Storia delle due Sicilie dal 1847 al 1861 di Giacinto de Sivo (II)
LIBRO PRIMO–SOMMARIO
§. 1. Le Sicilie sempre co’ Re — 2. Amor del popolo al trono — 3. Le sette — 4. I Massoni — 5. I filosofi, Voltaire — 6. Federico II, Alembert e Diderot — 7. L’enciclopedia — 8. Montesquieu e Rosseau — 9. Accecamento de’ Re — 10. Acciecamento de’ nobili e de’ popoli —11. Cagione l’egoismo di ciascuno —12. Weishaupt.— 13. L’illuminismo. — 14. Gradi dell’illuminismo. —15. I Giacobini. — 16. I Carbonari 17. La giovine Italia. — 18. Gli Unitarii. — 19. Il pretesto dell’unità d’Italia. — 20. Sperano in Francia e in Inghilterra. — 21. Usano la religione. — 22. La Letteratura. — 23. La Filosofia. — 24. Il progresso. — 25. Il lusso opprime la civiltà. — 26. Le sette sono i Barbari Moderni.
1. Le Sicilie sempre co’ re.
Queste terre dopo i Romani ebbero principati, e al 1130 la monarchia. Prima furono re Normanni, poi Svevi, Angioini. Aragonesi, Austriaci e Borboni. La feudalità surta co’ Barbari, necessario freno all’anarchia, potentissima dal trecento al cinquecento, calò intristendo, e all’età dei nostri padri finì. Per quella nel reame avemmo disparità di ordini, altri percussori, altri sofferitori, moderati solo dal potere regio, quando la superiore Italia avea minori disuguaglianze di ordini, e reggimenti popolari, con gelosie di municipii, e gare cittadine, i popoli nostri, tartassati dai baroni, speravano nei monarchi, e stavan cheti e uniti. Ma quelle molte repubblichette, fatta a ritagli l’Italia, furono lungo tenzonar fratricida, cui sol dava posa il furiar dei tirannelli che le spegnevan sovente; sicché, fra le tirannie dei molti o de’ pochi, il viver libero era una irrisione prima ancor che finisse l’indipendenza, la quale, perché dilaniata e strema la nazione, si perse al primo irrompere dello straniero. Quei governi a popolo eran conflitti, sperpero del presente, incertezza del dimane, tramare, esiliare, confiscare, uccidere, vendicarsi, e poi retaggio secolare d’odio e sangue. Libertà il vezzeggiar la plebe e percuoterla. la indisciplinatezza delle passioni, il cozzo di tutte volontà, dove il forte e l’astuto schiacciava il debole e il bonario, dove neppur nel Santuario era sicurezza. Si sguainavan leggi per ira, e ogni dì se ne faceva in piazza per rifarle a rovescio poco stante, e a niuna ubbidire, ma alla forza. Mostra di libertà, e servitù atroce.
Siffatta pianta di libertà mai nel napolitano mise radice. In contrario i baroni tiranni a’ vassalli, spesso ribellavano a re. Questi alle prese con esso loro, avean forza dalle popolazioni; siccome queste nelle miserie ricorrevano ai monarchi; però ordine e giustizia turbati da’ grandi, avean sostegno solo dal trono, onde fra popolo e re era una medesimezza d’interessi, e colleganza e fede. Le dinastie normanna, sveva e aragonese battagliaron di continuo co’ baroni, e vinserli più volte con armi regnicole, ma furono esse vinte dalle, chiamate da’ baroni, arme oltramontane. Solo la razza angioina, che li divise e blandi, durò più, asservì il paese, ammiserì lo stato, e preparò quei due secoli e mezzo di viceregno e ubbidienza a Spagnuoli e tedeschi, che né spensero ogni prosperità. S’è visto sempre, e sin oggi, che niuna rivoltura riuscì nel reame, se non con arme straniere.
