Storia della Sicilia del professore Massimo Costa 7/ Dai Romani ai Barbari, ma sempre e solo siciliani
Alla fine quella di Roma è stata una dominazione che ha usato la Sicilia per prendere tanto e dare pochissimo. Di fatto, è quello che succede ancora oggi. Se l’Impero Romano usava la Sicilia per prendere grano e imporre tributi, la Roma di oggi si limita a calpestare lo Statuto e a scippare i soldi ai Siciliani. E i Barbari? Oggi sono presenti con l’Unione europea che ci impone il grano al glifosato
La Sicilia Provincia Romana
§ 1 – Da Regno a Provincia
La Sicilia fu la prima Provincia della Repubblica Romana, quando l’espansione oltre la Penisola non consentiva più di espandersi con l’adozione delle tradizionali alleanze che avevano dato luogo alla complessa Confederazione italica. Come abbiamo detto, all’inizio fu un “passaggio di consegne” dai Punici, che poco a poco avevano trasformato la rete di città a loro federate in una vera e propria provincia del loro impero. Così almeno alla fine della I Guerra Punica. Alla fine della II anche il Regno di Sicilia (nella parte orientale) entra a far parte della Provincia, anzi ne diventa il cuore. Con i Romani, quindi, la Sicilia raggiunge per la prima volta quell’unità politica che non aveva mai avuto ai tempi della grande Civiltà Siceliota.
I Romani governano essenzialmente una terra greca. Quando Cicerone dice che “i siciliani sono diversi dagli altri Greci” per carattere, sta implicitamente dicendo che si tratta comunque di un popolo greco, sia pure dotato di uno spirito peculiare, in cui peraltro non è difficile scorgere elementi arrivati sino a noi. Il greco, come lingua scritta, aveva soppiantato ogni altro idioma, e il punico, già forse allora confinato all’estremo occidente, scompare rapidamente senza lasciare traccia.
I Siculi, a contatto con i Latini, progressivamente si latinizzano, ma per tutta l’era repubblicana le iscrizioni latine sono limitatissime, mentre dei Siculi e della loro lingua sembra essersi persa ogni traccia scritta. I governatori romani, se non conoscono il greco, hanno addirittura bisogno di un interprete, i Siciliani partecipano alle olimpiadi greche e ai riti religiosi ellenici, tra cui famosissimi le Tesmoforie dedicate alla dea Demetra/Cerere, protettrice dell’Isola. Si può in un certo senso dire che la Sicilia sia stato il primo dei regni ellenistici ad essere incluso nel dominio romano.
Le città-stato, che nel dominio punico e nel Regno Siceliota non avevano perso mai del tutto la loro indipendenza, vengono conservate nella loro autonomia interna, ma poco a poco vengono omologate e diventano sempre più unità amministrative e sempre meno politiche. All’inizio – come si è detto – solo tre città non erano incluse nella Provincia (Messina, Taormina e Noto) ma erano alleate direttamente di Roma. Le altre distinte tra “libere ed immuni” (soltanto cinque, tra cui Palermo) e “vettigali” (tutte le altre), cioè tributarie. A queste si aggiungono nel tempo alcuni municipi dotati di cittadinanza romana, le “colonie” o “città censorie” di Romani e Italici direttamente provenienti dalla Penisola. Ma poco a poco l’amministrazione provinciale livellerà queste differenze.
All’inizio i Romani mantengono gli ordinamenti giuridici trovati, in particolare la Lex Hieronina in materia fiscale riadattata nella Lex frumentaria: solo che ora la decima dei prodotti agricoli non andava alla reggia di Siracusa ma direttamente a Roma. Queste sopravvivenze non tolgono che una dominazione durata secoli sarebbe stata destinata a romanizzare progressivamente tutto l’ordinamento giuridico, fino a renderlo indistinguibile da quello romano, salvo forse per qualche residuo ordinamento municipale.
Al vertice dell’ordinamento un Pretore romano (non prima però del 227, quando analoga figura fu prevista per la “Sardegna e Corsica”), che sedeva nella reggia di Siracusa, assistito, da due Questori, uno a Siracusa, per il vecchio “Regno siceliota”, uno per la parte occidentale dell’Isola, la “Provincia lilibetana” o “Vecchia provincia” (cioè l’antica Epicrateia punica), che sedeva invece a Lilibeo (forse residuo della primissima organizzazione dopo la I guerra punica). Le nomine erano di norma annuali, ma potevano essere prorogate.
