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STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 LIBRO SECONDO (VII)

Posted by on Lug 1, 2024

STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 LIBRO SECONDO (VII)

Dovremmo smettere di definire certi storici “borbonici” e chiamarli semplicemente “preunitari” o “napolitani” nel nostro caso. Non si  capisce per quale motivo il Colletta che non scrive certo un trattato di obiettività scientifica sia considerato uno storico e i napolitani che scrissero al tempo di Ferdinando II siano considerati dei lacchè di regime.

Gli esuli pagati profumatamente in quel di Torino dal conte di Cavour per scrivere le loro ricostruzioni storiche antiborboniche che cos’erano? I depositari  della verità rivelata?

Buona lettura e soffermatevi sul profluvio veramente impressionante di innovazioni normative operate dal Re Ferdinando II

CAPITOLO VII.

IL MINISTERO DEL 3 APRILE.

Sommario

Mirabile successione degli avvenimenti iu Europa, pel quali le prétenzioni montano. Ottimi e sterili consigli dei Moderati. Mire vituperevoli di parecchi novatori. Caduta del Ministero Serracapriola. Programma fraudolento rifiutato dal Re. Agitazioni. Il Ministero Troja alle redini degli affari emette un programma accomodato ai tempi. Sembrano chetati gli animi. Spedizione di un Esercito e di una Flotta per la guerra di Lombardia. Il Pontificio governo repugnante al passaggio delle napolitano truppe pei suoi Stati, infine con riserva lo consente. Partenza dell’armata. Lega Italiana, accesamente voluta e cominciata, rimasta disconclusa per le sbrigliate passioni, e pei tumulti di Roma seguiti ad un memorando decorso del Pontefice. Diverse disposizioni del Ministero.

Mentre in Sicilia cotanto gravi fatti accadevano le altre regioni d’Italia e di Europa non quietavano, ma quasi scommosse da comune potenza tutte andavano in rumore ed a socquadro: assai fére voglie, assai dolori, assai lacerazioni in ogni parte accadevano; e sì come da contagio nasce contagio, e da putridume putridume, così la rivoluzione di un regno in un’ altro ripercuotevasi, talliva, si rendea gigante, e da questo in altri ed altri la pestifera contaminazione avventava. A malo stento si possono misurar col pensiero la celerità e la gagliardia coi quali in quell’anno il rivolgimento corse e radicò.

La Francia traboccata nel baratro della repubblica, violentemente si dimenava nella infame moda delle passioni e delle furie settarie, per le quali fu inondata di cittadino sangue,

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e preparata la tomba là medesimo dove la culla si era preparata alla repubblica, e per quelle stesse mani che a crearla e innalzarla si erano adoperate.

L’imperio Austriaco scosso dalle fondamenta, parca vicino all’ultima ruina. Vienna fra rumori e sangue, l’Ungheria in armi si apparecchiava a battaglie memorande; Polonia fra gravi tumulti rialzava l’antico capo; la Prussia tutta scommossa, Berlino istessa in socquadro; l’Italia intiera dall’Alpi all’estremo Lilibeo sovvertita; non una delle sue cento e venerande città in calma: Roma dalle riforme, alla costituzione, e da questa alla repubblica sospinta, e contro di quel medesimo levata, che di benefiche largizioni aveala colmata. La Lombardia armata mano insorge, combatte, si emancipa dall’Austria, ed un esercito piemontese calato nei suoi campi, ed altri armati che da ogni parte si muovono, mirano a sostenerla e francarla. Venezia dopo breve pugna inaugura il temuto ed antico Leone; il Piemonte agitato gagliardamente aspira all’onore di vedere il suo Re ricinto della corona di ferro; la Toscana rivoltata anch’essa vide il buon Leopoldo, Principe Umanissimo, esulare; Parma, Lucca, Modena nell’orrendo girone travolti.

Per tali novità intervenne appunto, che appo noi gli animi dei liberali si aprissero a nuovi desiderii; cosicché maggiori larghezze si vennero man mano chiedendo alla costituzione che in mezzo a vibrati e fragorosi applausi, ed a feste ricordevoli era stata ricevuta; e segnatamente si pretendeva che la sola Camera dei Deputati dovesse esistere, che il censo elettorale dovesse esser minorato, che lo Statuto fosse riformato dalla medesima, ed altre cose di simil conio le quali addentavano sostanzialmente lo Statuto, ed erano in aperta opposizione alle sovrane prerogative.