Dal servaggio viceregnale né riscattò nel 1751 Carlo Borbone, venuto da Spagna per diritto di successione. Ei rifece il regno indipendente, e ricominciò nuovo stato, con sicurtà, industria e ricchezza. Cancellò tutte interne discordie; lini i dissidii con Roma tra sacerdozio ed imperio; fermò i diritti regii con solenne concordato; primo diè un codici: di commercio, creò la Deputazione di salute. Proteggitore delle arti attestante la reggia e i giardini di Caserta, i ponti di Maddaloni, i palagi di Portici e di Capodimonte, i diseppelliti Pompei ed Ercolano, ed in Napoli le strade del Mote e Mergellina, il Museo, l’Albergo de’ poveri, i Granili, il gran teatro S. Carlo, e le fondate accademie. Ei tra noi pose fine al medio evo. Con leggi consacrò i principii del diritto comune e per non urtar dei diritti preesistenti costituiti dal tempo, lasciò anche al tempo il disseccamento della pianta feudale, quasi vizza e barcollante. Procedé non con azione diretta, ma dando vita a nuove forze sociali. Non percosse, non osteggiò, non abbassò il baronaggio; ma diè spinta agli ordini; sicché in breve quello restò minore, e nel conflitto le comunità avvantaggiate andavan sopra. Anzi i baroni onorò, se li chiamò accanto, con esca dello sfarzo li distrigò dai castelli, li svestì delle forme scherane, li fe’ spendere a corte, e guadagnar lindura, idee e civiltà. Cotali cagioni, e il subito divampare del napolitano ingegno, e la energia delle non più spregiate leggi, così ammortirono la feudalità, che già boccheggiava, quando la scoppiata rivoluzione di Francia die’ le vertigini a’ popoli e a’ sovrani. Questi per tema si fermarono a un tratto, né volean più dar nulla; quelli per foga corsero a furia, e tutto vollero a un colpo. Patimmo la conquista, e dieci anni di Francesi. Pertanto le leggi nuove, riversive de’ feudi con un taglio riciso, non isfuggirono l’odiosità dello sforzo; dove con poco altro ei sarebber venuti meno per civiltà progrediente, per virtù naturale dell’età. Allora i baroni stati oppressori, con fatale scambio furono oppressi, e anco in parte spogliati. Spenti essi restò il trono e lo scettro che agguaglia i dritti di tutti; il che fu la libertà voluta da’ Napolitani.
2. Amor del popolo al trono
La consuetudine al principato, otto secoli di colleganza fra re e popolo, la gratitudine e la simpatia, fan qui della monarchia un sentimento, che s’afforza negli affetti, nelle tradizioni, negl’interessi e nel bisogno del paese. Essa è te Stato nostro conveniente. Le menti Napolitane se n’eran convinte, che nel comunal pensiero re significa giustizia, repubblica subuglio; perlocché sebbene altri di fuori speculasse con sette e cabale a porre in questo paese qualche radice, avvizzì, per mal concio terreno. A’ tempi ultimi la nobiltà, paga di entrare a corte, e d’aver giuste ricchezze e moderate leggi, fu quasi tutta pel trono; e la bassa gente era sì al trono devota che poco più l’era alla religione. Fidava nel re come pregava Dio; né sapea più. Nella mezzana classe serpeggiava meglio il veleno straniero, il sofisma, e la erudizione sbiadita, e si levava a desiderii di subite salite, e pigliar nome e uffizii, onde smesso il freno religioso, vagheggiava forme di governo dove di leggieri potesse entrare. Costoro in ogni paese aspirano a novità, e insorgono, potendo. Ma qui potean poco non essendo gente d’armatura.
Guatando il passato luccica meglio questo vero, ché in tutte commozioni popolari trovi la devozione al re. Sicilia nel dugento ammazza a suon di vespro i Francesi dominatori violenti, e grida re lo Aragonese, erede della dinastia legittima. Napoli al cinquecento si leva contro il viceré Toledo, che volea l’inquisizione, ma co’ viva a Carlo V. Nel seicento insorge con Masaniello contro i balzelli e la baronia, e pur grida i viva al re. A tempo de’ genitori nostri, al sentir Francesi, i popolani nudi e senz’arme, combattonli co’ sassi tre dì; e poco stante al veder repubblica vengon da tutte provincie in massa con un prete in testa a schiacciarla con quella rabbia che né fe’ si tristo e famoso l’anno 1799. Quando poi Napoleone frustava mezza Europa, solo Calabria dice no sdegnosa, e sforzata ma non doma dà il sangue pel suo re lontano. Nel 1840 il popolo lasciò i settarii soli ad Antrodoco. Nel 1848 la rivoluzione mandata e attizzala dallo straniero fu spenta con arme patrie. E nel 1860 la nazione, conquisa dà oro e ferro estero, a lungo riluttò; e inerme e in ceppi ancora rilutta. Ne’ Napolitani la monarchia patria è religione.
3. Le sette
Queste verità son dure a’ novatori del paese; ma sorretti da quei di fuori non hanno scrupolo di porre in fuoco la patria, e darla a mangiare a’ forestieri. Oggidì le rivoluzioni suscitate in tutti i regni hanno una, anzi unica cagione, la setta. Ancor v’ha chi crede i rivolgimenti seguiti da ottant’anni in Europa fosser per circostanze di ciascun stato, non per trame generali premeditate da un concetto. Danvi cagione il mal governo, la oppressione, i balzelli, la poca libertà, e altro; credono il governar bene, le buone leggi, e la piena libertà abolirebbero le rivolture. Dicono chimere le società segrete; Massoni, Filosofi, Illuminati, Giacobini, Carbonari, Mazziniani, Unitarii, nomi da spauracchio, le sette, anche fossero, non aver forza da sollevar nazioni; e addebitano piuttosto al caso che alla settaria possa le ruine rivoluzionarie. Altri sono che non negano un po’ di premeditazione, ma sputan sentenze: le intenzioni esser buone, le idee voler trionfo di virtù, e la società rigenerata; i mali essere insiti alle mutazioni, dopo la tempesta venire il cielo netto e bello. Però guerra civile, saccheggi, arsioni di città, uccisioni d’innocenti non li spaventano, ché tai disordini dicono menare ad ordine duraturo.
