Alta Terra di Lavoro

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Storia delle due Sicilie dal 1847 al 1861 di Giacinto de Sivo (IV)

Posted by on Ott 14, 2025

Storia delle due Sicilie dal 1847 al 1861 di Giacinto de Sivo (IV)

LIBRO SECONDO

SOMMARIO

§. 1. Borboni e Bonaparti.— 2. Regno di Giuseppe. — 3. E di Gioacchino. —4. Restaurazioni. —5. Il quinquennio. — 6. Il 1820. —7. Reazione. —8. Regno di Francesco I. — 9. Rivoluzione di luglio in Francia. —10. Politica di Ferdinando II.— 11. Rifà l’esercito. —12. E l’armata. —13. Buon governo. —14. Primi conati di rivolture. — 15. Il colera del 1836 e 1831. —16. Pretesto per ribellare. —11. Altre congiure. —18. La setta volgesi a Carlo Alberto. —19. Si sforza a movere Italia e Francia.20. Traversie nella reggia di Napoli. — 21. Sponsali del principe Carlo. — 22. Briga con gl’Inglesi per gli zolfi.
1. Borboni e Bonaparti.

Sovrani i più odiati dalla setta sono i Borboni, ché il nome loro è congiunto a quanto fe’ di più eccelso l’europea famiglia, dalla prima crociala sino all’ultima impresa d’Algieri. Eglino furono spada del mondo cristiano, la legge, la ragione, sono egida della proprietà, diga alle ambizioni, propugnatori naturali della Fede, quindi a nemici tienli chi agogna vietate altezze, e rovesciamenti di culti e troni. I Borboni significano il dritto eterno, le sette inventano il dritto nuovo. Però in sul primo scocco del debaccare dicollarono il buon Luigi XVI, appunto perché buono.

Ma lo sfuriar violentissimo, poi che più anni non sazio, per lo abborrimento universale cadde, ebbe a cedere il seggio al Bonaparte, che fu prima metamorfosi della rivoluzione. Questi per ragion di stato rialzò gli altari voluti dalla umana coscienza; ma sendo egli stesso espressione di filosofi ed Ugonotti, presto ebbe a seguitare il concetto settario interrotto, onde prese Roma, esautorò il Papa, né abolì il dominio temporale, die’ la scalata al Quirinale, e più anni tenne prigione Pio VII e i cardinali sparpagliati in Castelli francesi. Ei si rideva della scomunica; perché diceva essa non toglier l’arme dì mano a’ suoi soldati. Eppure alla sua forza sterminata reagirono le forze sociali e la stanchezza dello ingiusto; il Papa a Fontainebleau fu più che in Vaticano tremendo alla colpa, la religione guadagnò voti e simpatie; e coi ghiacci del 1812 cadder l’arme di mano a’ soldati Napoleonici, nelle bianche lande di Russia.

Quella fu fermata della rivoluzione; il colosso restò solo; e come la nazione francese udì gli alleati a Parigi gridò da tutte parti viva i Russi, viva i Borboni, abbatté le aquile, e rialzò i gigli. Egli abdicò, ottenne la sovranità della piccola Elba; ma presto a 26 febbraio 1815 voto a ripigliar l’imperio: e die’ alla storia delle ambizioni quei cento giorni che dicono gloriosissimi, ma che riallagarono di umano sangue l’Europa, e lui menarono a S. Elena. Spariti i Bonaparti, seguirono trentatré anni di pace.

2. Regno di Giuseppe.

Ma prima di narrare le ripigliate rivoluzioni, debbo dire qualcosa dei dieci anni di francese dominazione nel Napolitano. Rientrarono i Francesi a’ primi di febbraio 1806 nel regno, e al 14 in Napoli; dove l’ingresso trionfale lor preparato da’ perdonati liberali plaudenti allo straniero andò guasto dalla pioggia. Così dopo 54 anni vedemmo la pioggia guastar l’ingresso d’altro straniero plaudito dalla setta stessa. Appena giunti fecero carcerazioni innumerevoli. Il dì seguente entrò Giuseppe fratello di Napoleone; e proclamò i Borboni aver cessato di regnare. Di poi fatto esso re, a 30 marzo entrò da re nella città; e il popolo restò muto. Prima opera reale fu pigliar d’assalto Maratea, e darle il sacco, e bruttarla di sangue e supplizii. Al general Rodio che solo aveva osato fare qualche resistenza ai conquistatori fecero in un dì due sentenze; con la prima dichiarato prigioniero di guerra e assoluto, con la seconda qual brigante condannato: la dimane lo fucilarono alle spalle. Ai traditori si dettero premii, gradi, e onoranze. Fu inventato il ministero di polizia; ministro il Giacobino Saliceti, fatto di liberale sgherro, quindi spie, carceri, morti, esilii senza giudizio, persecuzioni di borboniani incessanti ed efferate.

I popoli alzaron bandiera di gigli. Soccorseli l’inglese generale Steward con seimila Anglo-Napolitani; il quale disceso in Calabria, ruppe su’ campi di Maida il francese Regnier. E benché senza valersi della vittoria poco stante si ritraesse, pur die’ animo a’ Calabresi, che in quella giornata avean valorosamente combattuto. Allora gli stranieri conquistatori posero nome di briganti a’ difensori del proprio paese e del patrio re. Cominciò guerra atrocissima. Punizioni terribili; giudizii sul tamburo, prigionie ingiuste, uccisioni nefande; non bastando mannaie, archibugi e capestri, usavan lapidazioni e pali. Il Colletta (carbonaro) nota aver visto uno a Monteleone appeso al muro e lapidato, e un altro, per ordine di colonnello venuto di Turchia, conficcato al palo. Mancando le prigioni al numero de’ carcerati, fingevan tramutarli, e per ira trucidavanli, o mandavanli a Campiano, a Fenestrelle e ad altre parti di Francia.

Qualunque propugnatore del suo paese era reo, e talvolta pur punito chi di tal delitto era innocente. Crearono la guerra civile; fecero bande paesane e mandaronle a forza contro i paesani Briganti. Dopo le Calabrie, la Basilicata, i Principati e Molise formicolavano di Borboniani; fra Diavolo movea Terra di Lavoro, un Piccioli gli Abruzzi. Le isole in mano agl’Inglesi.

Gaeta con memorando assedio durò sino a 18 luglio, difesa da’ Napolitani, duce il principe Philipstadt. Quindi il vincitore Massena volse onnipossente con l’esercito in Calabria; ma accolto con archibugiate, die’ il sacco a Lamia, e Farse, con entro vecchi, fanciulli e infermi. Ad Amantea il colonnello borbonico Mirabella con tre soli cannoni vecchi ributtò due assalti diurno e notturno del generale Verdier; il quale ritrattosene, vi tornò a dicembre con più forze, pur anco respinto. Dopo quaranta giorni la fame, resa la difesa impossibile, fe’ capitolare i difensori, con patto di ritrarsi in Sicilia. Cotrone difendendosi forte, finito il pane non aperse le porte; ma il presidio sfondata a forza la linea francese si fece il varco a mare, a’ vascelli inglesi. Più era il rigore, più i briganti. Proclamarono amnistie; ma dove quei disgraziati si presentavano, ne facevan macello, e il Colletta afferma aver visti molti cadaveri di presentati nella valle di Morano.

In questo furor di sforzata guerra civile i dominatori tutte cose cordini mutavano. Leggi amministrative e municipali trapiantate di Francia, liberali per forma, dispotiche in fatto; guardie civiche e provinciali; abolirono, e dissi il come, la feudalità e i fedecommessi, rifecero il catasto. Subito i balzelli che prima eran molti ma lievi, fecer pochi ma gravi: spogliarono i possessori degli antichi arrendamenti, e misero la tassa diretta fondiaria, calcolata sul quinto della rendita de’ fondi; poi tasse indirette sulle merci e sul consumo; e quella sul sale gravosissima vollero obbligatoria, cioè testatico di cinque rotola a persona all’anno. Inventarono il Gran Libro del debito pubblico. Le Finanze, le percezioni, gli appalti, le forniture, date tutte a Francesi pubblicani. Disciolsero ordini religiosi; abolirono conventi ricchi, lasciarono i poveri, venderono le robe, venderon demanii e fecer moneta, interessando molti alla causa loro. Per questa ragione stessa moltiplicarono impieghi e soldi, che pesando sulla nazione complicarono la macchina governativa. Stabilirono pubbliche case di giuoco, con tassa che die’ al fisco 240 mila ducati all’anno, con uffiziali a guidarle, dove si rovinaron giovanetti e dame, e si corruppe il costume. Anche case di prostituzioni miser su, con tasse fisse, come di merci. In dicembre uscì il decreto Napoleonico del blocco continentale, che per osteggiare l’Inghilterra abolì il commercio; legge non più vista che parve delirio, ed era tirannide furibonda. Coteste ed altre moltissime mutazioni, lodale da’ novatori, riuscivan poco gradite a’ popoli avvezzi al mite. Un bene furono innovi codici delle leggi.

