Storia della Certosa e del Museo DI SAN MARTINO…
Per la realizzazione della Certosa di San Martino fu chiamato l’architetto e scultore senese Tino di Camaino, già famoso per il Duomo di Pisa, e capomaestro della corte angioina.
Alla morte di Tino l’incarico di architetto del complesso di San Martino passò ad Attanasio Primario. Dell’impianto originario restano i grandiosi sotterranei gotici.
Rappresentano una notevole opera d’ingegneria necessaria a sostenere l’edificio e a costituirne il basamento lungo le pendici scoscese della collina.
Dalla ricerca iconografica e da rilievi ed osservazioni effettuate sulle strutture dei sotterranei, risulta verosimile l’ipotesi che il progetto di Tino di Camaino, abbia inglobato preesistenti strutture di tipo difensivo dell’antico castello di Belforte.
Nel 1581, si avvia un grandioso progetto di ampliamento della Certosa, affidato all’architetto Giovanni Antonio Dosio, destinato a trasformarne il severo aspetto gotico nell’attuale preziosa e raffinata veste barocca. Il crescente numero dei monaci impose una radicale ristrutturazione del Chiostro Grande: si realizzarono nuove celle, e fu rivisto l’intero sistema idrico.
Il promotore di questa nuova e spettacolare veste della Certosa di San Martino è il priore Severo Turboli, in carica dall’ultimo ventennio del Cinquecento fino al 1607. I lavori avviati sotto la direzione di Dosio, vengono proseguiti da Giovan Giacomo di Conforto, che realizzerà la monumentale cisterna del chiostro.
Il 6 settembre 1623 inizia la collaborazione con il cantiere di San Martino dell’architetto Cosimo Fanzago, che, tra alterne vicende, durerà fino al 1656. Nato a Clusone (vicino Bergamo) nel 1591, Cosimo Fanzago giunge a Napoli nel 1606.
Pur rispettando l’originaria impostazione di stile rinascimentale toscano di Dosio, Fanzago connoterà con il segno inconfondibile della prepotente personalità ogni luogo del monastero. Il primo contratto stipulato con i certosini incarica Fanzago del completamento del Chiostro Grande che, ad eccezione del cimitero e del pavimento, viene ultimato nel 1631.
Cosimo diviene ben presto responsabile dell’intero cantiere e decide di mantenere i contratti con gli stessi pittori, scultori e artigiani già collaboratori di Dosio e di Conforto: sostanzialmente prosegue, sia pure imponendo la propria cifra artistica, il progetto di ampliamento del monastero e di ammodernamento degli spazi monumentali.
Interviene infatti nella chiesa, negli ambienti annessi e negli appartamenti del Priore e del Vicario, avviando una serie di opere rimaste incompiute e spesso riutilizzate altrove.
L’opera di Fanzago si caratterizza per una straordinaria attività decorativa. La carenza, infatti, di marmi a Napoli comportava la necessità di importare marmi antichi di scavo da Roma, bianchi da Carrara, bardigli e broccatelli dalla Spagna, neri dal Belgio, breccia dalla Francia e infinite altre qualità per comporre il caleidoscopico universo vegetale riprodotto con la raffinata tecnica del commesso marmoreo.
Un mondo figurativo tipicamente napoletano che deriva, tuttavia, da esperienze di matrice toscana e riceve nuova linfa e originalità dal genio di Fanzago.
Cosimo trasforma le tradizionali decorazioni geometriche in apparati composti da fogliami, frutti, volute stilizzate, cui gli effetti cromatici e volumetrici, conferiscono un carattere di realismo e sensualità eccezionali.
San Martino diviene così, negli anni ’20 e ’30 del Seicento, un luogo di eccellenza della sperimentazione dell’ornato dell’epoca. Tutta la decorazione della chiesa ne è un esempio, con gli splendidi rosoni di bardiglio che ornano i pilastri della navata, tutti diversi tra loro o gli intarsi marmorei delle lesene e i putti in chiave degli arconi delle cappelle.
Nel 1636 Fanzago è incaricato di occuparsi dei lavori per la facciata della chiesa, avviati nel 1616 dal ‘piperniere’ Tommaso Gaudioso: nel 1650 propone ai monaci un progetto diverso ma tale da riutilizzare la struttura già realizzata. La variante prevede che i mezzi pilastri dell’arco mediano siano demoliti e la crociera centrale dell’atrio sia sostenuta da quattro colonne di verde antico.
I padri ritengono queste ultime staticamente insufficienti a reggere il carico della volta e interpretano il tutto come un tentativo di raggiro.
Fanzago elabora quindi per il pronao una soluzione architettonica che preserva le strutture trecentesche – ben visibili attraverso gli occhi – rivestendole esternamente con il prezioso apparato marmoreo.
Al momento di lasciare la Certosa Fanzago riutilizza parte dei marmi già realizzati e non completa tutti i lavori in corso.
Accade perciò che alcune opere siano successivamente riadattate o riutilizzate in altri contesti, come la splendida vasca a becco di civetta, sistemata un secolo dopo da Nicola Tagliacozzi Canale nel chiostrino adiacente al Refettorio. Intorno al 1723, al regio Ingegnere e architetto della Certosa Andrea Canale subentra il figlio Nicola Tagliacozzi Canale, più noto come incisore e creatore di apparati scenici.
Comunemente definito architetto-scenografo, Nicola occupa un posto di assoluto rilievo nell’ambito della raffinata cultura settecentesca per quel che attiene la sperimentazione del gusto in tennini di decorazione e di integrazione tra ornato e struttura architettonica.
Partecipa di quella densa e fervente espressione artistica che va sotto il nome di rococò e che si manifesta con una perfetta sintesi tra pittura, scultura e architettura.
Ormai vecchio, ma ancora a capo dei lavori di San Martino negli anni di Carlo di Borbone, il Regio ingegnere Tagliacozzi Canale progetta per il priore Giustino Nervini la decorazione in stile orientaleggiante di alcuni ambienti del Quarto, affrescati dal pittore Crescenzio Gamba.
Oltre a testimoniare l’attualità del gusto della committenza certosina, sempre attenta e pronta a recepire le sollecitazioni della cultura artistica contemporanea, la decorazione del Quarto rappresenta ancora una volta il segno della costante attenzione di Nicola per gli aspetti ornamentali e scenografici.
Il complesso subisce danni durante la rivoluzione del 1799 ed è occupato dai francesi. Il re ordina la soppressione per i certosini sospettati di simpatie repubblicane, ma alla fine acconsente alla reintegrazione.
Revocata la soppressione, i monaci rientrano a San Martino nel 1804. Quando gli ultimi monaci abbandonano la Certosa, nel 1812 il complesso viene occupato dai militari come Casa degli Invalidi di Guerra, fino al 1831, quando viene nuovamente abbandonato per restauri urgenti. Nel 1836 un esiguo gruppo di monaci torna a stabilirsi a San Martino per riuscirne poi definitivamente.
Soppressi gli Ordini religiosi e divenuta proprietà dello Stato, la Certosa viene destinata nel 1866 a museo per volontà di Giuseppe Fiorelli, annessa al Museo Nazionale come sezione staccata ed aperta al pubblico nel 1867.
fonte
polomusealecampania.beniculturali.it