I settarii poi, se in disgrazia, negan la setta; se in fortuna né menan vanto. Ricaduti rineganla sempre. Ma v’han di essa documenti innumerevoli: confessioni, rivelazioni, catechismi stampati, riconoscimenti in legali giudizii, libelli proprii, e celebrazioni. Si riuniscono in segreto ove stan sotto, in palese ove stan sopra; si riconoscono in capo al mondo, sì sorreggono, s’aiutano, si spingono alla preda concordi; ma abbrancatala se la stracciano, si insidiano, si sbugiardano, si accusano e si pugnalano a vicenda. Vediam tai sette cambiar nome e forme; ferite risanare, percosse reagire, schiacciate rinascere, e sempre con uno intento: colpire chiesa e trono, pigliare la potestà e la roba, e surrogare alla legge del dritto quella della passione. Dicono voler libertàed uguaglianza, ma le voglion per sé; voglion sugli altri l’arbitrio e la dittatura. Falli a un modo in tutte parli, con un programma, divampati contemporanei a spartirsi la terra.
Il volgo s’annoia a pensare, e volentieri s’acconcia alle idee altrui; così pochi scaltri fanno l’opinione che si dice pubblica, e partorisce ruine. Molti negatori delle sette son come settarii, che né riescono stupidi strumenti, e imboccati né ripetono i motti in piazza; plebe essi, persuadon la plebe, che n’è tanta al mondo; e con vaghe parole seminan ree dottrine. Voglion parer saputi, e son zimbello di furbi. Servonli a bocca come eco, a dar novelle false, a infamare la potestà, e a denunziarne i fatti, a farla parere esosa e insopportabile. Dichiarato malo il governo, suscitato il desio del nuovo, e l’ansia del ribellare, la setta domanda prima giustizia, poi riforme, franchigie, costituzioni, costituenti, armi, castelli, e tutto; ma fa fare a quei sori gridatori; e se plaudisce a parziali mutazioni, il fa salendo un altro piuolo di quella scala, che mette al pieno mutamento della società. Questo vuole. Essa oggi è forte, vincitrice, ha in Italia il dominio, ma non riposa; si abbevera di vendette. ma non si sazia; va dritto sempre innanzi.
Informate e mosse le ultime rivolture dalle segrete società, non potrei di quelle far limpida storia, se di queste non notassi i nomi, gli autori, i dogmi, le leggi, l’opere, gl’incrementi ed i trionfi. Però brevemente dirò di ciascuna, e ’l loro confederarsi, e succedersi, e il divampar di tutte insieme,lo sforzato rintenebrarsi, e l’improvviso risfavillare. Gli uomini operano per le idee che hanno, un’idea moltiplicata si chiama opinione, e si fa potentissima; ond’è degli onesti ed avveduti l’addrizzarla sul giusto. Che se l’opinione sinistra prevalga, e cresca, e corra come sinora, allora le trame e le menzogne settarie indorate di parole brille appellanti alle passioni, comprimeranno la ragione, il dovere, ed il bello; cadrà allora ogni religione, quale che sia, e ogni presente ordine di stato; sacerdozio, scettro, milizia, magistratura, ricchezza, nobiltà, tutto. Sparirà anche la proprietà: non campi chiusi, non termini, non palagi, non capanne; tutto è di tutti niuno, non pur mogli e figli saran nostri, si perderà la nozione di Dio. Queste verità sovente qualche animoso predisse, non creduto abbastanza, malgrado le insidie svelate dagli esecrandi fatti visti con gli occhi, e più volle rinnovati. Or se dopo l’ultime sperienze le nazioni non s’adergono a difesa, i nati o i nipoti nostri piangeranno, e indarno.
