STORIA DE’ NOSTRI TEMPI DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI DI GIACOMO MARGOTTI (XV)
IL REGNO D’ITALIA DIPINTO DAGLI ITALIANISSIMI
(Pubblicato il 17 agosto 1861).
Il Popolo d’Italia del 10 di agosto, N. 216, pubblica un indirizzo che molti Deputati italianissimi trasmisero a loro elettori, e noi leviamo da questo documento le seguenti dichiarazioni:
I. Vedemmo inaugurato un regno di Savoia e non italiano?. Che il regno non sia italiano transeat, ma che sia un regno di Savoia non può esser vero se non in quanto la Savoia appartenendo alla Francia, l’Italia d’oggidì è un’Italia francese.
II. Ci trovammo, sotto pretesto di diplomazia, ridotti ad un’inane dimostrazione, che dichiarava Roma nostra capitale: dimostrazione, la quale adesso ci accusa d’impotenza e mette in dubbio l’esistenza stessa del regno.
IIl. Meglio sarebbe stato il tacere e il vivere come i Longobardi e i Franchi esuli dal Campidoglio, che il dirsi Italiani e Romani senza avere il coraggio di esserlo.
IV. ?II ministero mutava quattro volte il supremo suo delegato a Napoli. La guerra civile continua, le recenti stragi superano quelle dei mesi trascorsi?.
V. ?Nel Parlamento le varie consorterie fortificate dagli impieghi, dalle missioni, dalle aspettative, dagli odii stessi territoriali abilmente utilizzati, rifiutarono ogni misura conciliatrice, fino a negare la urgenza accordata per solito: tutte le petizioni quando noi la chiedemmo por rivocare in patria il maestro stesso di Garibaldi e di Cavour (Mazzini).
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VI. ?II prestito si sottoscriverà al 70 per 0|0, del 22 per cento al disotto di ogni prestito europeo?. E poi Ricasoli ha il coraggio d’invocare la sottoscrizione del prestito come un tratto di patriottismo!
VII. ?Fu rovinato il credito delle rendite napoletane e siciliane decadute senza profitto di alcuno, del 40 per cento?. E poi vogliono che Napoletani e Siciliani siano contenti, e facciano festa!
Vili. ?In Italia ogni cosa ridotta a inutile stento lascia l’odioso carattere del provvisorio in ogni istituzione; e l’incertezza giunge a tale che l’ultima legge proposta dal ministro dell’interno sull’amministrazione del Regno, dichiaravasi essa stessa misura provvisoria di altra legge provvisoria non ancora votata?.
IX. ?Questo è il reggime che venne sostituito alla vera unità della nazione, questa la prosperità che ci promette l’amministrazione attuale, questa la situazione del nostro Stato senza metropoli, senza tradizioni, senza principii.
Queste ultime parole definiscono a meraviglia il nuovo Regno d’Italia. Chi volesse compendiare la definizione in più breve sentenza potrebbe dire: Torre di Babele. Chi desiderasse una parola sola: Caos.
Abbiamo il caos nell’amministrazione, il caos nella finanza, il caos nell’istruzione pubblica, il caos nella giustizia, il caos nella politica interna ed estera. Guerra civile, debiti immensi, unione discorde, regno senza capitale, servitù sotto nome d’indipendenza, stragi continue, incertezza generale, provvisorio del provvisorio, ecco il regno d’Italia secondo gli stessi italianissimi.
Il senatore Matteucci, il 12 di agosto, scriveva una sua lettera ad un giornale di Torino, conchiudendo: ?Che bella cosa se imparassimo una volta a dire come gli Inglesi: che presto o tardi l’Inghilterra deve perdere le Indie!? Noi non diremo che cosa il Piemonte tardi o tosto debba perdere: diremo solo che gli Stati che durano non hanno nulla che rassomigli al presente regno d’Italia.
