Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 LIBRO SECONDO (II)

Posted by on Giu 23, 2024

STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 LIBRO SECONDO (II)

Dovremmo smettere di definire certi storici “borbonici” e chiamarli semplicemente “preunitari” o “napolitani” nel nostro caso. Non si  capisce per quale motivo il Colletta che non scrive certo un trattato di obiettività scientifica sia considerato uno storico e i napolitani che scrissero al tempo di Ferdinando II siano considerati dei lacchè di regime.

Gli esuli pagati profumatamente in quel di Torino dal conte di Cavour per scrivere le loro ricostruzioni storiche antiborboniche che cos’erano? I depositari  della verità rivelata?

Buona lettura e soffermatevi sul profluvio veramente impressionante di innovazioni normative operate dal Re Ferdinando II.

CAPITOLO II.

L’ARMATA IN PALERMO.

Sommario

Desauget mette in comunicazione il suo Quartier Generale con le preesistenti truppe; indi nulla di positivo fa. Addatisine i sollevati, riprendono animo ed armi. Assalto delle Finanze, del Convento dei Benedettini, e del Quartiere di S. Zita. Le comunicazioni tra i Regii di nuovo interrotte. Progetto del Luogotenente, e sue trattative col Pretore, le quali punto non rattengono la ribellione. Il Monastero di S. Elisabetta. Il Re affine di cessare la guerra manda opportune concessioni, le quali per turbolenti consigli sono respinte. Indarno si adopera per la pace Desauget. Strane pretensioni del Comitato. Il Quartiere del Noviziato, e della Gendarmeria. Assalto dell’Ospedale Civile; sciagura miseranda degl’infermi raccoltivi. Abbandono del Regio Palazzo. Orrenda catastrofe dell’Olivuzza. Vandalismo della Magion Reale. Le Finanze ingannevolmente strappate ai Regii. Desauget volge l’animo al ritirarsi. Incomportabili pretese del Comitato. Disastrosa ritirata dell’Esercito.

Il Maresciallo Desauget cominciò le operazioni militari aprendo comunicazioni tra il suo Quartier generale dei Quattroventi, e le posizioni che tenevano le preesistenti truppe; epperò il General Nicoletti si muoveva con cinque battaglioni di fanti, una sezione di artiglieria di montagna ed un’ altra di campagna, e dopo piccoli scontri lasciava un battaglione nella Villa Filippini, spazzava le vie dai ribelli, perveniva a Palazzo, conferiva col Luogotenente, e tranquillamente ritornava nel Quartier Generale.

Grande animo avean portato le arrivate milizie, grande animo avean ripreso le esistenti milizie; sì che non altro

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Ma indarno il comando si aspettò; una fatai paralisi, sulla di cui cagione vaga ancora incerto lo Storico, la virtù di quel prode e sapiente Guerriero intiepidì o spense.

Bene se ne avvidero, e profittarono i Siciliani ad ogni piccol cosa mai sempre vigili ed intenti; si che man mano andavano riprendendo gli spiriti; i Capi ritornavano alle parole ed agl’inviti, i dileguati si riannodarono, le armi furon ripreso e riforbite, più minaccevole e largo l’incendio arse. Ne’ dì seguenti non fu che una continua seguela di combattimenti per impossessarsi delle posizioni delle truppe. Disselciavano le strade, scavando fossato; innalzando barricate: fra le tegole o nei muri facean feritojo; donde i più timidi tiravano, mentre gli animosi talora allo scoperto si mostravano. I soldati alla lor volta gli aperti nemici coi valorosi petti combattevano, e gl’ingnivomi edilizii a furia di cannonate tempestavano.