4. I Massoni
I Massoni, ovvero liberi muratori, antichissimi sono. Avean riti, formole, misteri, gradi, cifre, emblemi, conciliaboli, leggi, gergo, segnali ed enigmi. Dicean misteriosamente loro scopo essere la ricostruzione del tempio di Gerusalemme e il vendicar non so chi uomo morto or fa duemil’anni; ma con tai motti velavan ricostruzioni e vendette ben altre. Non appieno empia da principio, la setta mostrava morigeratezza; chiamava suo Dio il grande architetto dell’Universo, ammetteva un Dio doppio, e aver certe scuole di Teosofia a suo modo: atea non voleva parere. Allora poco operosa, né molto temuta, progrediva lenta, lavorando a spiegar geroglifici di cui diceva perduta la chiarezza. Stampò il libro delle sue costituzioni la prima volta a Londra nel 1723 un Guglielmo Hunter; il quale notava a quel tempo colà venti adunanze di Massoni, addimandate Logge; di cui ciascuna mandava un deputato alla assemblea generale a eleggere il superiore, detto in gergo il Grande Oriente. Faceva montare suo principio da re Salomone, e pur da Mosè; e aveva posto radici in tutti i regni. Eran Logge di varii riti, con più classi: garzoni, scolari, compagni, mastri, e altri uffiziali variamente denominati; né quei di una ascendevano ad altra classe, se non dopo prove di lealtà all’ordine, e così per gradi si poteva salire a’ supremi misteri. Ogni classe avea segnali distinti per riconoscersi: toccamenti di mano, moti di dita, parole, sillabe, ed altro. Le ammissioni dei candidati, e le promozioni seguian nelle Logge, con forme da ciarlatani e profanazioni di cose sacre. Imprecando sul Crocifisso giuravan tre patti: segreto, ubbidienza, e vincolo d’unione. Il perché di tanto giuro non si svelava, se non a primi; a’ bassi e ai profani dicevano studiar la pietra filosofale, la meccanica, l’architettura, e il modo da redimere (’umanità dalle miserie. Nulladimeno quel mistero non restò arcano alla Chiesa. Papa Clemente XII a 26 aprile 1738 scomunicava la setta, minacciava punizioni corporali; e a 14 gennajo 1739 comminava pena di morte a qualunque facesse parte di quelle Logge perniciose, sospette d’eresia e sedizione. Né cessando il danno propagatore, Benedetto XIV a 18 maggio 1751 ripubblicava le bolle precedenti e riconfermavale. Più in qua anche Pio VII, e Leone XII pregarono i monarchi di comprimere le sette. Questi anzi a’ 12 marzo 1825 forte li ammonì tutelassero non solo la religione ma la incolumità loro e dei popoli, reprimendo i settarii. I re a esempio dei Papi emanaron leggi simiglianti; Vienna nel 1754, Spagna e Napoli nel 1751, Milano nel 1757, e quasi tutte le principali città in varii tempi. Anche il Turco nel 1748 ordinò s’ardessero le case ove fosser logge di Massoni. Ma in fatto poco operarono: e la setta de’ lievi rigori si ridea, procedendo segreta, mascherando l’opere e i pensieri, oltre che avea suo nido e rifugio costante in quella Inghilterra che del foco struggitore d’Europa fa ripostiglio, né parche paventi. E Francia che della inglese nazione sembra rivale, e cui pur cade spesso a copiare, imitavala dubbiosa, or ridente or temente di quella Massoneria che covava in seno, e che presto,da un suo Parigino nutricata d’empietà, doveva fare in lei sue prime prove.
5. I filosofi. Voltaire
Francesco Arouet, nato a Parigi il 20 febbraio 1694, da un notaio del Castelletto, prese di buon ora l’assunto di combatter Dio, e fu il primo a pensar d’usare il lavorio della setta. Empio di animo, di passioni smodato, di bello ingegno, ma poco sapiente, scrisse d’ogni cosa, di niente con dottrina. Soleva dire: co’ libri si fan libri, e veramente i concetti altrui con brioso stile faceva suoi, e divulgava. niuno pertanto die’ fuori più scritti, niuno più lettori ebbe. Volea parer filosofo; natura fecelo poeta; e s’ei la poesia usata avesse, com’ella vuole, nella manifestazione della bellezza, forse Francia vanterebbe lui come Corneille e Racine. Ambiziosissimo, volente celebrità ad ogni costo, mutò nome in Voltaire, che pur troppo fu celebrato. Giovine aveva scritto satire e s’era fuggito in Inghilterra, sede allora della filosofia de’ Collins ed Hobbes; la quale voleva alzare la ragione umana sopra la religione, onde rigettava il mistero inconcepibile, la rivelazione e tutta la Fede cristiana. Voltaire ne fu preso, invidiò a rovescio la fama del Bossuet, invidiò Cristo e gli Apostoli, e aspirò a rinomanza uguale col diroccar l’opera divina. Concepì e die’ principio alla congiura contro il Cristianesimo, e seguitolla tutta la vita, ch’ebbe lunga. Lutero e Calvino avean fatto guerra a taluni dogmi, ei la fe’ a tutti. Stimò pregio non lo edificare, ma il distruggere; quasi avesser gloria uguale il Vandalo che spezza i monumenti, e lo artista che li creò; quasi le tenebre abbian pregio come la luce; quasi il mestier del sedurre al male pareggi la virtù del trarre a bene. Apostolo voleva essere, disfacendo l’opera degli Apostoli; e favellando di ragione e di virtù, iroso combatteva la religione delle virtù eminenti. Gloriando il vizio, che è più facile a persuadere, con oscene scritture stuzzicava brutali passioni, e aveva plausi. I suoi scolari dicevanlo semidio.
6. Federico II, Alembert e Diderot.
Fra questi è primo un potentissimo dell’età. Federico II di Prussia, re protestante in terra protestante, vide lo scopo acattolico del Voltaire, e piacquegli quel cervello. Non sospettò avesse a dar frutti amari a’ troni. Scrittore anch’esso, stampava: errore popolare il Dio incarnato, favola il Cristianesimo, fanatismo la religione, pascolo di menti frivole e paurose però lodava il Voltaire d’esserne il flagello, l’aizzava, il consigliava. In ricambio questi appellava lui Salomone del Nord. Lo esempio di tal re di corona, potente guerriero e vantato dotto, rattenne le mani punitrici degli altri monarchi, affievolì gli anatemi della Chiesa, e die’ impunità a’ Filosofi congiunti a’ Massoni.