Siffatto intemperanze per altro eran venute in uggia ai Moderati, i quali meno abbacinati dalle passioni, e schivi delle sregolate libertà, bandivano moderatezza temperanza concordia, ubbidienza alle leggi; ed in esse additavano il vero tramite del nostro progresso.

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Ma queste voci eran gittate al vento poiché male si ascoltan le parole che propugnan le passioni.

Pertanto doleva il vedere, che fra i sinceri amatori della libertà si tramescolasse una genia di falsi passionati, i quali rotti ad ogni vizio, careggiavano la libertà per farne puntello di mire interessate, affaccendavansi nei circoli per conseguire avanzamenti o impieghi, assordavano i crocchi con garrule ciance per mero egoismo, mettevano a rumore i trivii per motivi indiretti o colpevoli, molte altre cose facevano con le quali in cambio di costruire e consolidare demolivano la patria. E ad accrescere le comuni ansietà non mancava il soffio repubblicano, che andava sordamente, ma con gagliardia spirando di qua e di là. In mezzo a tale e tanto contrasto di opinioni e di cose gl’impiegati erano spinti o divelti dai loro posti, secondo che alle passioni garbava, si metteano innanzi le più strane pretenzioni, e i ministeri naufragavano.

Già il Ministero Serracapriola, che a malo stento altra volta aveva cessato le ire dei partiti, oggimai furiosamente urtato e riurtato, affin cadde. Innumerevoli furon le accuse che esistendo gli avventarono, innumerevoli quelle che caduto si ebbe. Ned eravene penuria contro di un Consesso che tenendosi al prescritto della Costituzione non potea andare a sangue di coloro, che avean rivolte le mire al reggimento repubblicano; i quali pertanto designavano un programma del seguente tenore come norma di determinati Ministri.

«1.° Pieni e sovrani poteri alla Camera dei Deputati per riformare lo Statuto sopra più larghe basi. Quindi sospensione della Camera dei Pari».

«.2.° Riforma della legge elettorale. I Deputati saranno nominati dagli elettori, e gli elettori dai Cittadini. Chiunque godesse dei dritti civili, potrebbe essere elettore ed eligibile».

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«3.° Si spedissero Commissarii Ordinatori per le provincie con incarico speciale di sciogliere lo attuali amministrazioni comunali, distrettuali, provinciali, facendo procedere a nuove nomine dalle assemblee popolari, che sotto l’antica monarchia si chiamavano parlamenti».

«4.° Si spedissero tre incaricati per la confederazione italiana».

«5.° Riforma del personale civile, giudiziario, e militare».

«6.° Pronta partenza delle truppe di linea per la Lombardia».

«7.° I Forti in mano della Guardia Nazionale».

Erano designati Ministri, Guglielmo Pepe Presidenza e Guerra, Saliceti Interno, Conforti Grazia e Giustizia ed Ecclesiastico, Dragonetti Agricoltura e Commercio, Poerio Istruzione Pubblica, Uberti Lavori Pubblici, Savarese Finanze, Cariati Affari Esteri, Lieto Direzione di Polizia.

Questo programma e questi Ministri, eccettuato qualcuno, non poteano non indurre nell’animo del Re grandi sospetti e grandissimi timori al pubblico i imperciocché rinchiudeva elementi di rivoltare. Qualunque programma non avrebbe dovuto giammai inchiuder condizioni avverse alla Legge Costituzionale stabilita e riconosciuta; né offendere menomamente le prerogative del Sovrano. Per la qual cosa bene e sapientemente comportandosi il Re, non ritardava un solo istante, e rifiutava programma e ministri.

Il quale rifiutò mise in orgasmo il partito che già avea fatto fondamento sul nuovo ministero e la sua fede politica: folti assembramenti qui e colà per le strade si agglomeravano; voci strane, minacce, apparecchi a tumulti.. Pertanto riuscì a Carlo Troja di formare un Ministero ed un programma accomodato al tempo, il quale a vero dire si scostava moltissimo dalle linee stabilite nella costituzione, ciò nulla ostante il Re stretto da necessità si fece ad accettarlo. Quest’esso era il programma.

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«1. Determinare il giorno della elezione dei Deputati al più presto possibile secondo la presente legge elettorale provvisoria, ma con l’allargamento, che si possono eleggere Deputati gli uomini forniti di capacità, e ciò indipendentemente dal censo che ogni altro Deputato deve provare, rimanendo ribassato il censo dei Deputati, ed eguagliato a quello degli eiettori».