L’Opinione del 15 di agosto si consola che le reazioni di Napoli non possono durare a lungo contro l’energica repressione delle armi nostre. Certo, quando tre quarti del reame saranno o fucilati, o in prigione, o in esilio, non vi sarà più lotta a Napoli; ma vi sarà un governo costituito? Vi sarà quella civiltà, quel progresso, quella rigenerazione dipinta da Tacito: Dum solìtudinem faciunt pacem appellant!
Lamartine aveva torto, quindici anni fa, quando chiamava l’Italia la terra dei morti; ma oggidì con molta ragione potrebbe chiamare questa povera penisola la terra dei fucilati e dei fucilatori.
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CURLETTI E I MISTERI DI TORINO
(Pubblicato il 20 e il 21 settembre 1861).
I.
?II pubblica aspetta che la luce sia fatta e prenderà anch’egli le sue conclusioni in seguito, e andrà irremovibilmente FINO AL FONDO DI TUTTI QUESTI MISTERI? Gazzetta del Popolo (N° 258, 18 settembre 1861).
Eugenio Sue scrisse I Misteri di Parigi, un altro I Misteri di Londra; ma erano romanzi: noi scriviamo I Misteri di Torino nel settembre del 1861, e sono storia, pura storia, che commove la nostra città, che spaventa i nostri concittadini pel presente e molto più per l’avvenire. Qui non trattasi di opinioni politiche, trattasi di giustizia, e parleremo francamente, chiaramente, certi di avere con noi tutti gli onesti di qualunque pensare.
Viene arrestato e processato un certo Cibolla, reo di furto, di stupro, d’omicidio, e per ragione d’età è condannato soltanto a venti anni di galera. Giovane di svegliato ingegno, parte per vendetta, parte per capriccio, parte per desiderio di popolarità, incomincia a fare una serie di gravissime propalazioni, accompagnandole con tali e tanti indizi, e circostanze di tempo, di luogo, e di persone, che non è possibile sospettare menomamente della veracità delle sue denunzie.
Il fisco non ne dubita, e spicca l’ordine di procedere col massimo rigore contro tutti gli arrestati; un solo, che il Cibolla aveva denunziato come capo, ordinatore, promotore degli assassini! commessi è lascialo libero, e questi è Filippo Curletti. Il quale era già stato il capo della polizia in Torino, era stato chiamato da Sua Eccellenza Farini a riordinare la polizia in Bologna; e il marchese Napoleone Pepoli l’aveva voluto nell’Umbria per ristabilirvi l’ordine morale: e il generale Della Rovere lo desiderava ardentemente a Palermo. Nuovo Omero, sette città se lo disputavano, e Napoli era la fortunata; Napoli che Io aveva ottenuto e lo possedeva per reprimere i briganti e cessare le corruzioni dei Borboni !(1).
(1) Confermiamo le nostre asserzioni coll’autorità dell’Opinione N° 258, 19 settembre: ?Il cav. Farini, quando fu dittatore dell’Emilia, l’aveva chiamato (il Curletti) a Bologna per ordinarvi il servizio di polizia e costituirvi il corso delle guardie di sicurezza pubblica. Egli avevagli assegnato uno stipendio di 5000 franchi. Forse perché questa rapida promozione avesse suscitati mali umori, il dittatore collocò il Curletti in disponibilità, conservandogli lo intero stipendio. Il marchese Pepoli invitò poscia il Curletti a recarsi nell’Umbria per ordinarvi le guardie di pubblica sicurezza, e lo stesso incarico gli era stato affidato a Napoli. Il generale Della Rovere, stimando la capacità del Curletti, scrisse a Torino, perché fosse mandato a Palermo, affine di ordinar anche colà la guardie di sicurezza pubblica?.