Nel 1807 l’odio, cresciuto molto, scoppiò in congiure; suscitavanle le vendette de’ conquistatori; talvolta eglino stessi le inventavano o ingrandivano, per paura, per rabbia, per vanto. Declamatori virulenti contro le severità de’ nostri re, iniquissimi furon essi: caddero in dieci anni quarantamila per supplizii d’ogni sorta; decapitarono il duca Filomarino, impiccarono il marchese colonnello Palmieri; carcerarono principi, e gran numero dame, frati, e preti. Si vider monache giudicate da tribunali. Prima i beni de’ fuoriesciti sequestrarono, poi confiscarono. Quindi rabbiose vendette. A 30 gennaio 1808 saltò per mina in aria il palazzo Serracapriola a Chiaia, per uccidere l’odiato ministro Saliceti; ci fra le macerie andò salvo; onde nuovi patiboli e nuovi strazii. Dipoi Napoleone che combattendo gli Spagnuoli, per illuderli si tacca liberale, die’ uno statuto detto di Baiona, conceditore di cerio libertà costituzionali; il quale fu anche a Napoli promesso, non posto in alto mai. In Ispagna combattevan pe’ Francesi alquante schiere napolitano, laudati molto. Servi, noi, davamo il sangue per l’altrui servitù.

3 Regno di Gioacchino.

A 2 luglio 1808 Giuseppe fe’ l’editto d’esser passato a re di Spagna; e al 15 Napoleone mandò successore il cognato Gioacchino Murat. Questi entrò in Napoli il 6 settembre, né fu spietato come Giuseppe; ma assicuralo per vittorie francesi, potè mostrarsi generoso. Nondimeno la controrivoluzione brigantesca ingagliardiva in Calabria, e anche in Abruzzo. Per combatterla davano un braccio i Francesi occupatori dello stato papale, e mandavan bande paesane raccolte nelle Romagne; perlocché Pio VII con dichiarazione del agosto di quell’anno il proibì; la quale fu pretesto al generali! Miollis, comandante in Roma, a infierire contro il Papa.

Gioacchino presto fe’ un esercito alla francese, ma per avervi partigiani curò poco la disciplina. Compì lo scioglimento de’ conventi, fe’ una schiera di cacciatrici dame; i beni de’ monaci finì di vendere, o regalò in premio di civetterie a cotali dame; mandò reggimenti di soldati in Roma, che giunservi in fretta quella nera notte del 6 luglio 1809 per coadiuvare alla grande impresa del pigliar d’assalto il Quirinale, e carcerare Pio settimo e i cardinali. Poscia indragato contro i briganti, fe’ tre leggi atroci: confiscazioni a’ combattenti per Ferdinando; inviti a disertare, promesse di premii, minacce di morte se cadesser prigioni; e liste di banditi. Nessuno disertò; e infierì la polizia. Nella state i Briganti respinsero i Francesi a Campotenese, su’ monti di Laurenzano, e a S. Gregorio. La reggia in Napoli scintillava di ori e gemme; le provincie eran di sangue lorde.

Sul finir del 1810 andò in Calabria il generale Manhes; de’ cui misfatti inorridisce l’umanità. Questi nato a 4 novembre 1777 ad Aurillac del Bandai, ambiziosissimo, che volea fama, buona o rea a ogni costo, stato Giacobino, aiutante di campo di Gioacchino, ora scelto dal Saliceti ebbe potestà dittatoria. Visto caduto indardo in più anni il fiore de’ Francesi in quella guerra parteggiata, inventò nuovissimo supplizio di nazione. Spinse tutta la Calabria contro i Calabresi. Mise soldati in città per isforzar cittadini a combatter briganti. Liste di banditi, ordini a’ popoli d’ucciderli, armar tutti e a forza, sospinger padri, figli e fratelli, contro fratelli, figli, e padri, mogli contro mariti, amici contro amici; togliere le greggi a’ campi, la coltura alle terre, divieto di portar cibi fuor di città, inesorabile morte a qualunque si negasse; gendarmi e soldati, non a perseguitar briganti, ma a obbligar la pacifica gente a quelle atrocità; morti, busse, sangue, lagrime da per tutto; contadini, vecchi, femminelle, fanciulli fucilati per un briciol di pane in tasca; sciolti i legami sociali e naturali, non parentela, non amistà, non sesso, non rimembranze d’affetto tener più; spie, denunzie, vendette, tradimenti, menzogne, accuse, tutto lecito a salvar sé, pera il mondo. Poi supplizii subitanei, torture, membra mozze; padri co’ figli trucidati; padri sforzati a veder prima di morire la morte de’ figli; mogli premiate a contanti d’aver uccisi i mariti; giustiziate nutrici di bamboli di briganti, città disertate tutte, popolazioni intere condannate a morir ne’ boschi, a esser rigettate fuori, pena la morte, da ogni abituro; preti in massa chiusi in fortezza; il Manhes pronunziare interdetti, abolire in pena i sacramenti, e sbianco il battesimo. Tante ruine di popolazioni per sorreggere il trono a stranieri! E così predicarono estirpato il brigantaggio! Cotesto Manhes si bravo contro le pacifiche popolazioni, fuggì dal Liri, quando ebbe a combattere i Tedeschi invasori.

Soldati Napoletani fur mandati alla guerra di Russia, e vi perirono a migliaia. Dopo il rovescio di fortuna, Gioacchino abbandonò il cognato che l’aveva fatto re. Acremente né fu ripreso, e più acremente rispose. Allora i Carbonari per far pro di quell’ira gli proposero la corona d’Italia, col consueto pretesto del farla una; presentavangli la penisola a quel tempo vuota di Francesi e di Tedeschi, Bonaparte percosso non far timore, dargli addosso meritar premio dai sovrani alleati, potersi aver l’Inghilterra amica e soccorrevole; e di leggieri persuasero quel leggiero cervello. Corser pratiche con gl’Inglesi; il Bentink aderiva, e prometteva venticinquemila soldati brittanni per aiutarlo all’impresa. Ma per nuove carezze Napoleoniche richiamato lui al campo a Dresda, il disegno cadde.

Ricominciarono i rigori contro i carbonari. Uno di questi detto Capobianco, nel 1815, invitato a mensa da un generale Jannelli, uscendo di tavola è da esso carcerato, e la dimane giudicato in poche ore e decollalo a Cosenza. Gioacchino volteggia di nuovo; si collega con Austria a 11 gennaio 1811: trenta mila Napolitani congiunti ai Tedeschi scaccerebbero i Francesi d’Italia; egli avrebbe incremento di paese sul Romano, e pace con Ferdinando di Sicilia. A’ 26 firma armestizio con l’Inghilterra, cessa il blocco continentale e s’apre il commercio. Incomincia la campagna, ma Gioacchino Ira l’ingratitudine e il desio di regno fa guerra irresoluta, piglia Ancona, gl’Inglesi sospettati di lui, egli degl’Inlgesi. In quelle sue dubbiezze Pio VII torna trionfatore sulle braccia de’ popoli da Fontainebleau a Roma, e i carbonari si sollevano in Abruzzo contro lui, corso a far l’Italia per loro instigazione. Vistosi inviso ad amici e nemici, tenta riconciliarsi col cognato, e né prega Eugenio viceré, ma questi il rifiuta, e anzi accusalo agli alleati. La ruina di Napoleone rese inutile quella guerra.