Terzo a quei due fu un trovatello, nato d’amori incestuosi di monaca apostata, detto Giovanni Le Rond, dal nome dell’oratorio sulla cui soglia fu trovato la notte seguente al 17 novembre 1717. Cresciuto dalla carità della Chiesa, pagò il benefizio col farsene percussore. il mondo conobbelo d’Alembert, ché anche esso mutò nome come il maestro; lui per odio a Dio pareggiò, superò per malizie ed insidie; ma la setta dicevalo il Sardo! Si scelse cooperatore il Diderot, uomo d’intelletto dubbio, or ateo, or materialista, or deista, ora scettico, empio sempre; il quale filosofando conchiudeva tra lui e il cane esser sola varietà di vestito.
Cosiffatti quattro uomini congiurarono contro tutte le religioni; ma Cristo chiamaron per antonomasia L’Infame. Abbattete l’infame era il motto. Voltaire tenzonatore, sconfitto cento volte, altrettante con viso da vincitore tornava all’assalto; Alembert astuto, fuggente la pugna, feriva nascosto; Federico di natura doppio, re ed empio, or coperto ora aperto, poneva nella congiura uno scettro; e Diderot, esecutore senza rimorso, era coltello ove il volgessero. Secondi a dovizia trovarono. Condorcet, Turgot, Brienne, Lamoignon, La Metrie, La Harpe, Bayle, Raynal, Damilaville, Elvezio ed altri. Federico dava danari, premii, onori, ed asilo; prestava i torchi prussiani, agevolava lo spaccio de’ libri clandestini, comprava, incoraggiava; scrittore egli, irrigava di lodi gli scrittori empi, e in altri sovrani instillava suo veleno. Così creavano, divulgavano, sforzavano l’opinione; niuna cosa era dotta se non empia, niuna bella se non oscena, niuna virtuosa se non passionata. Essi pochi s’atteggiarono a genere umano; calunniarono il passato, manodussero l’avvenire, l’ateismo facean parere civiltà nuova. Congiura fu: mutamento di nomi, favella enigmatica, soccorso vicendevole, mistero, unione, pervicacia, tristizia, tutto ebbe di setta. Cominciò a mezzo il secolo passato.
7. L’enciclopedia.
Sapendo contro Cristo non bastar forza, misero ingegno a guadagnar gli animi e le menti, con rivoluzione d’idee, lenta, insidiosa, che facesse via all’incredulità in tutti gli ordini sociali, e pur negli eserciti e nelle torli; perché, dicea Federico, minar l’edifizio sordamente vai farlo cadere da sé. D’Alembert concepì l’enciclopedia, come mezzo a spargere l’ateismo nel mondo. Annunziolla con magnifico discorso, dove i pensieri del Bacone e d’altri ingegni travestendo, faceva suoi; e mostrando di grandissima utilità all’umana sapienza quell’opera, seppela far parere stupenda. Disserlo dizionario universale di tutte cognizioni, e scienze ed arti umane, da valere come compiuta biblioteca. Portavanla in cielo i congiuratale trombe della fama predicaronla da Battro a Tile. V’avevano a scrivere i più eminenti pensatori: scienziati, artisti, economisti, teologi, prelati ed altri, i cui nomi davano a ragione guarantigia di bene. Ma i compilatori sepper fare: ad ogni articolo religioso metteano accanto il veleno dell’incredulità; talvolta parean difendere la fede, e vi pingean lucenti gli assalti; talvolta fiacca la difesa, gagliarda l’offesa, più spesso l’offesa era nella mala difesa; sempre fra rosee labbra il dente. Con ipocrito cipiglio sparnazzarono quanto in ogni tempo s’era inventato contro il cristianesimo. L’enciclopedia fu immenso magazzino di sofismi, e calunnie, vestite magnificamente come prostitute, per allettare la comune; fu render la dottrina volgare per darla fiacca a tutti, fu adusar gli animi al dubbio e alla negazione, e mandare alle venture generazioni in poca scienza il latte di presuntuosa ignoranza. I Massoni presentendo il cader degli altari trar con essi i troni, s’unirono a’ Filosofi, e con migliaia di braccia abitaron la barca. Miriadi di scrittorelli uscirono a laudare, Voltaire isquillava sue trombe, Federico raccomandava e pagava, la moda che in Francia è tiranna, e sbranca pur fuori, tutte cose furono da alzar quel dizionario a quasi unico studio del tempo. Esso svoltava la idee secolari di pietà, di morale e di credenza; seducea giovani e donne, grandi e bassi, dalle reggie a’ tugurii, dalle città alle cascine; mestava un ribollio, un furor di passioni da prorompere in iscoppio satanico, sin allora inaudito fra’ fasti della malvagità.