Lo cariche sostenute e che sosteneva il Curletti facevano un solenne obbligo al fisco di procedere tosto contro di lui, e ciò nell’interesse prima della giustizia, poi nell’interesse del Curletti medesimo, e finalmente nell’interesse dei governo, che a qualunque costo dovea purgarsi
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dei sospetti gravissimi che sarebbero pesati sul suo capo. E doveva procedere per mettere in chiaro tutto l’avvenuto nei plebisciti di Romagna e dell’Umbria, i quali ebbero luogo quando la polizia in que’ paesi stava nelle mani del Curletti. Non vogliamo già dire che egli ci entrasse menomamente, o che que’ plebisciti si ottenessero con male arti; ma solo ch’era dovere del fisco di procedere più diligentemente che mai, poiché una questione di giustizia criminale poteva complicarsi con una questione di politica.
Ma tant’è, contro tutti i denunziati dal Cibolla si procedeva, e contro il Curletti no. Intanto durante il processo, e in seguito agli interrogatorii la veracità del denunziante appariva come la luce del mezzodì, e risultavano a carico del Curletti i più gravi indizi. Poco amici della pubblicità dei processi dobbiamo questa volta confessare che l’intervento del pubblico agli avvenuti dibattimenti fu di gran vantaggio al paese. La voce pubblica levavasi ogni giorno più contro il Curletti, e la giustizia non potè più a lungo lasciarlo in disparte.
Non si creda tuttavia che il Curletti si arrestasse, o si mettesse semplicemente nel novero degli accusati. Egli, come dicevamo, stava a Napoli organizzando la pubblica sicurezza, e venne pregato di recarsi a Torino a suo bel agio, in qualità di testimonio per dare degli schiarimenti sull’intentato processo. Ma il Curletti non entrava nel processo medesimo che come accusato, e non si comprese mai come potesse trasformarsi in testimonio! Il Cibolla aveva detto che il Curletti era reo, e non che conoscesse i rei. O si doveva arrestare subito, o non cercare menomamente di lui.
Dopo tre lettere che lo chiamavano, il Curletti ebbe la bontà di venire in Torino, fu udito come testimonio, e trovossi a faccia a faccia col Cibolla, che gli ripetè le accuse, e lo dichiarò il capo degli assassini insieme con persone ancor più alto locate. Il Curletti si tonno in sul negare, accennando in sua difesa circostanze che nell’atto medesimo del dibattimento risultarono della più assoluta falsità.
Né si creda che contro il Curletti stesse solamente il Cibolla, un volgare assassino, come chiamavalo il Curletti medesimo. Deponeva contro di lui un giovane magistrato ragguardevolissimo per probità e sapere, il cav. Soardi giudice istruttore, il quale diceva che quando egli per dovere d’ufficio istruiva il processo contro il Tanino e il Cibolla, trovò nel Curletti una costante opposizione giunta fino alle minaccio, opposizione che riusciva inesplicabile senza ricorrere ad ipotesi spaventose.
Vuoisi sapere che prima del processo Cibolla ebbe luogo un processo così detto Tanino. Il Tanino, secondo il Cibolla, era quello che corrispondeva col Curletti, e trasmetteva gli ordini della polizia agli assassini subalterni. Il Curletti prima si adoperò col cav. Soardi perché non si facesse il processo al Tanino. Poi il Tanino morì in pochi giorni misteriosamente in prigione, sicchè non poterono aversi da lui le necessarie spiegazioni. I giornali dissero che morisse di veleno, ma non si fece né allora, né in seguito l’autopsia del cadavere, ed anche questa morte è rimasta un gran mistero.
Dopo le dichiarazioni del cav. Scardi, e le pubbliche denunzie del Cibolla l’uditorio credeva concordemente che si procedesse sul luogo stesso
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all’arresto del Curletti, ad esempio di ciò che in simili casi erasi sempre praticato, tanto per la falsità della sua deposizione, quanto per gl’indizi del reato I). Ma cosa insolita, mentre gli altri testimoni si pagano privatamente e ben tardi, al Curletti si snocciolavano in tanti bei marenghi di zecca, seduta stante, e in presenza del popolo, alcune centinaia di lire, e si mandava in pace (2). Il giorno dopo Curletti recavasi al Mango sua patria, e preparavasi per ritornare trionfalmente in Napoli.