Gioacchino tornato in Napoli, smaccato, re nuovo fra re antichi che s’andavan ripristinando, studiò farsi benevolo ai soggetti: moderò i tributi, per gratificare Albione allargò il commercio, abolì la dogana del cabotaggio, fe’ libera l’uscita de’ grani, tolse dazii, ordinò che soli Napolitani, non più Francesi avessero uffizii. Questi che con lui avean tradito Francia restar senza patria e senza soldo: però reclamazioni e accuse, cui rimediarono battezzandoli cittadini, quindi burla, e sdegno a’ nostrani. Volle crescer l’esercito, e designò fare un reggimento di Napolitani reduci da Sicilia, ma nol trovò a fare.

Sendo Napoleone all’Elba confinato, tosto con messi e con lacci di parentela si rappiastrarono e riconfederarono. Gioacchino sciente de’ disegni nuovi di lui, quand’egli a 26 febbraio 1815 con mille soldati voto in Francia, scrisse a ingannar gli alleati esser loro fedele, ma come udì il cognato trionfare, tosto a’ 15 marzo lor dichiarò la guerra. Il 22 uscì con 30 mila soldati per via di Roma e per le Marche, fe’ proclami per sollevare Italia tutta, ebbe sonetti e canti. Fugò il Papa, superò uno scontro sul Panaro, prese Ferrara, e volse in Toscana; poi indietro tradito da’ suoi duci è vinto a Tolentino da’ Tedeschi, e perseguitato rientra nel regno.

Pensò in quelli estremi guadagnar la nazione, dando costituzione con data finta del 30 marzo, pubblicata il 18 maggio: due camere, stampa libera, magistrati inamovibili. Ma i Carbonari che poco innanzi bramavanla per combattere il poter regio, erano impossenti allora contro i vincitori; e la nazione che voleva quiete, stette prima a guardare, poi gridò Borboni. Ei fuggì a S. Leucio, indi a Napoli, e, per Pozzuoli ad Ischia, cheto s’imbarcò per Francia.

I tempi di questi Giuseppe e Gioacchino, tenuti da Napoleone re dì nome, prefetti di fatto, stretti per non più visto assolutismo, lordi di supplizii, lagrimosi per esilii, confische e blocchi continentali, tristi per brigantaggio, per infelici guerre, per vite spente in conflitti lontani per gare altrui, vergognosi per due invasioni di stranieri, tristissimi per costumi corrotti, sfogate vendette e percossa religione, son pur laudati da certi che si vantan liberali e patrioti. I Carbonari che cospiraron contro quel governo straniero, e il lasciaron con vergogna cadere, finser di lodarlo e sospirarlo, quando avevano a cospirare contro il governo legittimo. Dappoi, per preparar cospirazioni nuove, avendo a infamare i Borboni, presero a esaltare i Napoleonidi. Mail popolo che sente i suoi interessi giudicò giusto, e la storia, che narra fatti, lamenta i travagli di que’ dieci tribolali anni.

Gioacchino prima di partire avea mandato da Napoli i generali Carrascosa e Colletta a trattar col nemico; e costoro a 20 maggio convennero co’ generali Bianchi e Neipperg cedere Capua e Napoli co’ castelli, garantirsi il debito pubblico, confermarsi i militari ne’ gradi e soldi. Questa convenzione, fatta a tre miglia da Capua in una casina Lanza, dissesi di Casalanza. Il Principe Leopoldo Borbone entrò il 22 in Napoli, plauditissimo; in mentre Carolina Murat stata regina, rifugiata su vascello inglese, nel porto udiva le feste della sua cacciata, e per via le salve di cannone a re Ferdinando che entrava.

4. Restaurazioni.

Questi scendeva a Baia il 4 giugno, festeggiato da tutto il reame; accoglieva benigno ogni maniera di persone, e insieme generali e uffiziali Muratimi e Siciliani, che si spregiavano a vicenda. Mise agli 11 di quel mese la prima pietra del tempio a S. Francesco di Paola avanti la reggia, per voto nell’esilio. Il Papa e gli altri Principi spodestati ritornarono senza guerra a loro sedi; e l’Italia e l’Europa ricomposte riposarono. A Vienna, col trattato del 9 giugno di quell’anno 1815, i sovrani fermaron le basi dell’avvenire. Ferdinando nostro vi aderì; al 12 fermò alleanza con Austria, e a 26 settembre si unì alla santa alleanza. Fu statuito il regno uno, delle Due Sicilie; Ferdinando però di quarto s’appellasse primo. Per patto Austria difenderebbe il regno co’ suoi eserciti; e noi per le guerre austriache daremmo venticinque mila uomini, poi ridotti a dodicimila per nuova convenzione del 4 febbraio 1819; patto per parte nostra non più eseguito. I Tedeschi lasciarono il regno nel 1817; e il re l’anno dopo fe’ il concordato con Roma, che mise fine legale alle garose ecclesiastiche quistioni, cominciate dal Tanucci mezzo secolo innanzi.

Ma quel trattato di Vienna del 1815 non restituì tutte cose all’antico; riconobbe valide e sublimò a dritto alquante opere della rivoluzione. A parlar d’Italia sola, restarono spenti due legittimi antichi stati benemeriti della Cristianità; Genova cadde immolata all’ambizione Sabauda, data per afforzare il Piemonte a guardar le alpi dal Francese; e Venezia, già venduta a Campoformio nel 1797 dal general Bonaparte, restò all’Austria in cambio delle cedute Fiandre. Malta, pur dall’arme di Francia tolta a’ Cavalieri, rimase in man d’Inglesi. Italia pagò le spese delle guerre rivoluzionarie. E mentre Piemonte ingrossava, il nostro reame scemava; ché né si tolsero i presidii di Toscana, possessi secolari. Così il trattato del 15, non tutto riparatore, modificò l’Italia con riconoscimenti di schiacciati dritti, lasciò un lembo dell’opera rivoluzionaria, e fu pretesto e seme di futuri guai. Un altro seme ne restò in Francia con la costituzione. E fu curioso che ai Francesi vinti si die’ questa libertà che i vincitori non volevan per sé. L’Inghilterra volle lasciar vivo nella sua rivale il fuoco per nuovi incendii: la stampa libera, e la rappresentanza.

Ma Gioacchino Murat, quanto prode di braccio fievole di mente, pensò lieve gli fosse il ripigliare il trono; e in Corsica reclutò gente per sorprendere il reame; se non che spiato da un Carabelli Corso già da esso beneficato, il governo napolitano era sull’avviso. Egli raccolti 250 uomini mosse da Aiaccio, ebbe tempesta, e con solo diciotto persone l’8 settembre 1816 sbarcò a Pizzo di Calabria. Era giorno di festa, molta gente in piazza; al Viva Murat, niuno risponde, ond’ei volge a Monteleone; ma inseguito con archibugiate da’ popolani, tenta rifuggire a mare. Chiama la sua barca; e il pilota, Maltese, fatto da esso capitano e barone, per rubargli i danari lo abbandona. È raggiunto, schiaffeggiato, e menato in castello. Ito colà il generale Vito Nunziante, è tenuto con onore, ma sentenziato da sette giudici, tra’ quali tre e il procurator della legge stati suoi uffiziali, carchi d’onoranze e gradi, ebbe applicata una sua stessa legge, e sofferse la fucilazione a 15 ottobre. Nato in Cahors, surto dalla polvere, trionfato in molti campi di battaglia, regnato sette anni, caduto in inglorioso cimento per man di plebe, tornò nella polvere; esempio solenne di fortuna.

Gaeta, difesa bene dal Begani, aperse per capitolazione le porte.

5. Il quinquennio.

Il reame in peggio e in meglio era tutto mutato. Più forti ordini, più vigorose leggi, più tasse, più impieghi, meno costumi, meno religione, meno obbedienza, più licenza e più servitù. Dell’esercito disertati i soldati, rimasti uffiziali e generali molti, baldanzosi, inquieti, indisciplinati. Nel popolo più fiacco il prestigio regio, disilluso per fallacia di libertà, guasto e irritalo per troppe blandizie o troppe percosse, odiatore di re stranieri, desideroso di quiete e di pagar poco. Gl’impiegati amanti del soldo, calcolo la fedeltà, tinti di setta per ansia di far fortuna. Il clero bramoso di reintegrazioni, dolente di restar dispogliato. I baroni stati il più liberali, schiacciati dalla libertà, non avendo a chi reclamare, impoveriti e incapaci di risorgere. E la plebe, dico la mischianza del peggio di tutti gl’ordini sociali, speranzosa di pescar nel torbido, intenta a rimestare e a fomentar odii e passioni. Non facile assunto era il ripigliar le redini dello Stato, serbando il nuovo, e contentando il vecchio. E avvenne che i vecchi,visto trionfare il principio legittimo in astratto, rimaser trionfando vinti.