Le Finanze formarono principale obbietto dei Siciliani. Più volte ma indarno aveanlo assalito; finalmente postarono due piccoli cannoni diretti ad infrangere il cancello di ferro dell’entrata principale, e già erano per riuscire nell’intento il giorno 17 con un largo investimento, allorché, avvertiti del pericolo, accorrevano due compagnie di Granatieri, e del 2.° di Linea, con duo cannoni da montagna, le quali animosamente si spinsero innanzi, e dispersero i rivoltosi, i quali per altro dal vicino Commissariato di Polizia a furia traevano dalle feritoje, sì che convenne assalirgli. Andarono all’assalto tre distaccamenti della Guardia, del 2.° di Linea, e della Gendarmeria poco stanto accorso, ed un pezzo da montagna. Un nembo di palle infieriva da tutti gli edifizii, i prodi soldati si fecero innanzi, forzarono l’esizial Commissariato; dei rivoltosi alcuni perirono, altri scapparono per le finestre; da ultimo incese due bombe che un Uffiziale del 2.° di Linea ave», portato a mano, fecero sbalestrare in aria il tetto del casamento. Conseguito l’intento si facea ritorno alle Finanze.

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Dal Convento dei Benedettini Bianchi era assai molestato l’avamposto di Porta di Castro, si che fu mestieri assalirlo. Due gagliarde partite di Cacciatori e di Granatieri della Guardia, dopo aspro combattimento vi penetravano. Non altro rinvenivano che allegri banchettanti, i quali come prigionieri di guerra eran condotti, quando accorsero i sollevati per liberarli, dirigendo una furia di fucilate sui militari che alla lor volta con egual furia rispondevano; ma in questo i prigionieri tentarono fuggire, sì che i soldati pel sangue dei loro compagni ormai inferociti scaricarono le armi ai loro danni, e si ritirarono.

Il Quartiere di S. Zita in altro giorno fu investito. Il suono della tromba avvisava del pericolo il Comandante del Castello, il quale tosto mandava a conforto del distaccamento che lo guardava una Compagnia del 9.° di Linea, la quale s’internò per la porta S. Giorgio, s’introdusse nel quartiere, e poscia raggiunto il fine si ritirava. Poco dopo andavano con maggior furore all’assalto i ribelli, dei quali alcuni s’introdussero per le finestre, sì che pressata da ogni parte la milizia, in mezzo a un vivo fuoco si riparava nel Castello, lasciando il quartiere in potere di quelli, che tosto a sacco e a ruba il posero.

L’un dì più che l’altro in mezzo a tanta conflagrazione si rendevano difficili le comunicazioni tra i varii posti dello milizie. Abbisognava mandare un nervo di fanti e di artiglierie domandato dal Luogotenente una col Brigadiere del Giudice per riprendere il comando della propria brigata. Preparato il rinforzo, era pronto a muovere, quando udissi un fitto trarre di moschetteria; Desauget si mise in sul credere, che il battaglione lasciato nel giorno innanzi (16) ai Filippini fosse aggredito; sì che ordinava al Brigadiere del Giudice, che nel portarsi a palazzo lo ritraesse da quel luogo ed alla sua schiera lo aggiungesse. Partiva il Brigadiere, ma rinveniva tranquillo il battaglione, il quale ciononostante dovette essere spostato da quel sito; epperò la comunicazione fu di nuovo interrotta.

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I ribelli uscirono

Ardeva a tal modo la guerra spicciolatamente. Sangue fraterno si versava. La piupparte della popolazione Palermitana, uomini buoni e tranquilli, pavide donne, innocenti creature, fra grandi perigli e grandissimi timori erano. Le truppe dall’audacia degl’insorti, dalla reità della stagione, e dai disagi della guerra travagliate. Tanto male presente, reso più grave da mima speranza avvenire, contristava assaissimo gli assediati e gli assedianti; solo il maligno genio della ribellione satollo gavazzava in quella infernale orgia, come le belve fra i carcami, ed i lamenti delle morenti vittime paghe gavazzano. Ormai era tempo di venire a qualche cosa di positivo. Epperò il Luogotenente mandava una lettera al Pretore addì 19, nella quale esortavalo a portarsi da lui alfine di volger l’animo a qualche temperamento che valesse a soffermare lo spargimento del cittadino sangue. Rispondea l’astuto Siciliano variamente ghermendosi per non rendersi all’invito, e progettava che si fosse diretto al Comitato Generale.