In vista d’un procedere così strano e di un’indolenza tanto inesplicabile, dietro fatti gravissimi, anzi senza esempio, la nostra città proruppe in un grido unanime d’indegnazione, e qua e colà il giornalismo venne fuori con qualche timida protesta. Allora si manda attorno la voce che verrà fatto un processo al Curletti, e che frattanto è sorvegliato dalla polizia in guisa da non poterne temere la fuga.
Passano giorni e giorni, le voci si succedono sempre più gravi, parlasi di nuove denuncio intorno ad antichi assassini ed a persone atto locate, e cresce sempre più nel governo il dovere di procedere severamente a sua giustificazione ed a tranquillità del pubblico, che vede i delitti partire di là dove si aspettava la pubblica sicurezza, e pagava le tasse per ciò. Ma nel meglio si sa che la polizia, accorsa per arrestare il Curletti, noi trovò più in Torino, ed egli, passati i confini se ne stava sicuro in Isvizzera.
In questo la stampa governativa fa certi scambietti, di cui conviene tener conto. La Gazzetta di Torino dopo che il Curletti apparve davanti al tribunale nell’inqualificabile veste di testimonio, vien fuori colle seguenti parole stampate nel suo numero del 3 di settembre:
?Del chiasso che si faceva per Torino sull’affare di Curletti, pareva che il mondo dovesse essere alla fine per Curletti stesso. Non è così! Chi ha avuto, ha avuto. Curletti, l’avv. Suardi ed altri testimoni chiamati espressamente per questo stesso incidente presero la loro pingue tassa, e ciascuno andò pei fatti suoi, ciascuno si recò ad occupare il posto più o meno alto che prima aveva?.
Ma la stessa Gazzetta più tardi è obbligata ad annunziare che si procedeva contro il Curletti, e che fu spiccato l’ordine di arrestarlo. Così l’Opinione del 18 settembre piglia in certo modo le parti del Curletti, e parla di ?riguardi che dobbiamo a persona imputata semplicemente e non condannata?. Ma il 19 di settembre l’Opinione stessa dimentica i riguardi e parla della gravità delle deposizioni fatte contro il Curletti, e si lagna che non sia stato arrestato nell’udienza. E la Gazzetta del Popolo del 18 di settembre, che pareva dovesse fare un fracasso eterno, e andare irreparabilmente fino al
(1) Anche questo punto è confermato dall’Opinione: ?L’opinione pubblica si era vivamente commossa alle propalazioni fatte contro il Curletti, ed ora si commuove alla notizia che, spiccato centra di lui il mandato d’arresto, egli era riuscito a svignarsela. Questo mandato pare veramente che sia stato spedito un po’ tardi. Non è la prima volta che un testimonio, contra cui siano sorti gravi indizi, sia stato arrestato nell’udienza stessa e trattato come complice?.
(2) Citeremo nuovamente l’Opinione: ?Intanto egli (il Curletti) fu citato a Torino qual testimonio. Fu osservato che mentre a tanti testimoni si fa aspettare l’indennità, a lui fu pagata immediatamente, cosicchè potè andarsene tosto?
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fondo di tutti questi misteri, oggi ha un articolo assai rimesso sullo stesso argomento.
A noi ed al pubblico torinese pare cosa da non lasciarsi così presto cadere. La questione Curletti, come la chiama l’Opinione, è affare gravissimo. Si tratta dell’onore del governo, si tratta dell’onore del fisco e della magistratura, si tratta dell’onore della polizia; circolano per la città dicerie che vogliono essere distrutte; si è compiuto un processo irregolare; si sono condannati i colleghi e non si è processato il capo; la giustizia non potè avere il suo corso, né la pubblica opinione la dovuta soddisfazione. è impossibile che le cose restino come sono colla fuga del Curletti, e nient’altro; è necessaria un’inchiesta severissima, perché la luce sia fatta su tanti misteri.
II.