Imperocché Ferdinando a 20 e 21 maggio di quell’anno 1815 proclamò fra l’altre: assicurare libertà individuale e civile, sacra la proprietà, irrevocabili le vendite seguite di beni dello Stato, guarentito il debito pubblico, serbale le pensioni, i gradi, gli onori, l’antica e nuova nobiltà, ogni Napolitano accessibile ad impieghi militari e civili; amnistia piena, nessuna molestia per anteriori opinioni, né scritti, né detti, né fatti precedenti investigarsi, né avanti alle leggi, né avanti al paterno cuore del re, tutti sudditi uguali, velo impenetrabile; eterna oblivione sul passato. E tenne parola.

Pertanto poco fu mutato degli ordini e degli uomini messi dagli occupatori; e fu necessità fatale l’aversi a governare con elementi e persone contrarie all’essere del governo. Mutato il re, restava il decennio. Solo si poteva modificare o migliorare; e si fece. Il codice Napoleone, mutato nome, si tenne; escluso il divorzio, fatte indissolubili le nozze, esaltata la patria potestà, moderate le leggi di successione, aggiunta la volontaria carcerazione per ragion civile, abolite le confische, diversificate le pene, e poco altro. La legge del 12 dicembre 1816 die’ altro avviamento all’amministrazione; questi e le finanze migliorarono per minor corruzione e maggior credito. Si riapersero i conventi, si risollevò la religione e il costume. La coscrizione, scambiato il nome in leva, restò; restò la guardia provinciale o civica; restò la tassa fondiaria e il catasto, restarono le leggi eversive della feudalità. A’ fuorusciti si restituirono i confiscati beni, dove si trovarono; a’ dazii indiretti si pose modo; abolito quello sulle patenti che molto sulle industrie e su’ mestieri gravava. Si fondò la cassa di sconto, gran soccorso a’ commercianti.

Il più difficile, riordinar l’esercito, non si potè ben conseguire. Pel trattato di Casalanza gli uffiziali del Murat riconosciuti nei gradi, andar fusi con gli altri venuti di Sicilia; questi per serbata fede, quelli per guerre fatte co’ Napoleoni baldanzosi; gli uni a dispregio appellavan gli altri Fedelini; gli altri dicevanli in ricambio Murattisti si guardavan biechi. Il re per affetto i suoi, per prudenza i contrarii carezzava. Si tentò la fusione, l’obblio del passato, si volea farla finita, e stringere in un amplesso e chi lo straniero, e chi il re napolitano avea servito. Ma l’ire sendo fresche, le male contentezze crebbero nella mescolanza. Nessuna mercede o ricompensa toccò a chi tante persecuzioni e danni di sangue e di roba avea patito per la causa del dritto, uffiziali vecchi e fedeli restarono inferiori di grado a chi già fu subordinato, soggetti a esser comandati da chi s’era elevato combattendo contro il re. Duro sembrava, e duro era; perché in Sicilia non era stata opportunità di promozioni, e in Napoli i re nuovi per gratificarsi i loro avean promosso alla grande. Cosi riuscita la colpa di costoro premiata, fu malo esempio, e parve più larga via a salir alto l’oppugnare che difendere il trono. Molti già fidi si calarono a utilitarii pensieri; de’ Murattisti i più usciti di setta non mutavan natura, però chi si vedeva mal della sua fedeltà rimertato, e chi si credea scaduto per la mutazion del vessillo, pari per opposte scontentezze, stavan di mala voglia. A tutti pesava il tedesco Nugent. Il Sovrano die’ a’ reduci di Sicilia una medaglia a ricordo dell’onorato esilio; la quale, benché largita a usanza di milizie di tutte nazioni, divenne pregio degli uni, irrisione e dispetto degli altri. Dissero il governo aver voluto disunire per meglio conoscere i suoi. A rimediare si creò l’ordine militare di S. Giorgio detto della riunione, fregiati i meritevoli d’ambo le parti; lieve espediente. I due eserciti nondimeno, se non di animi, si fusero d’arme e vestiti.

La carboneria soffiò in queste ceneri, si valse di tai disgusti; diramò sue braccia fra generali e soldati, prese subito vigore, e aperto lavorò a mutazione. Era allora ministro di polizia il principe di Canosa, uomo d’ingegno e di cuore, ma facile a cadere in mali consigli e in male amicizie. Ei pensò dover combatter la setta con controsetta; e favorì i Calderari, altra società mezzo segreta surta a pro del governo. Errore fu, che tentò l’impossibile, nobilitar l’indole delle segrete società, tratte sempre da loro natura a ribellione. Quindi si mise di tristi attorno; i suoi nemici, che molti e anche in corte n’avea, il denigrarono; e il re si calò nel 1816 a torgli la sedia. Egli volle esulare. Prese il sommo della potestà il Medici suo emulo, che chiuse l’occhio su’ carbonari; i quali ebbri del trionfo crebbero di numero e di baldanza.

Mentre la setta lavorava il reame rimarginava sue piaghe. Quei cinque anni furon notevoli fra noi per rara prosperità. Blando, carezzevole, indulgente il governo; ricchezza, annona, giustizia, feste, pace, obblio del passato, leggi larghe, facile amministrazione, rinsanguinar di finanze e di forze, non tasse nuove, diminuzioni delle vecchie, non patiboli, non ceppi all’ingegno e al commercio, sicuro il paese, si vivea secondo l’età bene e lietamente. Ma quelle facilità appunto davan modo a’ congiuratori di operar libero. La setta mondiale squadernando le dottrine del Montesquieu già magnificando nelle menti le costituzioni. Non debbo dire se cotai forma governativa sia per sé buona o mala, a seconda de’ popoli, de’ tempi e de’ modi; ma cotesti liberali sen’han fatto un tipo unico di governo che vogliono imporre a forza a tutti i popoli. Di sì grossolano errore che fa versar tanto sangue al secol nostro la savia antichità avrebbe riso; e sarà nei posteri uno smacco alla superbia dottrinale di questa età presuntuosa. Se non che tal modello di governo parlamentare,da darsi ai taciturni ed a’ loquaci, a’ freddi e a’ caldi, a’ calcolatori e agl’immaginosi, non è già per quelli stessi richiedenti voto di benefizio, ma d’insidia. La setta che aspira a repubblica sociale, chiedi pel meno costituzioni per primo scalino, e farsi un terreno inviolabile, donde combattere la potestà, e aver modo di mangiar gli erarii e far debiti agli Stati. Con esse pongono loro adepti al governo, si fanno un parlamento loro, i deputati contrarii comprano con ciondoli ed uffizii, lascian cianciar vanamente di franchigie i pochi non venali; fan decidere ogni cosa dalla vendereccia maggioranza; e con liberalesche forme si fan tiranni.

La Carboneria pertanto, preso modo e succo affatto democratico, aveva guadagnato il più dell’esercito, operatori i generali più alti, massime quelli messi dal re a comandanti territoriali nelle provincie, con infausto consiglio; i quali potendo più de’ presidi, facevan dualità nel governo della cosa pubblica, e operatori di male, erano insieme ribelli e sostenitori della regia potestà. Questi comandanti nel quinquennio favorivon la setta; dal 21 al 47 non se n’ebbero, e fu lunga pace; si rifecero nel 18, e prepararono in gran parte il 1860. Era allora comandante territoriale di Capitanata ed Avellino Guglielmo Pepe. Repubblicano nel 99, servì Murat, e cospirò contro esso; giurò a Ferdinando, e fu ritenuto Tenente Generale, ebbe la Gran Croce di S. Giorgio, e cospirando ancora fu precipua cagione dell’insozzar di Carboneria, e indisciplinar la milizia. Gli animi eran qui preparati, quando la rivoluzione di Cadice riconosciuta da’ monarchi nelle Spagne avacciò il movimento. I carbonari nelle vendite s’agitarono, predicarono virtù lo spergiuro, statuirono il da fare.