Avea il Luogotenente nella notte antecedente spedito a Desauget un Uffiziale dello Stato Maggiore convojato da mezzo squadrone di Cavalieri, affin di rappresentargli, che le truppe del palazzo e del noviziato ormai affralite, e stremate di viveri e di munizioni erano in gran pericolo ove un assalto si fosse dato dai ribelli i che egli era di credere, che spingendo un concertato e simultaneo sforzo delle truppe contro gl’insorti, ottimi risultamenti si conseguirebbero, e che pertanto ove nel suo parere si accostasse, combinassero i movimenti per mezzo dei segni telegrafici. Desauget conveniva nell’esposto del Luogotenente, ma rispondea, non esserne ancora il tempo; porterebbe la sua meditazione sulle proposte cose, si aspettasse quello che andrebbe a risolvere (1).

(1) Rossi. Storia dei Rivolgimenti Politici cc. Vol.1. pag. SO-Napoli 1851.

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Nel mentre che il Maresciallo risolveva, i Siciliani operavano. Il telegrafo di Monte Pellegrino che metteva in relazione i telegrafi di Palazzo e del Castelluccio, veniva distrutto, e con esso le comunicazioni fra le truppe di de Majo e quelle di Desauget mancavano.

Incalzavano le angustie del Luogotenente; poiché ogni speranza si andava spegnendo in lui, sì che lasciata la spada, riprendea la penna ed al Pretore nuovamente scrivea. Si badasse a porre un termine alle ingrate ostilità; fosse informato delle pretenzioni del Siciliano popolo, che egli a Sua Maestà farebbe conoscere; promettere egli l’invio di un Vapore a tale oggetto; frattanto non si traesse colpo da ambo le parti; aspetterebbesi la risposta della Maestà Sua; poiché quanto a lui, nulla potea decidere, null’altro potea fare, che sacrificarsi pel servizio del Re. Lo scaltro Pretore, scorgendo in tali detti quello che ognuno avrebbe scorto, ossia la debolezza per comprimere la rivolta, si facea tosto a rispondere: avere nell’antecedente lettera fatto conoscere che non a lui ma al Comitato Generale la Eccellenza Sua si fosse diretto; aver subito passato a conoscenza di esso Comitato la lettera; il quale avea risposto, che il popolo non poserebbe le armi, se non quando Sicilia riunita in general parlamento avrebbe adattato ai correnti tempi la Costituzione del 1812 – Rescriveva il Luogotenente nel giorno appresso (20): che aveva finalmente conosciute le intenzioni del popolo Siciliano, e che tosto sottometterehbele a Sua Maestà per quelle determinazioni che crederebbe. Il Pretore rispondea aver comunicato il foglio dell’E. S. al Comitato, il quale insisteva nelle già manifestate idee. Infatti fu spedita una Fregata a Vapore per a Napoli, messaggiera delle siciliane sorti.

Se non che, le pacifiche trattative non aveano punto nulla intiepidito l’ardore della ribellione. Stabiliti otto quartieri militari in tutta la Città; un quartiere generale alla Fieravecchia; una direzione di artiglieria per somministrare le munizioni;

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un uffizio risguardante il servizio marittimo; un regolamento provvisorio per le squadre. Diviso il Comitato Generale in due sezioni, delle quali una alla difesa, e l’altra all’Amministrazione intesa.

Gli armati non si rimanevano inoperosi: in sul cadere del giorno 21 dal rispettato e pacifico asilo di S. Elisabetta, formante cantonata con l’Ospedale Civico nel quale dopo scacciale le monache si era tesa un’ imboscata, uscivan fucilate ai danni degli avamposti del Real Palazzo, alle quali vigorosamente risposero i soldati, e dopo smantellata la porta del Parlatorio a colpi di cannone, una compagnia di Cacciatori l’occupò. fuoco in breve finì.

Lo sgombero del battaglione dalla Villa Filippini avea, come si è cennato più innanzi, divisi i due corpi di armata napoletani, e per la distruzione del telegrafo di Monte Pellegrino si era interrotta ogni segnalazione, sì che quando occorreva una comunicazione abbisognava spedire un battaglione per la via fuori le mura. Infine dopo varie ricerche si arrivava a «inalberare un telegrafo ad un’ ala sul loggiato coperto di Portauova, il quale con quello del Castelluccio del Molo corrispondeva.

