patriottico di tutti, io chiedo che sia finalmente dato bando a queste pitture esageratamente fosche, che si ha il vezzo di fare delle nostre condizioni (Bravo! Bene!)» Settima foglia del fico d’Adamo!
«Grande Iddio! Che cosa deve dire il mondo, quando questi quadri vengono da noi medesimi, si tratteggiano in questa stessa Camera dai rappresentanti del paese? Quale forza può avere il ministro degli a Ilari esteri dirimpetto alle Corti estere, allorchè gli si possono opporre i nostri stessi giornali, la voce, la parola degli stessi rappresentanti della nazione? (Sensazione)». Ottava foglia del fico d’adamo!
«Siamo onesti; non chiedo altro». (Vivissimi applausi dalla Camera e dalle tribune. Malumori a sinistra. Conversazioni animate nella sala. Dopo alcuni istanti si ripetono applausi dai Deputati e dalle gallerie).
«Brofferio. Domando facoltà di parlare (Rumori, movimenti diversi).
«Ricciardi (Con impeto). La parola onesti debb’esser ritirata!
«Zuppetta. Qui non vi sono disonesti! (Il rumore, continua).
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«Miglietti, ministro di grazia e giustizia. Mi permetta la Camera una parola sola
«Voci a destra e al centro. Parli! Parli!
«Brofferio. lo ho ho già domandato la parola
«Mellana, Io non ho ancora finito il mio discorso.
Chiaves. Il deputato Mellana saprà difendersi.
«Miglietti, ministro di grazia e giustizia. Mi rivolgo alla compiacenza della Camera, perché voglia ascoltare due sole parole (Voci in vario senso).
«Altre voci. Parli Brofferio! No! (Rumori).
i Presidente. La parola è al deputato Mellana.
«Voci. Parli Mellana!
«Altre voci a sinistra ed al centro. Parli Brofferio!
«Presidente. La parola o al deputato Mellana; quando egli non la ceda, non la posso dare ad altri.
«Mellana. Io intendo ancora di parlare; ma se trattasi solo di una spiegazione…
«Voci. Sì, sì! Si dia la spiegazione!
«Altre voci. No! No!
«Minervini (Con calore). Questa è mistificazione; od è, o non è (Rumori) (1)».
Capite, che belle scene avvengono quotidianamente nel primo Parlamento italiano? Ma le foglie di fico non servono al barone Ricasoli. Egli in sostanza ha raccomandato ai Deputati di tacere. Dunque sente internamente che le loro accuse sono vere, e confessa che i mali d’Italia sono reali. Ricasoli raccomanda il silenzio come già un antico suo collega, l’avv. Salvagnoli, diceva: colla verità non si governa. Ma che Parlamento è questo, che dal Presidente del Consiglio viene pregato di non parlare? Che governo è questo che teme la luce? Che ministero è questo che per coprirsi abbisogna delle foglie del fico di Adamo?
Signor Bellino, il fico d’Adamo non ha foglie così ampie da coprire la nudità vostra. Dite ciò che volete, e non coprirete mai la nudità dei ladri che rubano in Torino, in Bologna, in Napoli, dappertutto. Le vostre foglie non copriranno i malcontenti, i disinganni, le maledizioni che vi vengono addosso da tulle le parli della Penisola. Ci vuoi altro che foglie di fico per coprire il nostro tesoro in guisa che non se ne veggano le miserie! Scoronate pure tutte le ficaje del mondo, e ammucchiatele sulla vostra amministrazione, che ciò nondimeno si vedranno i vostri errori, le vostre corbellerie, le vostre presunzioni!
Il barone Ricasoli sul cominciarsi delle interpellanze diceva ai Senatori ed ai Deputati, che parlassero pure, dicessero tulio, domandassero schiarimenti quanti volevano, giacché egli era dispostissimo a soddisfarli. E poi? E poi finisce col raccomandare il silenzio, e supplicare gli onorevoli che lo cuoprano per carità colle foglie del fico d’Adamo! E questo è il primo ministro del regno d’Italia!
(1) Atti Uff., N° 354, pag. 1369.
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