6. Il 1820.

La congiura avea in più parti d’Italia preparate le mine, ma primi a scoppiare fummo noi. Sull’alba del 2 luglio 1820 due sottotenenti Morelli e Silvati con 127 soldati del reggimento Borbone cavalleria disertavan da Nola insieme a un Minichini prete, e venti paesani carbonari; si fermarono a Mercogliano, poi, ingrossati, a Monteforte. Il colonnello De Concilii comandante d’Avellino finse accorrere per combatterli, e s’unì ad essi; e mentre i Carbonari soldati disertavano alla rivoluzione, s’inviava a debellarli da Napoli il generale Carrascosa senza soldati. In quella il Pepe col più della guarnigione di Napoli si solleva; una deputazione corre al re, e lo sforza con bruschi modi a dar fra due ore la costituzione stessa di quei dì proclamata in Ispagna. Scelta questa tumultuariamente, non perché l’avessero in pregio, ma per foga e fretta, o per mostrar l’armonia delle due rivolte; ell’era per sédifettosa, e impossibile in regno doppio, per Napoli e Sicilia, diversi ed avversi, e a popoli restii a mutazioni. A 6 luglio la proclamarono. S’elessero Murattini a ministri; alle regie bandiere s’unirono i tre colori della setta, turchino, nero, e rosso. Poi il Pepe co’ Morelli e Silvati, e il prete Minichini, seguiti dall’esercito rivoluzionario, fece il 9 entrata trionfale e scenica in Napoli, i Carbonari plaudendosi da sé, Viva i Carbonari. Il re giurò il quindici; la stampa cominciò sua sfuriata.

Come arrivar le novelle a Palermo, i congiurati si levarono anch’essi a gridare costituzione di Spagna, a 15 luglio; ma subito per rivalità aggiunsero Indipendenza; né mancò chi sclamasse: Viva Robespierre! Fu fatale in queste e in tutte le rivolture sicule, il trovarvisi luogotenente qualche inetto. V’era un Naselli, che per vana paura die’ i castelli alla marmaglia, la quale inorgoglita infuriò; latrocinii, uccisioni, e vendette; abbatté le statue reali e gli stemmi, saccheggiò la reggia, devastò i giardini, arse e spogliò case, e a’ due principi Cattolica e Jaci troncò le leste, e, strascinando i cadaveri, le portò sopra lance a ludibrio. I rivoluzionarii di Napoli disapprovaron quelli eccessi, e più l’indipendenza che accennava a divisione; e mandarono a domare i Palermitani novemila fanti e 500 cavalli col generale Florestano Pepe (fratello di Guglielmo). Partì questi sui principii di settembre, vinse in più scontri; fermò a 5 ottobre la pace; e rioccupati la città e i forti, ripose il governo regio, durata l’anarchia ottanta giorni.

Al 1. ottobre s’apriva in Napoli il parlamento, presente il re, nella chiesa dello Spirito Santo. Ne’ dì seguenti sin da’ primi discorsi si parlò di Costituente, il che ricordando quella regicida di Francia, spaventò Ferdinando, e gli mise in cuore il primo desio del partire. Già unica regnatrice era la Carboneria, governo nel governo, i suoi agenti seduti in tutti uffizii, ubbidivano ad essa; al re s’era lasciata la parte del segnar decreti per la sua rovina. In quella s’agitava la setta mondiale, i suoi adepti in tutti i paesi alzavano il capo, e pareva imminente un nuovo 89 europeo; perlocché i monarchi, congregati a Troppau, statuirono fiaccar le rivoluzioni, e Napoli prima. Qui il gloriato Guglielmo Pepe, irto di plausi e pugnali carbonareschi, gridava guerra, guerra! e fe’ rigettare altresì la offerta mediazione di Francia. Alle provincie mutaro nomi: Daunia, Irpinia, Sannio, Lucania, e simiglianti ricordi di tempi eroici e repubblicani. La Carboneria fra que’ trionfi inebbriata, dimenticò sue astuzie, e ammise, anzi sforzò ogni gente a entrar nelle sue fila; anco femmine carbonaresse fece, dette Giardiniere. Solo in Napoli eran 95 vendite, ed una avea ventottomila soci, il più ascritti per fuggir molestia. Allora incapace di freno, palesò nuda sue tristizie; ché le sette pria di scoppiare parlano libertà, sfolgorano tirannia dopo il trionfo. A un tratto snervata la forza sociale, comandanti moltissimi e i peggiori, con l’anarchia l’audacia e le rapine, diminuite l’entrate, cresciuti i bisogni, mancato il credito, vuotate le casse pubbliche. Il banco, ripigliandosi ciascuno i suoi capitali, non pagò più, e vi si scoperse mezzo milione mancante; scemarono di molto i fondi pubblici, per finanze stremate, per discredito, vacillamento e incapacità di nuovi reggitori. Ritrassero dalla Cassa di sconto un milione di ducati; venderono ducati cinquantamila di rendita sul Gran Libro, e misero in vendita altresì i beni dello Stato, restati salvi per la fortunosa disfatta. Da ultimo ordinarono un prestito interno; davan carte per danari, e a forza; divenne tassa obbligatoria.

Opportune al re, deciso d’allontanarsi, vennero lettere de’ sovrani europei che invitavanlo a Laybach; però né die’ parte con messaggio al parlamento il 7 dicembre. Seguirono tumulti parlamentari; si gridò o Costituzione di Spagna o Morte, e nelle camere e in piazza, co’ pugnali alti. La dimane il Borrelli deputato perorò per la partenza del re, e s’ottenne. Ferdinando parti il 14 di quel mese sul Vendicatore vascello inglese, lo stesso che avea tenuto prigioniero Napoleone. Napoli fra spessi delitti, ne vide uno orribile. Una notte in gennaio 1821 i Carbonari assalgon la casa del Giampietro stato direttore di polizia; e, piangente invano la moglie e nove figli che gli abbraccian le ginocchia, strascinante sull’uscio, e sotto gli occhi de’ suoi cari, gli dan quarantadue colpi col pugnale che da una in altra mano si passavano. Sul cadavere misero il cartello: numero uno. I magistrati non punirono nessuno; molti tementi di peggio fuggirono; lo spavento colse ogni persona onesta.

Il re per vecchiezza stanco, desideroso di pace, avrebbe voluto a Laybach sostenere il fatto di luglio, e né scrisse al figlio Francesco rimasto suo vicario nel regno, ma trovò i sovrani determinati a cassare quel riprincipiamento di rivoluzioni, minacciante la sicurezza degli altri stati. Ciò nunziò egli al figliuolo vicario; ciò riprotestarono gli stranieri ambasciatori aggiungendo che Tedeschi, e Russi in riserva, marcerebbero sul reame. Subito il parlamento, le vendite, la piazza gridarono guerra; e il Pepe beatissimo già col pensiero trionfava. Rifatto il ministero, ministro di guerra il Colletta, stabilirono guerra difensiva, aspettare nello stato il nemico, far due eserciti, uno verso Ceprano, altro in Abruzzo, poi fortezze, trincieramenti, teste di ponti su fiumi e altre difese. V’avean 60 mila soldati, e 140 mila urbani, militi e legionarii. Correvan questi a sclami, non per zelo di pugna, ma dalla Carboneria con fiere minacce sospinti.

S’appressavano quarantatremila Tedeschi comandati dal Frimont. Il Pepe già ne’ suoi giornali promessa vittoria certa, avea pur fatto stampare che sconfiggerebbe il nemico il 7 marzo a Rieti; però a non mancar di parola, quel mattino, senza aspettar tutto l’esercito, scese dalle gole d’Androdogo con una schiera, e assali Rieti, donde i tedeschi uscirono in tre colonne. Alla prima l’esercito di Carbonari si sgominò e sparve, e con esso il Pepe. Costui avrebbe potuto fermarsi per via, e co’ reggimenti ordinati ripigliar la guerra; ma non lasciò di camminare un’ora, e giunse prima di tutti i fuggenti a Napoli; dove dimandò ed ottenne un secondo esercito; se non che udito i Tedeschi vicini fuggì in America, per serbarsi a un’altra volta.