Intanto il Magnanimo Re nel santo scopo di spegnere la guerra, mandava come iride di pace le concessioni che la sua saggezza e i tempi, e lo stato politico di Europa permettevano, di cui facevan parte una generosa amnistia,1′ abolizione della promiscuità, la scelta veramente pregevole di S. A. R. e I. il Conte di Aquila a Luogotenente dell’Isola. Nel far del giorno 22 si pubblicarono i Regii Decreti, dalla piùpparte si gridava pace; un dolce fremito di pacificazione toccava tutti i cuori delle milizie; e parean soddisfatta!c palermitane brame. Fallaci apparenze, lusinghevoli credenze! Il linguaggio delle passioni non era muto; coloro che piaggiavano i popolani eran tuttavia viventi; i fatali stranieri non ancora allontanati. Perlocché le regie concessioni si rifiutavano, e baldanzosamente si ritornava al suono della Costituzione.

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Il Maresciallo Desanget nello scopo di comporre la faccenda mandava due Uffiziali al Comitato Generale, premurandoli a sospender le ostilità, e contentarsi di quelle disposizioni. Rispondea il Comitato, aver avuto simili proposte dal Luogotenente, ribadire quelle stesse idee. Facea novelle premure il Maresciallo perché gli atti ostili cessassero, e il Comitato si rendesse a bordo del Gladiatore, Vascello Inglese ancorato nella palermitana rada, per vedere di aprire un’ adito alla pace. Pacca sentire il Comitato che si rimarrebbero dalle ostilità nel solo caso in cui si cedessero le posizioni occupate dalle truppe; e che le sorti della Sicilia doveano esser decise dal nazionale parlamento. Disconcluso rimancasi il Maresciallo. A tanta baldanza non altra risposta era opportuna, che quella delle armi; ma le armi non si adoperarono contro coloro che le armi adoperavano, e di sangue, di eccidii, e di ruine la siciliana metropoli empievano.

Respinta ogni via di conciliazione, gl’insorti a guerresche fazioni cotidianamente intendevano. Ai declinar del giorno 22 il quartiere del Noviziato fu l’obbietto degli assalti. Bruciarono la porta del gesuitico tempio che col quartiere, una volta noviziato dei gesuiti, comunicava; scardinarono la porta principale; un doppio assalto commisero; al quale la guarnigione con massimo furore ostava. Videro le sacre mura di Dio le faci, il ferro, il sangue, le morti; i reconditi e quieti recessi da grida furibonde, da lamenti di feriti, da accenti di agonie profanati. Gli assalitori ormai validamente percossi, laceri, sanguinosi e menomati andavano in rotta. Il prode distaccamento in possesso del contrastato luogo. Tornava il giorno tornavano i furori. Più numeroso stuolo andava alla pugna. Resistettero i soldati; tennero fino a sera il quartiere; ma ormai prevedendo qualche sinistro nel terzo giorno, deliberarono di abbandonarlo. Era alta la notte, pieno il bujo, stemperata la piova, gelido l’aere, quando dal Palazzo Reale si muovevano dei carri da trasporto, convojati da fanti: arriva

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conducendo le napolitano famiglie che nel pericoloso luogo stanziavano, facean ritorno silenti in mezzo al fracassio della rea notte, e nel palazzo sani e salvi rientravano. Sopraggiunta la terza luce givano a nuovo assalto i siciliani, ma risposti d, al silenzio, irruppero nel vuoto edifizio di loro sangue tinto, ed a sacco e a ruba il posero. Indi fattisi alle finestre più alte di quelli si misero a trarre furiosamente si come anche traevano dal vicino Palazzo Guccia su i Bastioni del Real Palazzo, sul Papireto, e sul Quartiere di S. Giacomo; ma l’artiglieria di Portanova e del Papireto quel furore con opportuni colpi ammorzò.

La Gendarmeria, che aveva tanto eroicamente difeso il suo quartiere contro 1’assalto dei ribelli verso le 2 p. m. del dì 24 fu obbligata ad uscirne; poiché il fuoco appresovi da quelli con materie bituminose nella tettoja erasi dilatato, e minacciava di arder tutto. Le appaurite famiglie con la Gendarmeria dal pericoloso luogo si ritraevano, e nelle Finanze si ricoveravano.