Nei primi secoli di tale dominio, nella fase “repubblicana” e del “principato” (dalla fine del III secolo a.C. agli inizi del I secolo d.C.) la Sicilia è il “granaio dell’Impero”, la nutrice di Roma. Al carico tributario e alle vendite forzate a prezzi imposti si imponeva il divieto di vendere grano e altri generi fuori da Roma senza il permesso della Repubblica. Le migliori e più vaste proprietà agricole passano nelle mani di famiglie romane. Il latifondo invade campi ancora vergini nell’interno dell’Isola, strappati alla primordiale foresta mediterranea che per secoli Siculi e Sicelioti non avevano significativamente intaccato. Per far questo la Sicilia è letteralmente invasa da una popolazione servile importata dai quattro angoli del Mediterraneo, laddove erano arrivate le conquiste romane. Non sappiamo se questa popolazione servile sia stata in grado di riprodursi in maniera significativa e quindi innestarsi stabilmente in Sicilia, ma più probabilmente aveva bisogno di continue immissioni. Di certo la dominazione romana fu essenzialmente di sfruttamento economico e finanziario. Non c’è bisogno di ricordare Verre, il più rapace dei governatori romani (73-71 a.C.), forse solo colpevole di avere rubato anche alle élite collaborazioniste e a qualche cittadino romano in Sicilia, e quindi di avere semplicemente esagerato rispetto agli equilibri che si erano creati nella Provincia.
Questo “equilibrio” tra sfruttamento esterno e collaborazioni interne era legato alla forma relativamente forse un po’ meno brutale di prelievo tributario dell’Isola, rispetto ad altre conquiste romane. Apprendiamo che alcune province, come l’Africa o la Spagna dovevano lo Stipendiarium, una vera e propria penalità inflitta ai paesi sconfitti, e in altre quasi tutte le terre erano sequestrate dai Romani. In Sicilia, dopo alcune generazioni, molte terre dell’ager romanus erano andate nelle mani di proprietari romani o siciliani, visto il clima pacificato della Provincia. A parte queste entrate, le città tributarie erano soggette solo alla decima già regolata da Ierone II; altre erano immuni o alleate dei Romani. Nelle comunità urbane il tributo era diviso tra i singoli dai censori, eletti dai Siciliani stessi in comizi pubblici tra i cittadini liberi.
Pertanto sarebbe errato pensare ad una reale opposizione delle élite siceliote alla dominazione romana. Le classi dirigenti, come accade sempre nei periodi di declino, entrano presto in un clima di pieno collaborazionismo con gli sfruttatori esterni. Già durante la III Guerra punica, ad esempio, fondamentale è il contributo logistico della Sicilia alla definitiva conquista e distruzione di Cartagine (149-146 a.C.), al punto che Publio Scipione Africano Minore sentì il bisogno di ornare la Sicilia collaborazionista con “statue e monumenti”.
Nondimeno ciò non impedì che tutta la dominazione romana depauperasse poco a poco di ogni vitalità economica, politica e culturale la Sicilia. La civiltà Siceliota, già fiorente ai tempi dell’indipendenza, decade inesorabilmente e la Sicilia esce quasi dalla storia. Il malcontento sarebbe venuto invece dagli strati più umili della società: gli schiavi o, tutt’al più, le plebi urbane o rurali. La primitiva Questione Siciliana è già soprattutto una questione “economica e sociale”, esattamente come sarebbe stata in altre occasioni future in cui la Sicilia, persa la propria indipendenza, avrebbe visto stringere un patto tra dominatori esterni e classi privilegiate interne: un patto essenzialmente di rapina, se si vuole andare alla sostanza delle cose. La Sicilia, infatti, torna agli onori delle cronache solo per due guerre servili, cioè per rivolte di schiavi, che tengono in scacco per anni interi i Romani: la prima dal 139 al 132, la seconda dal 104 al 101. Conseguente fu l’atteggiamento dei Siciliani di fronte a queste rivolte, in fondo senza speranza di successo: alcuni, tra i più poveri, spalleggiavano il tentativo degli schiavi di cacciare i Romani dall’Isola; altri, i possidenti, ormai assimilati alla classe senatoria romana, invocavano un intervento per ristabilire l’ordine.