Il parlamento, a un tratto di guerriero fatto pacifico, scrisse un indirizzo al re, dichiarandosi innocente della rivoluzione; di poi al 9 ventisei deputati soli, scrissero a proposta del Poerio un atto di protesta per la violazione del dritto delle genti. I tedeschi entrarono in Napoli a 25 marzo 1821. Il popolo fu lieto di guadagnar la pace. Ma dopo pochi dì i Carbonari di Messina, forti della complicità del generale Rossaroll comandante il presidio, si sollevarono, abbatterono le statue del re e gli stemmi, e mandarono per tutta Sicilia e in Calabria chiedendo aiuti, che punto non ebbero. Allora i messinesi s’unirono e armarono, prima sotto colore di mantener l’ordine, poi per dare addosso ai ribelli. Questi fuggirono. Il Rossaroll riparò in Ispagna, indi in Grecia, dove morì. La rivoluzione carbonaresca costò al paese ottanta milioni di ducati di debiti e la invasione straniera, pagata poi sei anni. Il nome Carbonaro nelle popolari menti suonò e suona infame e vile, pei baldanzosi delitti, e per le vergognose fughe, cui la nazione con pratico senno su di esso rigettò l’onta. Però la setta non osò più ripigliar l’irriso nome; e dappoi midollo in Giovine Italia; che non più degli uomini che l’aveano assaporata, ma in giovani ignari mise speranze di riscosse.

Quell’anno stesso, sebbene con ritardo, giunsero a rivoltare il Piemonte, mentre era compresso Napoli. Colà il ministro di guerra Santarosa, e Carlo Alberto di Savoia, principe di Carignano capo del ramo secondogenito della casa regnante, cospirarono. Il re abdicò a favor del fratello Carlo Felice, Duca di Genova; e perché assente, surse reggente il cospiratore Carlo Alberto. Questi tentennò alquanto, poi proclamò la convenuta costituzione di Spagna. Le società segrete nominaronlo presidente de’ Federati; il cui disegno era allora di far trina l’Italia, cioè settentrione, mezzogiorno e centro. Egli aspirava al settentrione. Il Santarosa e i Carbonari tementi le decisioni di Laybach, misero truppe alla frontiera; ma combattuti dagli assolutisti di dentro, e da Tedeschi di fuori, vinti a Novara, ritornò l’ordine primiero.

Per siffatte ripressioni i rivoluzionarii odiano a morte l’Austria; non per cacciar fuori lo straniero, come strillano, ché né chiamati di tutte nazioni; ma per cacciare il proteggitore della quiete.

7. La reazione.

Cominciarono nel reame punizioni di ribelli. Il ministro Canosa ritornato alla sedia abolì ogni segno settario, minacciando la frusta. Trovatone addosso a un tale Angeletti, il fe’ vergheggiare, poi in berlina il mandò per Toledo, col nastro settario al collo, e ‘l berretto tricolore in testa, e la scritta Carbonaro. I liberali sclamarono alla barbarie, e l’era; ma avean lodato il palo usato nel liberalesco decennio. Quella frustata alla medio evo bastò a seppellire la Carboneria. Venner carcerati i rei principali, sette o otto generali, fra’ quali l’ex ministro Colletta, che inventò poi la storia per vendetta, pochi deputati e consiglieri di Stato, fra questi il Poerio, il Bozzelli, e alquanti magistrati. Costoro patirono esilio o perdita d’uffizio. Presto con editto del 30 maggio il sovrano decretò l’amnistia, salvo pe’ militari iti a Monteforte. De’ quali si fe’ nel 1822 il giudizio, durato più mesi con pubblici dibattimenti. Vidersi molti Carbonari mutar veste, e farsi accusatori e testimoni de’ compagni; moltissimi lodavansi d’aver disertato dalla guerra, e tradita la nazione: vergogne difenditrici di vergogne. Fur condannati trenta a morte, e tredici a galera; numero lieve fra tanti celebrati rei; ma la sentenza fu eseguita solo sul Morelli e sul Silvati, primi ad alzar bandiera; gli altri ebbero minorata la pena e poi appresso libertà. Fra’ graziati fu il colonnello Tupputi, stato nel 1860 tanto acerrimo nemico a’ Borboni, che gli avean lasciato il capo sul collo. In contumacia ebber condanna di morte il Carrascosa e il Pepe.

Disciolto andò l’esercito; ogni uffiziale sottoposto a scrutinio, riconfermato nel grado, o dimesso, secondo l’opere; molti perdettero i posti; e si lamentavan che distrutta restasse la convenzione di Casalanza; come se valesse per le colpe posteriori, e un governo potesse dannarsi al suicidio col lasciar l’arme alle mani de’ suoi uffiziali nemici. È da notare che i felloni Morelli e Silvati fuggiti con cinquecento ne’ monti, avean tentata la guerra brigantesca, riuscita inane per isbandamento de compagni, e odio delle popolazioni; donde si vede che dopo il 1800, il 1815 e il 1820, benché rimutati i governi, il reame non ebbe brigantaggio politico; per contrario ebbe lo nel tempo repubblicano del 99, nel decennio, e dopo il 1860, cioè sempre dopo le cacciate de’ Borboni; perché il popolo è con questi, non con le sette, né con lo straniero; e combatte come può con armi rusticane contro gli usurpatori.

Nello stesso anno 1824, dopo molte consultazioni, si stabilì con legge che Napoli e Sicilia, ancora che regno uno, s’amministrassero separati: tasse, tesoro, magistrati, spese, tutto diviso; ciascuna parte avesse impiegati conterranei, ciascuna una consulta. Ciò, atto per ridar autonomia e indipendenza all’isola, antico desiderio siculo, fu tosto colà censurato e lamentato; disserta legge alimentatrice di divisione e discordie fra popoli italiani, fonte di debolezza e servitù comune. Quando poi Ferdinando li per compiacerli ordinò la promiscuità, censuraron peggio, e piagnucolaron tanto che prepararono il 1848.

Rimasto stremato l’erario, e avendosi a pagare i Tedeschi, si chiesero denari al Rothschild banchiere ebreo; il quale, spinto di segreto dal Metternich ministro d’Austria, offerseli, a patto che ministro di finanze fosse il Medici. Questi da Firenze ov’era fuggito patteggiò, e volle casso il Canosa suo nemico. Il re si negava, ma insistendo il Tedesco Roller che volea la moneta, bisognò acconciarsi. Così l’ebreo rimetteva in seggio il Medici; e il Canosa di nuovo volontario esulava. Re Ferdinando nella notte del 3 al 4 gennaio 1825 fini. Trovaronlo morto al mattino, nato al 12 gennaio 1752; vissuto anni settantasei, regnati sessantacinque.

8. Regno di Francesco I.

Il suo figliuolo primogenito Francesco succede al trono. Viste più rivoluzioni, patito l’esilio, sapeva come le sette lavoravano, e stette sull’avviso, onde seguitò, né altro poteva, i modi precedenti. Ma a sgravar lo stato dalla spesa de’ Tedeschi, viaggiò, a mezzo aprile, per conferire con l’imperatore d’Austria a Milano, vi giunse un mese dopo, e ottenne scemasser tosto di diecimila, il resto partisse per l’anno seguente. Invece convenne con la Svizzera d’avere a soldo quattro reggimenti, ciascuno di 1452 uomini, per trent’anni. La prima spesa fu un milione e 792 mila ducati, l’annua cinquecentosessantaseimila. Così costaron meno de’ Tedeschi, e furon fidi e prodi lungo tempo. Quelli nel 1826 sgombrarono la Sicilia, rimasti soli diecimila in Napoli, partiti in febbraio seguente.