?Qui (in Torino) dove l’onestà sociale fu sempre considerata come una vera religione del viver politico, la coscienza pubblica reclama un’inchiesta solenne, esemplare, implacabile; domanda che gli enigmi si sciolgano, che i sospetti si chiariscano, e che si dispensi a tutti il suo? (Perseveranza, N. 663, del 20 settembre, corrisp. di Torino del 19).
L’Opinione del 20 di settembre fa una correzione ed un’aggiunta a ciò che avea scritto nel suo precedente numero intorno alle cariche sostenute da Filippo Curletti. Costui non fu chiamato a Bologna dal Farini ?ma vi era stato condotto da Massimo d’Azeglio, allorché andò governatore delle Legazioni. Ivi rimasto il Curletti dopo la pace di Villafranca, ebbe dal governatore Cipriani l’incarico della direzione generale della polizia per quelle provincie, sotto la dipendenza del ministro dell’interno Montanari.
?Dimessosi il sig. Cipriani, e nominato in sua vece il cav. Farini, costituì dei tre governi di Parma, Modena e Bologna un solo governo, che intitolò dell’Emilia. In tal circostanza il Curletti rimase disponibile, e fu poco stante chiamato a Firenze. Di là fu invitato a seguire il marchese Pepoli a Perugia, e indi a poco andò a Napoli, di dove partì allorché fu citato a comparire dinanzi a questo tribunale guai testimonio nella causa Cibolla?.
Questi nuovi schiarimenti servono sempre più a dimostrare, che nel processo Cibolla fu commesso un grande errore dal lato politico e dal lato giuridico, che il governo, la polizia, la giustizia non possono tenersi paghi dell’inconcepibile fuga del Curletti, che bisogna andare fino at fondo di tutti questi misteri nell’interesse medesimo del nuovo regno d’Italia, e che è necessaria, come dice assai bene il corrispondente torinese della: Perseveranza, UN’INCHIESTA SOLENNE, ESEMPLARE, IMPLACABILE.
Abbiamo un ispettore di polizia cosmopolita: egli a Bologna, egli a Firenze, egli a Perugia, egli a Napoli, egli a Palermo, egli a Torino, dappertutto chiamato dagli uomini del progresso e della civiltà per istabilire su basi naturali il servizio della pubblica sicurezza in un governo che ha per base la morale e la giustizia (1). Un bel giorno questo universale ispettore di polizia ci viene denunziato come capo dei più ribaldi assassini, come colui che della polizia medesima prevalevasi per assassinare. L’accusato fugge e la polizia lo lascia fuggire. Ma tutto può essere finito con questa fuga?
(1) Perseveranza del 20 ili settembre, N. 663.
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Gli uomini che hanno avuto da fare con Curletti debbono principalmente adoperarsi, perché sia manifesto se il Cibolla ha calunniato il Curletti, o se questi era proprio un capo di assassini. Nell’aprile di quest’anno 1861 Bettino Ricasoli, Terenzio Mamiani, Di Torrearsn, Carlo Poerio, Carlo Pepoli, L. A. Melegari, Giuseppe Massari, ecc., fecero istanza al governo italiano perché appoggiasse una petizione al Senato francese, nella quale si chiedeva che venisse rifatto il processo contro Guglielmo Libri, condannato il 22 di giugno 1850 dalla Corte di Assise della Senna a dieci anni di reclusione come reo di furto.
Non sappiamo se il governo italiano aderisse alle istanze di Bettino Ricasoli e compagnia. Questo sappiamo, che il Senato francese passò puramente e semplicemente all’ordine del giorno sulla petizione suddetta; e il Senatore incaricato di esaminarla fe’ tale Mira relazione da confermare il delitto del Libri, anzi che riabituarne la fama. Laonde Bettino Ricasoli e gli altri sottoscritti resero un pessimo servizio al Libri nell’atto stesso che se ne dichiaravano gli amici.