Più celebre tra le due, quanto meno nella memoria storica, la I Guerra servile, per la figura epica di Euno, il capo degli schiavi, siriano, incoronatosi Re di Sicilia, con il nome ellenistico di Antioco, nome tradizionale dei sovrani della dinastia dei Seleucidi. Gli insorti proclamarono la naturale libertà e uguaglianza degli uomini ma non ebbero la forza di resistere alla reazione romana. Per alleviare un po’ le condizioni del lavoro servile, ma anche per dare ordine al governo della Provincia, i Romani emanarono, dopo averli sconfitti, la Lex Rupilia, che naturalmente non poteva rimuovere il malessere alla base, dando infine luogo, nel giro di una sola generazione, ad una II Guerra servile, dagli esiti anche qui scontati. Ancora una volta abbiamo uno schiavo, Salvio, che si fa acclamare re col nome di Trifone, ma già vediamo comparire nel suo abbigliamento una toga purpurea e i fasci littori, segno che la cultura ellenistica si andava ibridando con quella romana.
A Salvio successe Atenione, anche lui poi sconfitto. Secondo alcuni questa avrebbe avuto maggiori appoggi tra i Siciliani stessi, malcontenti della dominazione romana, da cui la Sicilia era ormai spremuta da più di un secolo. Scontato però l’esito anche della seconda rivolta. È da notare che in entrambe i rivoltosi si riunirono al Tempio di Cerere a Enna e ai santuari degli Dei Palici a Mineo, da sempre simboli dell’antico nazionalismo siculo.
Roma venne a capo di queste rivolte e stroncò ogni velleità libertaria o separatista. La pax romana fu ristabilita, naturalmente a spese della Sicilia, avviata verso il suo triste declino, che sulle lunghe distanze non fu solo politico, ma anche economico, culturale e demografico.
Da Cicerone apprendiamo lo stato delle leggi e della giustizia in Sicilia sul finire dell’età repubblicana, secondo la citata Legge Rupilia. Le dispute interne alle singole città erano rette dalle antiche leggi siculo-siceliote: tutte le città, associate o tributarie o immuni che fossero, erano quindi una sorta di piccole repubbliche oligarchiche il cui ordinamento non era ancora del tutto dissolto. Le liti tra cittadini di diverse città erano regolate da una commissione appuntata dal Pretore per il singolo caso. I conflitti tra i cittadini e le proprie comunità cittadine erano decise da giudici nominati dal Senato di un’altra città. I conflitti tra un cittadino romano (attore) e un siciliano (convenuto) da un giudice siciliano; quelli inversi (il siciliano attore e il romano convenuto) da un giudice cittadino romano. In tutte le altre cause (le più importanti) i giudici erano scelti tra i cittadini romani, ma non le cause tributarie, dove i giudici erano scelti secondo l’antica Legge Ieronina (da Ierone II). Nel complesso, quindi, vediamo confermato un articolato ed equilibrato compromesso tra le oligarchie dei senati locali e i nuovi dominatori italici.
§ 2 – Dalle Guerre Civili al Principato
I rivolgimenti della Repubblica Romana che seguirono e le prime due guerre civili (la prima tra Mario e Silla, e la seconda tra Cesare e Pompeo) toccarono solo marginalmente la Sicilia, dove Silla inviò Pompeo a liberare la provincia dai Mariani durante la prima, e che Cesare occupò senza colpo ferire durante la seconda. Nel 46 a.C., senza alterare l’ordinamento interno alla Provincia, ancora in gran parte regolato da leggi e costituzioni pre-romane, Cesare favorisce l’integrazione dei Siciliani concedendo loro una cittadinanza di “Serie B”, la cittadinanza latina, ma non quella romana, invece concessa ai “Cisalpini”, forse perché ancora erano sentiti in gran parte come “Greci”, o comunque non del tutto assimilabili agli Italici. Questa stessa concessione ai provinciali siciliani fu criticata a Roma, perché considerata eccessiva.
La fine della II Guerra Civile vide l’instaurazione a Roma del 2° Triumvirato (Ottaviano, Antonio e Lepido) come un’istituzione ufficiale della Repubblica. Ribellandosi a questo nuovo governo, un figlio di Pompeo, Sesto, insieme a fuoriusciti pompeiani, si insignorisce delle tre maggiori isole del Tirreno, dando vita ad un’effimera talassocrazia, ponendo come capitale Siracusa. Dal 42 al 36 a.C. Siracusa, sotto Sesto Pompeo, diventa brevemente centro di uno strano stato insulare comprendente Sicilia, Sardegna e Corsica, comandato dagli oppositori a Roma, sinché i Triumviri non riescono a ricondurre all’ordine i ribelli, dopo la battaglia navale di Nauloco. I Siciliani furono puniti severamente da Augusto per aver appoggiato lo stato piratesco di Lucio Pompeo.