I Carbonari intanto voller dar segni di vita agitando loro congreghe; ma scoperti nel 1826 in Napoli e a Catania, e giudicati, due ebber sentenza di morte, altri di ferri, e il re li graziò. Anche a 16 agosto seguirmi molte permutazioni di pene ai condannati del 21, quasi grazie piene. Ma nel 1828, come fu in Francia mutamento di ministero con personaggi creduti liberali, qui nel regno subito se ne prese opportunità di ribellare. Prima fecero iniziare un movimento da pochi uomini ignoti, ma presto scoperti e carcerati, surse un Galloni, che corse al Vallo del Cilento a unirsi a tre fratelli Capozzoli di Monteforte, proprietarii falliti, profughi pe’ monti. Costoro a 28 giugno sorpresero il piccolo forte Palinuro, e fatta più gente volsero a Camarota con bandiere di tre colori, gridando la costituzione francese. Ne’ dì seguenti corsero altri paeselli, seguiti da tristi, mal visti dalle popolazioni sulle quali commettevan già vendette atroci. Il governo vi mandò truppe, e con piena potestà Francesco Saverio Del Carretto. Questi era stato capo dello stato maggiore del Pepe nel 1820, e dei più caldi carbonari, però dimesso con gli altri; nondimeno avea trovato modo d’aver piena grazia nel 1822, e montare a colonnello, e poscia a brigadiere. Ei mostravasi allora tutto regio, ma non restava di tener di nascoso la mano stretta a principali liberali già suoi confratelli, cui dava a bevere egli agognasse il potere per fare poi la rivoluzione sicura e incruenta, quindi essere inopportuno ogni precoce sollevamento. Dall’altra per mostrar fedeltà al re svelava le trame che gli riusciva sapere, e corse volenteroso contro i faziosi del Cilento; anzi per lavar la colpa antica, operò con nera asprezza; che scomparsi per fuga i ribelli, spietatamente distrusse la terra di Bosco, ove quelli erano sfati bene accolli, e le’ molte carcerazioni. I Capozzoli fuggiti in Romagna, poi in Toscana e in Corsica, vollero ritentar la fortuna riedendo a’ monti natii, con isperanza di brigantaggio; ma scoperti e presi in conflitto subiron condanna di morte. Il Gallotti campato in Francia, là preso e consegnato, dannato nel capo, ebbe grazia; e qualche anno dopo libero uscì dal regno. Altri giudizii seguirono, ed altre pene; e alternate severità e indulgenze, si quietò. Di quelle ire regie operate da un liberale, non si fe’ molto rumore; perché allora i liberali che si dicean moderati, persuasi di segreto dal Del Carretto essere stato inopportuno il movimento, lui lodavano di avveduto, e intendevano a fargli nome per dargli altezza e potestà.

Seguì nell’anno stesso un disgradevole fatto. Avevamo da aprile 1816 un trattato con la reggenza di Tripoli; morto Ferdinando, il Bey dichiarò il trattato spento con la persona del re, e per rinnovarlo chiese centomila colonnati; ciò rifiutammo, e pareva sopita la controversia, quando il Bey reiterò l’inchiesta, e die’ un perentorio di due mesi per lo adempimento. Pertanto Francesco mandò all’agosto il capitano Sozii Carafa con quattordici legni, per mettere il senno in capo al barbaro: tre fregate da 41, un brigantino da 20, quattro cannoniere, altrettante bombardiere latine, e due bastimenti ospitalieri. Il Sozii, dopo varie pratiche di composizione, cominciò il bombardamento di Tripoli il 22 alla lontana, disse per cagion del vento e delle maree. Solo la fregata Isabella e il brigantino col capitano De Cosa s’avanzarono contro la batteria tripolina; e ’l tenente di vascello Roberti con le cannoniere e le bombardiere teneva a bada le cannoniere avverse, e bombardava da lungi il palazzo del Bey, attento a non colpire, com’era ordinato, il quartiere degli Ebrei. Con sì fiacca guerra il Sozii stette altri tre dì a braveggiare con colpi che per distanza andavan perduti; sinché consumate le munizioni si ritrasse con vergogna a porti di Sicilia. Seguirono prede di legni mercantili d’ambo le parti, e il danno nostro fu maggiore. Il Sozii accusò il De Cosa, che solo avea combattuto, d’essersi messo nella corrente e cacciato sotto i cannoni di Tripoli, onde aveva avuto danni; perlocché surse un consiglio di guerra a giudicar tutti; il quale con nuovo criterio né dichiarò la colpabilità, ma nessuno condannò. Fu ricorso all’alta corte militare; ma il re, udita la verità de’ fatti, troncò il giudizio; e invece mise a quarta classe i giudici del consiglio di guerra e il Sozii Carafa; pur perdonati dappoi. Indulgenze ite in costumanza, madri di guai futuri. Da ultimo a 28 ottobre facemmo pace col Bey, pagando ottanta mila colonnati: insigne vergogna.

La bontà d’animo di Francesco piegò a fievolezza. Ebbe un familiare favorito, che ne vendeva le grazie, e in pochi anni arricchì. Altro errore fu nel 1826 la formazione di due reggimenti siciliani prezzolati; a’ quali nel 1831 furono aggiunti parecchi galeotti graziati, che riuscirono lunga piaga. Fu maggior piaga il vendere i gradi d’uffiziali quasi privilegio a soli Siciliani. La setta uscì a comprare, e vedesti capitani e tenenti bambini di culla; i quali, presa anzianità, arrivarmi giovani a stare innanzi a’ vecchi, e a’ gradi alti. Il più dier triste prove. Di questi furono il Flores, il Cataldo, Alessandro Nunziante, i due Pianelli, il Ghio ed altri ingratissimi, famosi per tradimenti nel 1860.

Dall’altra Francesco fe’ buone leggi amministrative, ravvivò le civili istituzioni e fu versato in agricoltura. Istituì nel 1828 l’ordine cavalleresco di Francesco I, per compenso di inerito civile; ordine sventuratissimo ito sovente al demerito. Egli fece il gran palazzo delle Finanze, nel quale gli ufficii di tutti i ministeri pria sparpagliati ebber posto. Il suolo è di 215 mila palmi quadrati, l’edilizio ha 816 stanze e 10 corridoi. Ebbe due mogli: da Maria Clementina d’Austria nacquegli Carolina Ferdinanda, sposata poi al Duca di Berry principe di Francia, poi assassinalo da ignota mano scendendo da un teatro a Parigi, da Isabella di Spagna fu fatto padre di sei maschi e sei femmine. Temendo che per ozio prevaricasse l’indole giovanile, le’ decreto a’ 7 aprile 1829, ordinante il sovrano esercitasse sulle persone della real famiglia la potestà necessaria a serbare lo splendore del trono, perciò ogni persona reale avesse bisogno di regio assenso per contrae nozze, qualunque età s’avesse; in mancanza il matrimonio non producesse effetto civile. Lo stesso assenso volersi per ipotecare o vendere loro beni immobili. Decreto profetico, per quello che avvenne poi. Maritata la figlia Cristina col re Ferdinando VII di Spagna, egli stesso ve la condusse. Spesevi 692 mila ducati. Ripassando per Parigi, Luigi Filippo suo cognato, che intendeva a fellonia, diegli uno splendido festino, invitatavi fuor dell’usanza di Corte la borghesia. È una bella festa, disse Francesco. Si, Sire, rispose il ministro Salvandj: è una festa napoletana, cioè che si balla su’ vulcani. In Ispagna era morto il nostro ministro Medici. Egli il re sul finir di luglio 1830 ritornò con mala salute, che lo spense a 8 novembre. Era nato a 19 agosto 1777.