Ora noi domandiamo a tutti coloro che ebbero a fare con Curletti un’istanza al governo, perché la luce sia, fatta, perché si vada irremovibilmente fino al fondo di tutti questi misteri. Coraggio, o antichi governatori di Bologna, di Parma, di Modena, di Firenze, di Napoli e di Palermo, dite su al governo italiano che trovi modo di appurerei fatti imputati al sig. Filippo Curletti, e, se non si può per via di processo, stante la fuga dell’accusato, si faccia per mezzo di un’inchiesta giuridica. Questa petizione deve essere sottoscritta da tutti coloro che ebbero relazioni col Curletti, cioè da Massimo d’Azeglio, da Luigi Farini, da Lionetto Cipriani, da Bettino Ricasoli, da Napoleone Pepoli e dal generale Della Rovere che ultimamente desiderava di avere il Curletti a Palermo.
K preme che si faccia presto una tale istanza per turare la bocca a tanti maligni, per cessare tanti sospetti (1) e per togliere ni nemici del regno italiano, al Duca di Modena e di Parma, al Granduca di Toscana, al Re di Napoli ed al Cardinale Antonelli un argomento che tardi o tosto potrebbero addurre contro i plebisciti. Che sarebbe egli mai se costoro potessero dire, che il Curletti mandato nelle città capitali ch’essi abbandonarono, avea sotto di sé. bande di ladri, di assassini, di omicidi t Che, se potessero contrapporre un fatto simile alle accuse della nostra ex-Gazzetta Piemontese, quando rimproverava il governo pontificio di lasciare infestare dai ladri le Romagne? Che, se potessero dire che si permise la fuga del Curletti per non andare al fondo di tanti misteri!
Come si vede noi siamo ben lungi dal giudicare e condannare il Curletti; anzi vogliamo supporto innocente, quantunque le persone innocenti non sogliano fuggire. Ed è appunto perciò che insistiamo vieppiù per un’inchiesta, la quale potrà essere fatta anche nell’assenza del Curletti medesimo ed in suo vantaggio.
(1) Scrivono da Torino, 19 settembre, alla Perseveranza di Milano: ?Corrispondenze misteriose designano con alcune iniziali dei nomi ili colpevoli, a cui il pubblico appiccica per completarli i proprii rancori e i proprii sospetti?.
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E poi vi è un processo viziato nella sua origine, e questo è il processo ribolla. Le accuse, i delitti, i processi non si possono scindere, perché in ciascun di loro esiste un’unità giuridica, una concatenazione di circostanze, che si spiegano a vicenda. Voi non potete procedere contro nove accusati dello stesso delitto, e lasciare in disparte il decimo, accusato come gli altri. Ciò ripugna al buon senso, all’eguaglianza della legge, all’amministrazione della giustizia. La giustizia non si può dividere e applicarla a frazioni, un terzo, un quarto, un decimo: o tutta, o niente. O non si dovea tener conto delle denunzie del Cibolla, o dovevano venire processati tutti quanti i denunziati, e il Curletti pel primo.
Su questo proposito ricorderemo ai nostri concittadini un esempio che ormai appartiene alla storia. Trattasi di delitto politico e non di reato comune, ma la giustizia è la stessa per ogni genere di reati. Il 25 di ottobre del 1836 Luigi Napoleone partiva da Arenemberg, e la sera del 28 giungeva a Strasburgo, dove il 30 cercava di levar a tumulto la Francia, guadagnare l’esercito, piombare su Parigi, atterrare il governo allora esistente, che era quello di Luigi Filippo. Il tentativo andò fallito, e Luigi Napoleone dovette cedere le armi. Sono prigioniero, esclamò egli, tanto meglio: non morrò in esilio?. Ma Luigi Filippo gli offerse la libertà a patto ch’egli si lasciasse confinare in America, e Luigi Napoleone accettò.