Antonio, nel 43 a.C. aveva continuato la politica di integrazione di Cesare, concedendo addirittura ai Siciliani la piena cittadinanza romana. La nuova legge, durante l’occupazione ribelle di Sesto Pompeo, non poté avere piena attuazione, e fu revocata da Augusto, o – secondo parte della storiografia – fu comunque di molto ridotta.
In quest’epoca si registra una non ben documentata III Guerra servile, guidata da tale Seleuro, forse a capo di schiavi che avevano appoggiato la signoria di Sesto Pompeo, il quale finì i suoi giorni nel circo a Roma (35 a.C.), su un palco che rappresentava l’Etna, aperto il quale, si fece precipitare il malcapitato in una gabbia di leoni dai quali fu sbranato.
La conquista dell’Egitto da parte di Ottaviano Augusto, e la successiva instaurazione del Principato (27 a.C.) segnano un’altra svolta per la Sicilia. L’Egitto era molto più adatto della piccola Sicilia al ruolo di granaio di un Impero ormai immenso, e la Sicilia comincia ad essere trascurata, in quanto non più strategica per il grande dominio esteso ora su tutto il bacino del Mediterraneo. Augusto assegna così la Sicilia al Senato, considerandola una provincia del tutto pacificata e integrata con il resto dell’Impero. Da ora in poi al vertice dell’amministrazione è un “Proconsole”, forse non assistito più da due ma da un solo questore, ma appare certo che la divisione in due sub-province, per essere arrivata all’età bizantina, dovette in qualche modo permanere.
Ad Augusto, che visitò la Sicilia intorno al 22 a.C., si deve un’ondata di latinizzazione dell’Isola, per mezzo di una serie di colonie insediate qua e là (sei secondo la tradizione), tra cui una di un certo momento a Palermo, oltre che in città importanti come Taormina, Siracusa e Catania. I cittadini romani di pieno diritto, come detto, restavano una importante e crescente minoranza, costituita dagli abitanti delle colonie, dei “municipia” (altre città con questo specifico privilegio, come Messina, o Agrigento) e altri cittadini sparsi per l’Isola, ma la Sicilia non fu integrata nell’Italia augustea, mentre rimase una delle tante province dell’Impero.
Da testimonianze del tempo rileviamo che i comuni (le “civitates”) dell’Isola erano in numero di 68, comprese Lipari e Malta. Non si ha però più traccia di esenzioni tributarie per nessuno dei comuni dell’Isola, nemmeno per le colonie romane; la decima fu anzi sostituita da una imposta fondiaria, lo stipendium, secondo alcuni più pesante della precedente ma senza certezze in tal senso.
Nel complesso, in sintesi, con Augusto la Sicilia politica fece un passo indietro in termini di autonomia e identità “nazionale”, pur restando distinta dall’Italia. Come sarebbe accaduto anche in epoche posteriori, Roma, non incontrando in Sicilia opposizioni politiche degne del nome, né avendone più particolarmente bisogno, revoca quelle autonomie municipali che erano sopravvissute a due secoli e mezzo di dominazione romana. A Siracusa, ad esempio, l’amministrazione, prima delle riforme augustee, era ancora in gran parte regolata da norme che risalivano a Diocle, dell’epoca della “Politeia”, e i mandati annuali erano scanditi dall’amphipolìa, istituzione che risaliva alle riforme di Timoleonte.
Da Augusto in poi assistiamo a uno svuotamento e poi abolizione delle antiche magistrature siceliote, sostituite qua e là dai duumviri, replica provinciale dei consoli romani, spesso tradotta nel greco dyòandroi, visto che il greco persisteva come lingua principale dell’Isola. Anche le distinzioni tra i vari diritti e lo status delle città sfumano o sono del tutto aboliti fra il 43 e il 21 a. C.: l’antica natura “politica” delle stesse si atrofizza, per far posto definitivamente a quella “amministrativa”. In questa stessa epoca troviamo per la prima volta l’adozione del calendario romano, anche se spesso ancora tradotto in greco.