8. Montesquieu e Rosseau.
Il Montesquieu nel suo Spirito delle leggi, uscito nel 748, avea dichiarato: ogni uomo essere libero, doversi da sé governare; schiavi i popoli retti da principi, star nel popolo la potestà legislativa; questa usarsi per rappresentanti. Tai principii tratti dalla costituzione inglese, indicati a base di dritto pubblico, aggiunsero il politico al fermento filosofico e sociale; gran pretesto al progredire. Sovr’essi più edificò il Rosseau Ginevrino; e nel 1752 die’ fuori il suo Contratto sociale, con progredimento d’idee; perocché da quei principii traeva: il popolo esser solo legislatore di se, solo sovrano, infallibile nelle sue leggi, superiore ad esse; i re esser magistrati provvisorii e revocabili; meglio non averne; volersi assemblee popolari, sovrane, legislatrici; e conchiudeva la religione di Cristo contrariar lo spirito sociale. E scrisse pure: malfattore quel primo che, chiuso un pezzo di terra, disse è mio!
Adunque tre uomini furono i motori primi delle rivolture moderne, l’un dall’altro diversissimi. Empio il primo, avria voluto monarchia, se questa permessogli il congiurar contro Dio, gli avesse data libertà di bestemmiare ne’ libri; il secondo, nato nobile, voleva rappresentanze aristocratiche; e il terzo, fìgliuol d’artigiano, predicava democrazia e comunella. Ma senza Voltaire gli altri non facevano; ché pochi avrebber osato assalire i re cristiani. Congiunti i seguaci di tutti e tre a’ Massoni, presero insieme a persuadere al mondo Dio esser fola, e tiranni i monarchi. Brevemente sclamavano in cattedra: Gli uomini uguali e liberi figli della natura, donno seguire il lume della ragione: la religione sottomette la ragione ai misteri, fa gli uomini ciechi e schiavi; lo stato fatto di ordini diversi dissagguaglia gli uomini dalla natura agguagliati; si distruggano questi ordini, si gitta l’impero religioso, e l’umanità sarà redenta a libertà e uguaglianza. Cotai pensieri seminati fruttificarono, e, mutate sembianze e parole, li vediamo sfuriar superbissimi ai tempi nostri.
9. Accecamento de’ re.
In pochi lustri la congiura le larga rete, e seguaci innumerevoli, all’esca d’onori accademici, di celebrazioni letterarie, di cariche lucrose, e pur di carezze principesche. Con mansuetudini di sorrisi, e baciamani, ed astuzie eran riusciti a entrare in ogni parte. Nelle reggie, nelle case grandi, negli eserciti, ne’ governi sedean settarii. Precettori, ai, cattedratici, balii, duci, imperavano in magistratura, in amministrazione, nei consigli dei re. I re anzi andavan primi. Tutto era novazione, tutto parve intento a far della terra eliso. I Luigi XV e XVI di Francia, Giuseppe imperatore. Leopoldo di Toscana, e Ferdinando IV di Napoli ciecamente correano innanzi, e si fecero iniziatori di quei mutamenti civili e religiosi, cotanto allora celebrati, che detter poi sui cardini della società, che tanti secoli avea riposato in pace. L’ira cominciò contro i religiosi, e più contro loro robe; ché, temuti pel pio insegnamento pubblico, e per possa di scienza e ricchezza, s’avevan a scacciare e a spogliare. Prima i Gesuiti, siccome soldati di Roma, poi gli altri. Delitto il sapere, la possidenza, la virtù; massimo delitto il vestir clericale.
Nel nostro regno l’opere del Giannone. precedute alle volteriane teorie, a queste avean dato facile passata. Lo avversar le cose di chiesa fu andazzo e vanto, ogni passo contro Roma parve una vittoria. Cotesta guerra iniziò e proseguì il filosofo Tanucci, toscano, surto a un botto ministro e capo della reggenza al minore Ferdinando IV, dopo che in ottobre 1759 il genitore Carlo III, reduce a Spagna, il lasciava re indipendente. Il Tanucci iniziò la guerra al sacerdozio, lanciò lo stato sulla via sdruscevole da metter capo al 1799; e dall’altra trascurò la educazione del giovanetto principe, sì da tenerlo indietro al secolo, che tanto camminava baldanzoso. Ferdinando a 12 gennaio 1767 era dichiarato maggiorenne, ma trovava già conficcate le basi dell’avvenire, e se ed altri incapace a mutarle al dritto. Diceva il Tanucci: Principini, ville, e casini, cioè i principini non ad arme né a governo avere a pensare, ma a darsi bel tempo; e i moderni che dicono i re dover regnare non governare. han mutato le parole, non il senso.