9. Rivoluzione di luglio in Francia.

Il vulcano era scoppiato: la rappresentanza e la stampa libera in Francia avean partorito la rivoluzione di luglio 1830; altra per noi semenza di guai. Luigi Filippo d’Orleans, figlio dell’altro Orleans che votò la morte di Luigi XVI, nascendo nel 1775 era stato tenuto al sacro fonte dal Delfino, che fu questo misero sovrano. Educato a maniera teatrale da una donna, dico la filosofessa madama Gentis, si fe’ Giacobino, mutò il nome Borbone in Uguaglianza, combatté per la repubblica, poi contro, fuggì, viaggiò ramingo in America, e ritornò legittimista in Europa. Per campar la vita in Isvizzera avea fatto il maestro di scuola. Indi giurò fedeltà al re pretendente; e ne fu favorito a sposare a Palermo Amalia figlia del nostro Ferdinando IV; eppure nel 1812 cospirò con gl’Inglesi contro il suocero, per farsi reggente di Sicilia. Ritornò in Francia al 1814, accolto bene dal restaurato Luigi XVIII, che gli pagò i molti debiti, e gli fe’ restituire i beni. Carlo X gli riconcesse il titolo d’altezza reale, fe’ sanzionar con legge la fatta restituzione delle facoltà paterne, gli die’ sedici milioni d’indennità pel patito esilio e contribuì a fargli avere lo immenso retaggio del Duca di Borbone Condè (morto, come si disse, assassinalo). A tanti benefizii l’Orleanese mostravasi riconoscente, ed era ossequioso, e parea fido; nondimeno in casa sua accoglieva i malcontenti di tutti i partiti, s’infingeva protettore d’artisti, uomo di progresso e di civiltà; poscia scoppiata la rivoluzione di luglio, come Carlo fu fatto abdicare, ei prese per broglio di rappresentanti, appellato voto di nazione, il trono del suo benefattore, e quella corona di Francia cui il padre suo per via di regicidio s’era avvicinato. Luigi Filippo re, non perché di casa Borbone era men re, rivoluzionario; la sua esaltazione fu un ritorno verso il 1789, e un mezzano trionfo di que’ principii; le sette si riagitarono in tutta Europa, e più in Italia si sperarono rifare le scene passate. Allora fu udito proclamare la prima volta quel nuovo motto che legò poi le mani al dritto, il non intervento, un comitato italico a Parigi lavorò fra’ capi della rivoluzione; e s’udì in ottobre 1851 il ministro Sebastiani dichiarar dalla tribuna: «La santa alleanza essersi fondata sul principio dell’intervento distruttore dell’indipendenza degli stati minori; dovrebbe la Francia far rispettare il principio contrario, e assicurerebbe la libertà e l’indipendenza di tutti.» Saria giusto il vietar lo intervenire in casa altrui, se anche si vietasse lo intervenire alla setta mondiale; la quale raccogliendo i faziosi di tutto il mondo né fa massa per turbar la pace d’ogni pacifico Stato, e attenta alla libertà e indipendenza de’ popoli. Si proibisce agli stati legittimi d’intervenire, e si permette allo stato sotterraneo nemico latente di tutti. Il non intervento è diventato un dritto proibitivo, e lo intervento un dritto privato della setta.

Per allora Luigi Filippo facendo sfogare quelli umori in ciarle, attendeva a regnar sicuro. Ma la fortuna del suo esaltamento né fu tristo esempio, ché turbò i pensieri di qualche principe secondogenito della casa di Napoli, e seni a fomentare le rivoluzioni nostre. Si sollevarono i Paesi Bassi; la Polonia ne prese opportunità per riacquistare la sua nazionalità perduta, e molto pugnò pria d’esser vinta, in Piemonte si vider conati per rifar la costituzione del 1820, i Carbonari s’accerchiarono attorno a Francesco di Modena, e qui e a Parma ebbero a correr Tedeschi; e furori moti a Ferrara, a Bologna ed Ancona, in senso unitario. In questi fe’ le prime prove Luigi Napoleone, che insieme al suo maggior fratello combatté: vinto, fu ricoverato dal Mastai vescovo d’Imola, poi papa Pio IX. A Forlì gli morì il fratello; ei fuggi in Francia con la madre, bene accolto; ma, pur là congiurando, scampò in Londra.

10. Politica di Ferdinando II.

Ferdinando II, nato a Palermo a 12 gennaio 1810, succedeva a Francesco all’età di vent’anni, in quei difficili momenti, quando anche nel regno s’agitavan gli spiriti a esempio di quella Francia che vuol esser modello agl’imitatori del rumoroso. I Carbonari non osavan mostrarsi; per contrario protestavano innocenza, secondo l’usanza de’ tristi percossi. Re Francesco aveva già fatte perdonanze assai; parecchi avea riposti in uffizio, ma da’ tempi costretto a esser lento a graziare; tale che molti ancora si trovavano in esilio, o senza impiego, che anelavan mutazioni. Ferdinando benché giovine e nuovo al regnare, sia consiglio sia generosità, andò incontro al pericolo, con politica nuova. Lo stesso dì che ascese al trono fe’ una proclamazione splendidissima, promettente non resterebbe vana nelle sue mani la potestà trasmessagli da Dio; studierebbe i bisogni de’ sudditi e dello stato, guarirebbe le piaghe del reame. Ebbe lodi da ogni maniera di persone; gli uomini da bene speravan finisser le concitazioni, i settarii già si credevan sicuri d’afferrar la potestà. A 18 dicembre e a 11 gennaio 1831 concesse quasi general perdono per colpe di stato. A’ traviati spezzò o abbreviò i ceppi; ritornarono i profughi in patria, quasi tutti riebbero gl’impieghi antichi e maggiori, giurarono fedeltà eterna; e predicando sé innocenti, dicevano quella non perdonanza essere stata ma tarda giustizia. Gli si misero attorno, e tenean per fermo d’abbindolarlo, e fargli scintillar l’idee d’indipendenza italiana, e guadagnarlo alla loro bandiera. Ma il giovine Principe, dato il pane in bocca a’ traviati, non voleva andar oltre; volea contentar gli uomini senza conceder le cose.

11. Rifà l’esercito.

In prima lavorò all’esercito. Questo, come dissi, uno di nome, doppio di fatto, per quei di Sicilia e quei del Murat, divisi, emuli, diffidenti, dopo i fatti del 20 scaduto nella opinione, poco valea. Guasta la disciplina dalla Carboneria, benché riammodernato nel 1821, pur era rimasto ibrido; più fu ibrido per le grazie che vi riposer carbonari pentiti. Ferdinando sin dal 29 maggio 1827, fattone capitano da re Francesco, sendo vago d’armi, v’avea speso sue cure; re vi applicò più alla libera. Nonpertanto quella sua fantasia di parer liberale il tirò alquanto a favor de’ Murattini; i quali per aver fatte le guerre Napoleoniche si gridavan da più, e gittavano a terra i contrarii; sicché fe’ male veder vecchi soldati, per colpa d’aver seguito in tutte fortune i gigli, messi a riposo, quasi non buoni. La prima pietra fu scagliata contro il corpo de’ Cacciatori reali; bellissimo per persone, per lede provata, già scorta del sovrano nelle grandi cacce; che andò disciolto, e spartito in tutto l’esercito; messone il comandante, generale de Sivo, soldato fedele del 1799 e di Sicilia, caro a’ due ultimi re, in gagliarda età, a seconda classe, in pena di non aver macchia. Salirono alto per contrario quei del Murat, e del 1820, molti dei quali tentennaron poi nel 1848, e tradirono aperto nel 1860. Allora il favorir costoro, e il disgradare i fedeli non parve gran danno; perché tempi corser di pace, e perché contentati i settarii, restò un pò disertata la setta; ma lasciò una persuasione che meglio co’ Borboni si guadagni a mutare che a restar fido. Per contrario gli apostati che dalla presa politica del re avean pro, laudavanlo oltre misura, e sospingevano sempre a far più. Con l’andar degli anni quei di Sicilia, fuorché pochi, scomparvero; il tempo e la morte sopir molti rancori. Salvo questo, Ferdinando rifece l’esercito per armi, vesti, ordinanze, studii, e disciplina. A 26 settembre 1834 die’ nuova e buona legge su la leva militare. Fe’ le ordinanze di piazza, l’ufficio topografico, il Genio militare idraulico e di terra, il corpo d’artiglieri litorali, reggimenti di lancieri, battaglioni cacciatori, una riserva all’esercito, fonderie di cannoni, polveriere, armerie, arsenali, collegi militari, ginnasii; e a 30 settembre 1842 fondò a Pietrarsa un ampio opificio per arti meccaniche e pirotecniche, da far macchine a vapore, e d’ogni maniera; che fu primo in Italia. L’artiglieria, arma dove più valgono i nostri, chiamò a nuova vita. Ed egli con simulacri di guerra, e istruzioni e marce su’ campi l’esercito addestrava; sicché questo per numero ed ordini guerreschi sali in fama. Costava men di otto milioni di ducati all’anno. E appunto quando fu buono, la setta, viste sue. speranze nel re deluse, cominciò adirne male. Si prese a proverbiare l’amor di Ferdinando per le arme; e lui mettevano in satire o in burle, chi per dispetto o invidia, chi per stoltezza.

fonte

https://www.eleaml.org/ne/margotti/1868-DE-SIVO-Storia-delle-due-Sicilie-dal-1847-al-1861-AA-2025.html#LIBRO_SECONDO

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