3 – La Sicilia “silente” nell’Impero Romano
Dalla morte di Augusto (14 d.C.) all’invasione barbarica dei Vandali (468 d.C.) passano ben quattro secoli e mezzo; secoli dei quali sappiamo pochissimo, e spesso solo da fonti indirette, sulle varie riorganizzazioni amministrative dell’Impero. Per tutta la durata di questo mai la Sicilia sarebbe stata parte dell’Italia, ma permane sempre concepita come realtà geopolitica a sé. Anche sul finire dell’Impero, ai tempi di Diocleziano, quando le province vennero raggruppate in Diocesi, e la Sicilia fu compresa nella Diocesi “Italiciana”, si trattò appena di una transitoria organizzazione amministrativa, per la quale essa non divenne più italiana di quanto non lo fossero diventate la Rezia (l’odierna Svizzera) o il Norico (l’odierna Austria), anch’esse ricomprese nella “Diocesis Italia”.
La Sicilia pare abbia perso in questi secoli gran parte della sua popolazione e lo stesso latifondo pare sia andato un po’ in declino. Ora la Sicilia è posto di villeggiatura, giardino, per la ricca classe senatoria romana. Da un lato la sua importanza relativa nell’Impero è sempre più modesta, dall’altro i suoi abitanti si vanno lentamente integrando con gli Italici. Il latino finalmente prevale sul greco nelle iscrizioni ritrovate, e nella sempre più scarna letteratura, ma il greco non scompare mai del tutto.
Ormai non è più nemmeno corretto parlare di una “dominazione romana” come durante la Repubblica. La Sicilia diventa una delle tante province di un impero potenzialmente universale, nel quale il “primato” dell’Italia è sempre più teorico che effettivo. Anche le zecche, simbolo di una relativa autonomia economica dell’Isola, che non monetavano più in oro sin dalla perdita dell’indipendenza, si spengono del tutto nel corso del II secolo d.C.
Sappiamo di qualche disordine politico nel 68 d.C. e di una successiva nuova “iniezione” di Italici da parte di Vespasiano negli anni successivi. Sappiamo della visita dell’imperatore Adriano, ai primi del II secolo d.C. all’Etna, ma ben poco altro.
Nel 212, con l’Editto di Caracalla, anche i Siciliani che non lo erano ancora diventano in blocco tutti cittadini romani, come del resto tutti gli altri abitanti dell’Impero, ma in realtà, più che cittadini, sono tutti semplici sudditi, livellati dal generale dispotismo che non distingue più tra Italici e provinciali. In un periodo di crisi dell’Impero Romano (la cd. III anarchia militare, nella seconda metà del III secolo d.C.) si registra anche una breve IV Guerra servile (259), piuttosto oscura, forse più ascrivibile ai disordini comuni di quel tempo che a una generalizzata rivolta di tipo sociale come quelle del II sec. a.C.
§ 4 – Dalla conversione al Cristianesimo alle invasioni barbariche
Ma la vera trasformazione profonda di questi secoli è la progressiva e lenta cristianizzazione dell’Isola. Sebbene attestato sin dai primissimi tempi (il passaggio dell’Apostolo Paolo è addirittura menzionato negli Atti degli Apostoli), per lungo tempo il Cristianesimo rimase confinato alle classi medie urbane, soprattutto nella costa orientale, più aperta ai contatti con l’Oriente. Le campagne mostrarono invece una persistenza formidabile degli antichi culti siculo-sicelioti.
Sul finire del III secolo le figure più nobili del martirio siciliano, dapprima S.Agata e poi S.Lucia, sono testimoni di un radicamento ormai solido della nuova fede. Per contro sempre in Sicilia sembra esserci stata una vera e propria resistenza ideologica degli ultimi pagani neoplatonici, se dobbiamo attribuire particolare significato al lungo soggiorno in Sicilia di Porfirio.
Anche l’aristocrazia, finché la religione “gentile” fu culto di Stato, rimase legata alla stessa, in particolare ai culti “nazionali siciliani” di Cerere o della Venere ericina, per poi cambiare repentinamente nel corso del IV secolo d.C. quando il Cristianesimo diventava la religione dei Cesari e poi l’unica religione di stato. Simbolo di questa transizione, più di altri, è forse l’intellettuale Firmico Materno, da giovane trattatista pagano di astrologia, a uomo maturo polemista cristiano contro i pagani.