I siciliani, dopo occupati il Noviziato, il quartiere di S. Zita e della Gendarmeria, volsero le rannate forze contro dell’Ospedale Civile. Un nembo di palle imperversava su quell’edifizio; sì che crivellate o fracassate le finestre, i difensori che se n’ eran fatto schermo, male potean reggere; epperò curavano di aprire delle feritoje, ed in tal mentre i ribelli, assalita e schiantata la porta, s’introdussero e misero a fuoco un andito di legname; i soldati scaricate le armi ai loro danni, si ritraevano in altra parte dell’edifizio. Se non che l’attacco alla porta era finto, il vero si effettuiva da un muro di un corridojo unito per mezzo di un arco alla Infermeria de Cappuccini; e già si stava forando il muro quando addatisine i soldati, vi traevano a furia, ma dal fumo che dall’appreso fuoco colà penetrava furono astretti a indietreggiare, e quindi a ritirarsi nel Palazzo Reale in mezzo ad una impetuosa e fitta moltitudine di palle che dai circostanti edifizii grandinavano.

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Impertanto l’incendio che dapprima quasi inosservato era, di breve si dilatava, si accresceva, s’ingigantiva, si rendeva impetuoso; gli sventurati infermi ormai in grave pericolo versavano. Fitti e neri globi di puzzolente fumo ammorbavano i corridoi, e l’aere contaminavano, rendendolo grave al respiro ed alla vista: guizzavan le voraci fiamme in mezzo a quella buja nebbia, ogni cosa all’estrema ruina si appressava. Gl’infermi ormai vicini a tanto infortunio, e senza speme di umano aiuto fra uomini che pensavano a contristare non a soccorrer l’umanità, erano oltre ogni credere desolati. L’istinto invigoriva a taluni le grame ed affralite membra, ed a cercar salute in altri punti li traeva. Avresti veduto tutti dal volto squallido ed esterrefatto, e dagli occhi molli di pianto variamente alla loro salvezza intendere. Gli uni chiedere pietà né indarno ai soldati, nei quali l’amore dell’altrui vita più che la propria potendo, si recavano sulle spalle i morenti o gli storpii, ed in luoghi più sicuri li trasportavano: gli altri carpone, o brancolanti pian piano si strascinavan fuori dell’imminente periglio; taluni più vigorosi davano aiuto ai più deboli: chi smarrito di mente, chi svenuto. Pianti, querimonie, strida, lamenti, scrocidar di fiamme, fracasso di moschetteria, nembi di fumo, incendio distruttore, ruine estreme reser tristo e memorando l’assalto di un edificio cui la carità dei nostri Maggiori destinava a pietoso fine, e che i presenti nella più spaventevole sciagura precipitavano. Oh! quanti vi furono che dalle ire dei morbi scampati, nell’incendio dopo cruda vicenda di timori e di speranze, esalarono la vita! Il luogo istesso che lenimento ai dolori, o fine ai mali. avea dato, divenne per essi voragine di morte!

Il monistero di S. Elisabetta, dopo breve pugna, cadde in mano degl’insorti in quel medesimo dì; sì che i militari tutte le posizioni andavan perdendo; e lo stesso Real Palazzo, sedia del Luogotenente, fra non molto seguiva la stessa sorte.

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Già per noi si è cennato in qual modo ai siciliani cuocesse il conquisto del palazzo reale, e come vi si adoperassero in ogni momento, ora soggiungerò, che recatisi ormai in potestà quasi tutti gli edifìci! che lo ricingono, così frequentemente saettavano con la fucileria, e fulminavano coi cannoni, che ormai il largo che innanzi a quello si distende erasi renduto molto periglioso e mortale. Vero è che i bastioni che lo guarentiscono sovente sfolgoravano, ma poco danno ai nascosti nemici apportavano.