Intanto liberato di questa guisa il capo della cospirazione di Strasburgo, la polizia francese faceva il processo contro i complici, e li traeva davanti il giurì di quella città. La Camera delle accuse della Corte Reale di Colmar, congregata colla Camera di revisione della polizia correzionale, pronunziava competere alla Corte dell’Assise del Basso Reno la cognizione dell’affare del 30 di ottobre. Luigi Napoleone il capo, era, come abbiam detto, messo in libertà e mandato in America, e sette dei detenuti venivano posti in istato d’accusa: il colonnello Vaudry, la signora Gordon, il signor Layty, il comandante Parquin, di Querelles, di Grécourt e di Bruc. Ma credete voi che que’ giurati li condannassero? No davvero, e non li condannarono precisamente, perché era stato liberato il loro capo, e la giustizia non si può scindere, e non è in potestà del governo, quando trattasi della stessa accusa e dello stesso delitto, procedere contro quelli e lasciare questi in libertà (1).
Merita di essere letto su questo proposito quanto scrisse Louis Ulano nella sua Storia di dieci anni (2). Dopo di aver riferito che il capo della cospirazione di Strasburgo era libero, e i complici sotto processo, esclama: Ici l’injustice paraissait toucher au scandale. E racconta che Strasburgo era indegnata d’uno scandalo simile, e se ne menava gran rumore nelle conversazioni, nei caffè, nelle bettole, nelle birrarie, dappertutto. E quando, per ragione del capo in libertà, il giurì assolse i complici in prigione, nella sala l’uditorio gridò: Vive le jurì! Vive le jurì d’Alsace!
(1) ?Ou n’en separa pas moins sa cause (de Louis Napoléon) de celle des autres conjurés; mais appelè a pronuncer sur leur sort, le jury retablit par un verdict d’acquittement, le principe de légalité de tous devant la loi? (Dictionnaire de la Conversation, toro. XIII. Paria 1857, pag. 481).
(2) Histoire de dix ans, tom. V, Paris 1844, pag, 197.
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Ora nessuno oserà negarci che se l’affare del Curletti fosse stato conosciuto dai giurati, come si conosce presentemente, essi potevano modificare il loro giudizio; e se il Curletti fosse stato tradotto alla loro presenza come ogni altro inquisito, e dagli interrogatorii, e dalle deposizioni, e dai confronti potevano risultare circostanze gravissime, che attenuassero il delitto degli altri, o manifestassero qualche aggiunto in loro discolpa.
E se oggidì i giurati dovessero sentenziare nel processo Cibolla, dopo la fuga del Curletti, dopo il contegno della polizia, dopo l’indolenza del governo, essi, come i giurati di Strasburgo nel 1837, ristabilirebbero l’eguaglianza di tutti davanti alla legge!
Donde si vede come sarebbe necessaria una doppia riparazione giuridica, tanto per riguardo ai condannati, quanto al fuggito. Nella sala del tribunale sta scritto che la legge è uguale per tutti; ma questo stesso principio bisogna scriverlo nelle storie dei giudizi e nella coscienza del pubblico. Cessi Iddio che noi vogliamo menomamente lanciare sospetti, o tener dietro alle voci ed alle ciancio che si fanno nei caffè e su pei trivii; ma sgraziatamente può scriversi un lungo catalogo di persone di qualche considerazione, che sul punto di essere tratte davanti i tribunali poterono fuggire e lasciarono insoddisfatta la giustizia! Noi non iscriveremo nessun nome, perché molti nomi saranno ancora nella memoria de1 nostri concittadini.
A questo si aggiunge Io scandalo della fuga del Curletti, che accresce peso alle dicerie, e provoca i più sinistri commenti (1). Ma in uno Stato ben ordinato dee togliersi ogni fondamento ad accuse di questo genere. Importa che sia chiarito come calunniatore chi osa muovere simili appunti all’amministrazione; epperò è necessaria un’inchiesta sui fatti avvenuti e sulla fuga permessa, o tollerata: necessità politica e giuridica ad un tempo, tanto a difesa dei governanti che hanno in mano la cosa pubblica, quanto di coloro che sono incaricati di applicare la legge e amministrare la giustizia.
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