Privata della tutela pubblica, la religione pagana scompare rapidamente dalle testimonianze storiche, ma resiste sotto forma di culti popolari nelle campagne dove assume i caratteri della magia e della superstizione con i quali persiste per secoli e solo lentamente viene “acculturata” da una sovrapposizione di culti cristiani. La Chiesa cristiana, uscita dalle catacombe, viene assegnata come suffraganea ai pontefici romani. Per questa via l’influenza di Roma e del latino sulla Sicilia si fa sempre più intensa, mentre la Chiesa di Roma acquista sempre maggiori proprietà nell’Isola, attraverso lasciti e donazioni, favorita forse anche dall’assottigliamento demografico delle antiche classi possidenti.
Quando l’asse dell’Impero si sposta definitivamente a Oriente con Costantino, la Provincia di Sicilia, pur restando come sempre provincia a sé stante, mantiene con Roma e con l’Italia un legame di dipendenza speciale, di cui torna ad essere il granaio. Tramontata la divisione di Diocleziano in “diocesi” sarebbe passata alla “Prefettura del Pretorio d’Italia” e poi nella diocesi dell’Italia “suburbicaria” (cioè peninsulare). Ma queste inclusioni in strutture super-provinciali non ne alterarono sostanzialmente l’amministrazione, né la fecero mai integrare del tutto con l’Italia propriamente detta, dalla quale restò sempre politicamente distinta, ma semplicemente testimoniano del mantenimento di un legame speciale con quello che stava diventando ormai il troncone d’Occidente dell’Impero, di cui segue la sorte fino ai suoi sconvolgimenti finali.
La natura insulare dell’Isola però la protegge, almeno sino a un certo punto, dalle invasioni barbariche. La Sicilia diventa una roccaforte inattaccata della classicità greco-romana mentre il mondo antico andava in rovina. Solo nel 278 una spedizione di Franchi per breve tempo mette piede in Sicilia, ma il fatto rimane a lungo isolato. Anche Alarico, capo dei Visigoti, si ferma improvvisamente allo Stretto (dove la leggenda attribuisce tale arresto alla Fata Morgana).
L’amministrazione provinciale continua la propria vita apparentemente immutabile, anche durante i convulsi ultimi anni dell’Impero Romano d’Occidente. Saranno i Vandali, impadronitisi di Cartagine, a costituire la prima e forse unica signoria romano-barbarica dotata di una flotta degna di questo nome e quindi a costituire per la prima volta una minaccia per la stantia provincia di un impero in decomposizione. Il Regno dei Vandali di Genserico spadroneggia nel Mediterraneo seminando il terrore, conquista la Sardegna e la Corsica, e infine inevitabilmente sbarca in Sicilia. Nel 440 si impadroniscono di Lilibeo, ma nel 456 il generale romano-barbarico Ricimero li ferma presso l’odierna Agrigento nel loro tentativo di impadronirsi di tutta la Sicilia.
§ 5 – I regni romano-barbarici
Non è forse corretto parlare di una vera e propria “dominazione vandala” in Sicilia, quanto piuttosto di un’invasione e di una breve occupazione, negli anni della caduta dell’Impero Romano d’Occidente (468-476). I Vandali essenzialmente saccheggiano la Sicilia, mentre si contano numerosi episodi di martirio religioso (essi erano cristiani ariani e non cattolico-ortodossi come i Siciliani). In quel momento l’Impero Romano d’Occidente, nelle sue convulsioni finali, non poteva più provvedere alla difesa della Sicilia.
Però sarà Odoacre, il primo sovrano romano-barbarico dell’Italia, a ristabilire, appena insediato, le cose per via diplomatica: con un accordo politico concede a Genserico la città di Lilibeo e un tributo annuale, facendosi restituire in cambio la Sicilia dove l’amministrazione provinciale è ricostituita, con minimo impegno della tribù barbarica da lui guidata. Forse nessun erulo o quasi mise mai piede in Sicilia, e l’amministrazione poté essere certamente affidata a italici-romani sotto il governo barbarico di Ravenna.