Perlocché, volgendo sempre in peggio lo stato delle cose, il Luogotenente de Majo in sull’annottare del giorno 25 raunava un Consiglio di Generali affin di prendere una determinazione opportuna. Andava egli esponendo le ruinose circostanze, i fatali avvenimenti, la stremità dei viveri e delle munizioni, la moltitudine delle famiglie stazianti nel palazzo, il sorprendente progresso della rivoluzione, l’aumento dei ribelli, il favore straniero che confortatali, i disagi delle milizie, la difficoltà di sopportarne ulteriormente, la poca o nessuna speranza dì soccorso dal quartiere generale dei Quattroventi, le istruzioni avute, e per ultimo concludeva, che sarebbe di parere, che tolto ogni indugio nella stessa notte abbandonassero il palazzo reale e i vicini quartieri, e con tutte le milizie presso il Maresciallo Desauget si portassero.

Intese il Consiglio le proposte cose, e dopo qualche osservazione, si accostarono tutti alla conclusione del Luogotenente, sì ché fu fermato, che si chiodassero i cannoni di posizione, tutti i feriti non atti a marciare, le famiglie dei militari, ed una piccola partita di fanti si lasciassero, il Maggiore Ascenso palermitano ne rimarrebbe al comando con le più ampie facoltà di capitolare; e finalmente che si battessero le vie di Colonnarotta e dell’Olivuzza.

Preparatosi tutto alla partenza, la prefissa ora sì aspettava. Ma per via un’altissima sciagura gli attendea; imperocché eran soliti i ribelli di porsi in agguato all’Olivuzza dove la strada corre fra due alte e lunghe mora, e bersagliare il battaglione

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che a quando a quando dal quartiere generale si menava a palazzo reale, latore di viveri munizioni ed ordini. Anzi trapelata non si sa come la partenza, molte altre squadre erano accorse nel fatai luogo, o si tenean parate ad accorrervi.

Era ormai al suo colmo la notte dei 25 Gennajo, nebuloso e profondamente buio il ciclo, crudo ed umido l’aero, per fanghi rigagagnoli e gore impraticabili lo strade, quando si mosse il Luogotenente con una lunga e numerosa carovana di soldati, e di famiglie napolitane. Davano l’addio, che per molti era l’estremo, alle regie mura preservatrici, camminavano qui e colà incespicando con l’incerto pié, agitati dalla paura, percossi dalle intemperie, a malo stento si tiravano innanzi, nella murata via dell’Olivuzza erano ormai giunti, quando si udirono alquante fucilate, le quali ratto si moltiplicarono, si resero fitte, crescenti tempestose; tutta la fuggente moltitudine erano bersaglio. Nessuno si pensi che siasi dato al mondo caso più lacrimevole e miserando di quello. Grida strappate dallo spavento, o dalle ferite, gemiti di fanciulli, strida di donne, lamenti di agonizzanti, accenti di sdegno e di pietà, fracassìo di fucilate, il bujo e mortai luogo irraggiato dalla rapida e sinistra luce degli spari: pagani e militari, uomini e donne, giovani o vecchi, bambini e ragazzi, sani ed infermi, uomini ed animali, tutti nel funesto agguato travolti.

Vide la rea notte atti di crudeltà, di carità no vide, la quale per un benigno risguardo della Provvidenza, mai non si spegno nei cuori umani da gravi disgrazie oppressi. I compagni sani, i feriti o fracassati sorreggevano, i più offesi sui carri posavano; bastava il lamento per aver amico e pronto aiuto: fur viste pietose madri fare scudo de’ propri corpi a’ propri figli; o i corpicciuli degli estinti lor bimbi tuttavia al seno stringere, chiamarli lacrimando, popparli, né abbandonarli che con forza.

Fra tanto dolore e scompiglio cotanto viaggiava la contristata, sanguinosa, e lacera moltitudine,

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ed ai primi forieri dei primi albori al desiderato Quattroventi pervennero. Molti appena giunti spirarono la vita, moltissimi per pianti e per angosce travagliavano, tutti della orrenda catastrofe grave memoria serbarono.

Le notturne tenebre aveano in gran parte involto nel loro grembo quella grave e grande sciagura, ma assai desolante e commiserevole apparve lo stato della percorsa via all’apparire della diurna luce. Cadaveri di vario sesso, età, e condizione in varia attitudine prostesi; animali da tiro spenti; armi, cannoni, vesti ed altre masserizie, eziandio preziose, formare tristo ingombro; le mura sgretolate pel furioso trarre; gore e fanghi per sangue umano rossi.