10. Accecamento de’ nobili e de’ popoli.
Non è tanta maraviglia che i monarchi volonterosi d’accontentare i popoli, circondati e consigliati da stolti o traditori, cadessero nelle reti, ma l’è più veder la nobiltà, così numerosa e balda nell’Europa feudale, entrar nell’insigne stoltezza di reputar buone e belle le idee novatrici, che niente meno accennavano che a struggerla, spogliarla e darla al boia. Potenti, ricchi, rispettati, i nobili potevan rintuzzar la congiura, e invece per vezzo o imitazione, o voglia di parer saputi, congiurarono anch’essi. Addottrinati dall’Enciclopedia, educai da dottoricchi forniti dal d’Alembert, sputanti sentenze contro la religione ed i re, non s’accorsero che dopo i privilegi reali cadrebbero i privilegi di casta, posero il pondo de’ loro gradi riveriti a pro del nemico sociale, e con l’esempio concorsero ad abbacchiare i re, e a storcere le popolazioni.
I bassi eran più facili a corrompere, che l’uomo bisognoso e ignaro, se ode non esister Dio né inferno, la roba esser comunale, esso uguale al ricco e al signore, non dover ubbidire, esser anzi sovrano, potere aver capriccio d’ogni vietata cosa, ei si cala presto a persuadersi. Nondimeno la religione e i sacerdoti mantenerli in gran parte. Nel napolitano poco furon guasti, molto in Francia, massime a Parigi, dove la setta avea le braccia nella plebe. La borghesia da per tutto fu la peggio infatuata. I Francesi sempre solleciti dell’onor nazionale, allora ciechi, incaponiti alle assemblee del Rosseau, vollero quello stesso che già i nemici di Francia volevano. Perocché quando Germania, Inghilterra, Spagna, e Olanda, confederate per la guerra di successione al trono di Spagna, tementi della potenza francese, stipularono il trattato dell’Hava a 16 gennajo 1691, pattuirono non posar l’arme se non fossero ristabiliti gli stati Generali in Francia, con l’antica libertà e privilegi che infrenavano i suoi re. Cotale libertà volevano in Francia i nemici di Francia per finir di temerla, ma Luigi XIV trionfò di quei patti, e morendo lasciò forte lo scettro e potente la nazione. I filosofi che sottomettono lo scibile a’ sistemi, celebrarono le assemblee come sociale perfezione, ne invogliavan tutti, l’Inghilterra soffiò in quei spiriti, e die’ a novatori aiuto, appunto per abbattere la prosperità della sua rivale, e vendicarsi dell’America aiutata da’ Borboni. Il nemico appaga le passioni dell’avversario per rovinarlo. E i liberali trionfali bruttaron di patiboli la Francia, e con quella libertà resero impossibile la libertà. Frutti delle lezioni de’ Montesquieu e Rosseau.
11. Cagione l’egoismo di ciascuno.
Ogni ordine di persone, strascinato come da torrente, lavorò alla macchina abbattitrice di tutti, che la cupidigia pigliò gli intelletti, e fe’ vedere utilità dov’era danno. Utile solo è il giusto; seguendo giustizia s’ha utilità; ma sovente visiera di giustizia maschera sconvenevoli brame. S’acciecarono governanti e governati. I sovrani si credettero quel rumorio riescir contro i preti e i baroni; pensavano che affievolito il braccio baronale e clericale, guadagnerebbero forza, e indipendenza da Roma; però lasciavan fare, e proseguivan con leggi i cupi disegni delle sette. Cosi re e regine di corona stipendiare filosofi d’empietà, tenerli a corte, onorarli, averli maestri e consiglieri; re e regine entrare in logge massoniche, parteciparne gl’infimi gradi, sottomettersi a’ ciarlatani riti. Dall’altra i nobili per ignavia e lascivia obbliata l’avita virtù, vaghi sol di tresche amorose, plaudivano a quel filosofar facile, che dicea la religione ostacolo a’ piaceri; né sospettavan che le sette accennanti aironi s’avessero a rovesciar su di loro, speravano anzi che franti gli scettri raccoglierebbe!n essi. In contrario le popolazioni, più salde nella fede, ravvolte in tante reti e vischi, poco quella filosofia intendevano, ma sentivano volersi men severi ordini di stato, e franchezza di vita; vi s’acconciavano, e spinte spingevano, intronate il capo di libertà. Né i re, né i nobili, né i popoli vedean più là dell’offa lor menata negli occhi; l’un credeva minacciato l’altro, e si stava pago; non sospettanti aver tutt’insieme a esser percossi. Larghezza di coscienza, larghezza di leggi, larghezza di costumi non più rigidezza di virtù tutte blandizie e carezze e speranze facean larga, lubrica, infiorata la via del precipizio. L’egoismo fu danno di tutti. Soltanto la Chiesa, che sta sul vero e sul giusto universale ed immutabile, vide e manifestò il periglio, ma sola fu. Sin dal principio il clero svelò in mille modi la congiura, la combatté con prediche e libri insigni, confutò le dottrine false, prolungò la lotta, ritardò il progresso dell’empietà, e avrebbe meritato di vincere, ma il Signore volea permettere il breve trionfo del male, perche la deformità ne sfavillasse. Il clero profetò la rivoluzione, profetò la distruzione de’ templi, e l’abolizione di Dio, profetò il regicidio, e la persecuzione; e quando tali atroci empietà si perpetrarono al cospetto del sole, seppe imperterrito sotto i pugnali e sulle scale de’ patiboli confessare la verità della Fede, rinnovare i martirii de’ primi secoli della chiesa.