Del resto Odoacre era un re romano-barbarico solo “a metà”. Egli era solo tale per il suo popolo, gli Eruli, mentre l’amministrazione dell’Italia, e del troncone di Impero d’Occidente che questo amministrava, tra cui appunto la Sicilia, la gestiva con la qualifica di Patrizio d’Occidente, cioè rappresentante in Occidente dell’unico Impero Romano, ormai ricostituito solo a Costantinopoli sotto Zenone, una volta che gli imperatori d’occidente si erano estinti. Forse l’unico atto sopravvissuto della sua signorìa in Sicilia è un atto con cui concede a un suo funzionario, tale Pierius, alcune proprietà vicino Siracusa (e in Dalmazia).
Con l’avvicendamento in Italia degli Ostrogoti di Teodorico agli Eruli di Odoacre (493) i Vandali sono scacciati anche dal Lilibeo, ricusando il tributo fin lì loro pagato (già nel 495 stando ad alcune ricostruzioni). La città rimase però a lungo in bilico tra le due signorìe. Teodorico dovette darla in dote alla sorella, sposa del re Vandalo Trasamondo, già nel 500, restando legata alla Sicilia solo in modo nominale; ma pare che alla morte di questi (523) sia tornata definitivamente ai Goti.
La Sicilia continua in sostanza ad essere una provincia romana sotto i nuovi dominatori, anche se questa volta si tratta di un regno del tutto indipendente, giacché Teodorico è “Re dei Goti e dei Romani”, sotto l’altissima autorità nominale degli Imperatori romani di Costantinopoli, ma né più né meno che come tutti gli altri re romano-barbarici del tempo. Mentre però Odoacre era capo di una piccola tribù, ora Teodorico guidava un popolo intero. Ciò determinò una presenza un po’ più attiva in Sicilia, il cui governo fu affidato a un “Comes” (letteralmente “compagno”, poi, nel tempo, la parola avrebbe assunto il significato di “conte”). Al suo seguito venne un discreto numero di Ostrogoti a governare e difendere militarmente alcuni presidi dell’Isola, ma questa non restò terra di insediamento privilegiata della popolazione barbara, e comunque di queste epoche oscure non sappiamo praticamente nulla, se non che il governo ostrogoto pare si sia dimostrato nel complesso blando nei confronti della Sicilia, fatta salva qualche persecuzione per le differenze religiose (anche gli Ostrogoti, come gli Eruli e i Vandali, erano ariani).
La dominazione dei Goti durò, con i successori di Teodorico, molto poco del resto. Già nel 535, regnante Teodato, le armate del generale bizantino Belisario riportarono la Sicilia sotto la bandiera dell’Impero Romano. Il pretesto per iniziare la guerra fu proprio la città di Lilibeo, che i Vandali consideravano nominalmente ancora loro. Una volta conquistato il regno di questi, Belisario ne chiese ai Goti la restituzione, che questi negarono, ma ovviamente era solo l’occasione affinché Bisanzio attaccasse il regno dei Goti. Presa Catania con un colpo di mano, le altre città a patti, solo Palermo oppose un po’ di resistenza. Quando entrò a Siracusa, capitale dell’Isola, Belisario buttò sulla folla monete d’oro, nel tripudio generale di una ritrovata stabilità politica. I Siciliani non potevano sapere che quelle monete sarebbero state le uniche ricevute da un governo che si sarebbe rimasto famoso per la sua rapacità fiscale. E non potevano nemmeno capire che quello era ormai l’Impero bizantino, cioè un impero greco che aveva la sua sede a Costantinopoli. Nella cultura giuridica e nel senso comune dei tempi, quello era semplicemente il ritorno dell’Impero Romano, visto da secoli come unica fonte di legalità possibile.
Le Guerre gotiche che avrebbero insaguinato e devastato l’Italia nei decenni successivi toccarono solo marginalmente la Sicilia. Solo dal 549 al 551 Totila, re ostrogoto, riuscì brevemente a tornare in Sicilia, per poi esserne nuovamente scacciato dai “Romani d’Oriente”. Il suo fugace passaggio fu tramandato più come una serie di saccheggi e devastazioni contro i Siciliani troppo facilmente tornati al potere “romano” che come un serio tentativo di reimpadronirsi dell’Isola.
Nel complesso, quindi, le invasioni e dominazioni barbariche durarono poco più di mezzo secolo, non alterarono l’amministrazione e la società romana di Sicilia e, in breve, possiamo dire che costituirono una effimera parentesi che non lasciò praticamente traccia nella storia di Sicilia.
Fine della settima puntata/ Continua
fonte