Il Luogotenente arrivato appena al quartier generale, posava il comando delle armi di Sicilia nelle mani del Maresciallo Desauget, ed imbarcavasi sur un vapore della squadra; ed il Generale Vial partiva tosto per a Napoli.

Fin dalla prima luce del giorno 26 sventolava!! cento vessilli tricolori sull’antica e temuta stanza de’ Re di Sicilia; imperciocché corsa per tempissimo la nuova dei casi orrendi dell’Olivuzza, si erano apprestate le ribollenti turbe all’assalto dei Palazzo; ma invitate dal Maggiore Ascenso per patteggiarne la resa, d’ un tratto furiosamente v’irruppero, tutto mettendo a sacco e a ruba: squarciati, o strappati i parati, vuotati e scassinati gli armatiti, tratti o lacerati i quadri, i mobili involati, i pavimenti guasti, i muri sgretolati, a stento salvata dal vandalismo la specola; devastata la casa del Generale Vial ed in mucchio di ruine ridotta: e tosto si venne in sul demolire gli odiati bastioni di tante loro ferite, e di tante loro morti cagione; le superstite genti prigioniere menarono.

Pervenuti a tal modo al possesso del Real Palazzo, diressero i palermitani l’animo e le forze alle Finanze. Intimata la resa, il Comandante di quell’edilìzio rispondea, ché si volgessero al Comandante del Forte di Castellammare,

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Si diressero a costui, e mentre la brulicante moltitudine stara in aspettazione della risposta, buccinarono artatamente voci di pace, prendevano mi attitudine tranquilla, ed a poco a poco appressatisi, furon subito sulla spensierata ed ingannata guarnigione, e disarmatala e fattala prigioniera, si recarono in mano il possesso di quella contrastata posizione.

Volgeva al suo termine il 26 Gennajo, e già tutta Palermo era in potestà degl’insorti, null’altro ai Regii rimanea che il Forte di Castellammare, ed il Quartier generale dei Quattroventi con le sue adiacenze. Nel giorno appresso accorsero con più entusiasmo e sicurezza le siciliane squadre, e tutti gli avamposti dello esercito attaccarono. Occupato fu il Borgo, e tutto all’intorno investito. Resistettero le truppe, e con grave danno de’ nemici combatterono. Intanto il Maresciallo Desauget, avvalendosi di altre istruzioni venutegli da Napoli, rivolse il pensiero ad una ritirata, sicché per mezzo del Comandante del Vascello Inglese mandava dicendo al Comitato, che egli s’imbarcherebbe, e che punto non molesterebbe la città, so i suoi non fossero molestati. Rispondeva il baldanzoso e scaltro Comitato: la causa che Palermo difendeva, non esser causa di un sol punto, ma di tutto il Regno delle due Sicilie: senza fallo andrebbe egli con le sue schiere a percuotere altri paesi sorti a libertà: del rimanente volendo anche condiscendere a frenar l’impeto palermitano, esser necessario che si assentisse alle seguenti cose. 1. Che il Maresciallo desse la libertà agli undici palermitani imprigionati il giorno dieci: 2. Si mettesser tosto alla custodia delle prigioni le guardie cittadine: 3. Si cedesse il Forte di Castellammare.

Avuta questa strana ed arrogante risposta, il Maresciallo ben si avvide, che bisognava spingersi ai proprii disegni con la forza; sì che con un ordine di quello stesso giorno annunciava che le Truppe si sarebbero imbarcate. Dopo compiuta. una batteria di montagna; rinforzata la guarnigione

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chiodate le artiglierie; distrutto ciò che non si potea portare; inutilizzati il Castelluccio del Molo e la Batteria della Lanterna, raggranellavasi in massa tutto l’Esercito nel Largo della Consolazione, e nel più alto della notte, silenzioso spingevasi nella via che per S. Paolo e Baida mena a Bocca di Falco. Quivi giunto al far dell’alba addaronsene i villanzoni, e passatone avviso ai loro confratelli, ratto occuparono a calca le soprastanti giogaje, balestrando a tutta furia un turbine di palle. Molte ferite, molte morti accaddevano, moltissimo sdegno nella percossa e paziente truppa sorgeva. La scena dell’Olivuzza fra quelle inospitali balze si riproducea, ma più orrenda perché in aperto giorno più sicuri i colpi, più sconfortante la vista.