12. Weishaupt
La gran rivoluzione fu affrettata da un Bavarese, il cui nome dovrebbe andar primo dopo Satanasso. Adamo Weishaupt fondò la setta degliIlluminati, madre e modello organatore di tutte quelle de’ tempi nostri. Funesto conoscitore del male, fabro insigne d’artifizii, ipocrita stupendo, indoratore d’ogni vizio, prepara sotterra una rivoluzione d’idee immensa, che sa dover divampare in lontano avvenire; eppur pertinace ne tesse le brune fila, nemico della luce copre la verità, ateo senza rimorso bestemmia sorridente. Da natura ebbe inattitudine al bene, intelligenza del fosco, mente organata ad ampie congiure. Nacque nel 1748; diconlo discepolo de’ Gesuiti, poi d’un Irlandese detto Kolmer, e condiscepolo di Pietro Balsamo siciliano, famoso ciarlatano dettosi conte Cagliostro che insegnava magia e massoneria egiziana. Sappiamo da lettere di lui messe a stampa, che fu incestuoso e infanticida. Serrava in petto vulcani di passioni coperte con neve d’ipocrisia, né altri mai meglio improntò il linguaggio della virtù. Addottrinato nell’ateismo de’ filosofi e nel liberalismo de’ Massoni, ambo con incestuoso connubio congiunse, ideò un modo da guadagnare il genere umano e imporgli il suo volere, cioè minare insieme religione, governo e proprietà. Sendogli indifferente ogni delitto, vi si mette con perseveranza e dissimulazione da superare o evitare qualunque ostacolo; si fa centro d’un circolo d’adepti sparsi in ogni città, per infiltrarli in tutti li ordini. Si fa chiamare Spartaco: questi a capo di gladiatori s’era ribellato a’ padroni del mondo, ei capo si fa di gladiatori morali contro la società. Al 1772 professore di dritto canonico nell’università d’Inglostadt, medita su’ modi d’abolir tutti i dritti, e con magistrale autorità guadagna gli allievi. Vede gli ordini religiosi dipender da un capo, tenere in tutta la terra una schiera militante ad uno scopo per la gloria di Dio; ed ei l’imita creando altro ordine, pure ubbidiente ad un capo, ma con opposto scopo; da fare in segreto quello che i monaci fanno aperto.
13. L’illuminismo.
La sua congrega chiamò Perfettibili, poi Illuminati; voci non nuove fra’ misteri e le sette. Agli scolari die’ nomi simbolici; pochi fe’ Areopagiti, grado eminente, egli capo. L’inaugurò a 1. maggio 1776. Ma ei temeva il patibolo, onde studiò con lenta avvedutezza tal organamento di congiura, che lavorando contro i culti e le potestà, paresse favorevole ad ambo; e tenesse in sé tai precauzioni da valere in caso di svelamento a a salvar lui, e ad assicurare il buon successo. Codice fu di astuzie, artifizii, agguati e seduzioni a’ giovani, cosicché irretiti dalla prima età salisser per gradi da candidati a iniziati, e su su sino a capi. Ogni grado scuola di prove, ogni promozione un maggiore svelamento, sino a quel dei misteri ultimi. Comincia con fosche parole promettenti morale soda, educazione, culto e politica nuova, e via via disnebbiando giunge con le prove e gli anni a morale oscena, a religione senza Dio, a politica senza legge. L’essenza del suo insegnare era: «Libertà e uguaglianza esser diritti cui l’uomo in sua perfezione primitiva ebbe da natura, la prima lesione al dritto d’uguaglianza fu la proprietà, la prima lesione al dritto di libertà fu il social governo, la libertà e i governi appoggiarsi a leggi religiose e civili, dunque a ristabilir l’uomo ne’ suoi pristini dritti vuoisi abbattere religione, leggi, e società.» Ma a ciò non s’arrivava a un botto. Ei primo tende ai giovanetti sue reti con arte serpentina, poi molto scrutatili li sceglie, li fa venire a sé senza invitarli, con mano invisibile né dispone i pensieri e le voglie, e li guida a un fine, sicché ciascuno è braccio d’un tutto che ignora, e lavora ad un edilizio di cui non sa le parti e lo scopo. Scrisse: «L’arte di far la rivoluzione infallibile è lo illuminare i popoli; illuminarli è pigliar cauti l’opinione, e farla vogliosa di mutamenti premeditati. L’opinione si fa con gli sforzi delle società segrete; i cui adepti, avocando insieme e sparpagliati, l’uno l’altro afforzando, moveran lamenti popolari a una via, in guisa che tutta la terra venga abitata da una gente, la cui maggioranza tenda a voler uno scopo. Allora schiacciate quelli che non poteste persuadere, e s’è vinto.»
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