Fra morti, ferite, lamenti, ire, e scompigli attraversava quella fatale stretta l’insanguinato e lacero Esercito e nella pianura giungeva, donde proseguiva il cammino pel piani sovrastanti ai Torrazzi; passava in seguito il ponte della Grazia, si divallava nei piani di S. Maria e Gesù e S. Ciro, ascendeva le alture; e in sull’annottare giungeva svigorito, gramo, e logoro nei monti che torreggiano su Villa Abbate.

Non avevan mancato le feroci turbe di tirare sulle defatigate milizie, sebbene con poco danno perché di lontano. A S. Ciro tuonava il cannone dei ribelli, ma senza positivi risultamenti, e di audacia in audacia progredendo, andarono ad attendere le regie schiere a Villa Abbate per la strada consolare. Quivi appressatisi consolavano il giusto sdegno i soldati, poiché furibondi irruppero sui nemici, ogni ostacolo rovesciarono, le audaci torme rotte e sanguinose nei vicini monti si dileguavano, abbandonando cannoni ed armi. Villa Abbate qui e colà arsa, saccheggiata, e rossa di sangue, mostrava alla sollevata Palermo quali crudi casi sarebberle toccati ove le truppe in cambio di esser tenute in una fatale inazione si fossero slanciate alla guerra.

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Nel mattino del dì venturo (29) l’Oste Regia confortatasi alquanto, dirigeva i suoi passi per le montagne di Altavilla, mettendo in pratica il prudente consiglio, che fatalmente era sfuggito per lo innanzi, di faro occupare dall’antiguardo le posizioni dalle quali i sollevati potean trarre; per tal modo si pose un termine alla loro efferatezza. Al cadere del giorno si pervenne in Altavilla e quivi lo stanco Esercito si riposava fra la pace di quel paese, il quale rispettato in tutte le sue cose era documento della militare giustizia ed umanità.

Già nelle acque di Solanto fumigavan le navi a vapore, delle quali una messaggiera di ordini precisi al Maresciallo di render tutte le sue schiere in Napoli. Si appressavano al solantese lido i laceri ed Militi i soldati, e man. mano sui desiderati bastimenti, confortati dal pensiero di riveder la patria, salivano. Il mare con la sua calma, il cielo col suo sereno, le pietose mire secondavano; soltanto le ribalde torme i buoni eventi contrastar volevano, accingendosi a travagliare l’imbarco; ma occupati i luoghi più opportuni da Cavalieri e da Fanti, e sfolgorati dalle navali artiglierie il crudele proponimento non si ebbe effetto.

Imbarcavansi pertanto le armi, la truppa s’ imbarcava, sul naviglio i cavalli non capivano, sì che fu ordinato di uccidergli; ma a tutti i cavalieri, eccetto pochi animi crudi, non abbastò il cuore di spegnere quei generosi animali coi quali tanti pericoli, e tanta parte di lor vita avean passato. Toglievanli le imbardature e liberi gli lasciavano; ma essi, vedendo allontanare la flotta, nelle onde si lanciavano, altissimi ed iterati nitriti metteano, quasi per chiamare, piangere, o dare l’estremo addio ai loro padroni, indi assordato l’aere indarno, stanchi ritornavano all’ingrato lido, e nelle campagne furibondi erravano.

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La qual circostanza, sebbene di poca importanza storica, appositamente ho notato; poiché in un tempo in cui l’umanità con atti crudeli si straziava, non lieve conforto è vedere negli animali quello affetto che negli uomini per la reità de’ tempi mancava. Nel mattino del 31 Gennajo la flotta abbandonava le nemiche sponde. continua……

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa2s/02_Storia_di_Ferdinando_II_Regno_due_Sicilie_1830_1850_libro_I_II_II_Giovanni_Pagano_2011.html#PALERMO

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