«2. Elezioni circondariali dirette dei Deputati pel mi mero totale di ciascuna provincia, e spoglio dei voti presso la commissione centrale di scrutinio nel capoluogo della provincia. Il censo degli eligibili, verrà ridotto a quello degli elettori, dichiarandosi dippiù elettori ed eligibili tutte le capacità».

«3. Per capacità s’intende l’esercizio lodevole ed attuale delle professioni facoltative, del commercio, delle scienze, lettere, e belle arti, e della industria».

«4. Per questa prima volta, volendo il Re raccogliere dal voto pubblico i nomi di coloro che si stimeranno più degni di far parte della Camera dei Pari, commetto a ciascuno collegio elettorale di presentare un notamento di quelli che si stimeranno tali nelle categorie indicate nello Statuto, e ciò ad oggetto di scegliere per ora sulle dette note il numero di 50 Pari».

«5. Aperto che sarà il parlamento, le due camere di accordo col Re avranno facoltà di svolgere lo statuto, massimamente in ciò che riguarda la Camera dei Pari».

«6. Istantanea spedizione di Agenti diplomatici per stringersi francamente in lega con gli altri Stati d’Italia».

«7. Mettere a disposizione della lega italiana un grosso contingente di truppe, che tostamente parta dalla nostra frontiera, ed intanto far partire subito un reggimento per la via di mare».

«8. Le bandiere reali verranno circondate dai colori italiani, sì che formino un sol corpo di bandiere».

«9. Continuare con premura l’Armamento delle Guardie Nazionali di tutto il Regno».

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«10. Invio di Legati organizzatori nelle provincie, muniti d’istruzioni che verranno fornite dal Ministero dello Interno, ovvero collazione di simili poteri agl’Intendenti delle provincie».

Erano nominati Ministri Carlo Troja alla Presidenza, e provvisoriamente alla Pubblica Istruzione; il Colonnello del Genio degli Uberti ai Lavori Pubblici; il Marchese Dragonetti agli Affari Ecclesiastici; Giovanni Vignale al Ministero di Grazia e Giustizia; e interinamente all’Interno; il Conte Ferretti alle Finanze, e temporaneamente all’Agricoltura e Commercio; il Brigadiere del Giudice alla Guerra e Marina.

Dopo pochi giorni si compiva il Ministero con l’avvocato Avossa, al quale di breve successe l’avvocato Conforti all’Interno; il prof. Scialoia all’Agricoltura e Commercio; Paolo Ruggiero agli Affari Ecclesiastici; o Paolo Emilio Imbriani al Ministero della Pubblica Istruzione.

Un solo istante non pretermettea il novello Ministero, e le cose statuite nel programma mandava ad effetto. Primieramente facea gran calca per la spedizione delle truppe sui campi lombardi, dove si dovean decidere con le armi le austriache o le italiane sorti; massime perché parea indecoroso per Napoli stare impigrita in un momento in cui Torino, Roma, Firenze e le altre italiche città aveano già spinte le proprie legioni in aiuto dei Lombardi.

In Napoli come si è cennato più innanzi, dietro parecchie rimostranze e tumulti, si erano cominciati a muovere per quel fine; e già sin dal Marzo una schiera di giovani che avean mostrato desio di correre in Lombardia, erano stati provveduti di armi, e mandati a Livorno, guidati da un Bellini, e rinfocolati dalla Principessa Belgiojosa, milanese, caldissima nemica della occupazione austriaca. Si era eziandio instituita una commissione volta a

Partiva pure per Livorno il 2.° battaglione del 10.° di Linea, una con molti volontarii,

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soprannomati crociati, per una croce di panno rosso cucita sul petto sinistro del loro abito.

Però queste partite eran troppo scarse ai concetti, ed allo scopo; sì che il Ministero avea volto il pensiero alla spedizione di un gagliardo Corpo d’Armata che dovrebbe operare sul teatro della guerra, e di un fiorito naviglio che terrebbe in rispetto le adriatiche sponde. Or mentre si apparecchiavano le napoletane armi s’intavolarono le trattative col pontificio Governo per lo passaggio di esse, le quali, repugnante il Papa, andavan con molta lentezza.

Il governo romano desiderava, che le napolitane truppe dai suoi Stati non si dirigessero spiccatamente in Lombardia, ma sì vero altra via prendessero; poiché cuocevagli di non chiarirsi apertamente ostile all’Austria, ponendo sugli Stati di questa un’armata nemica. Vero è che un nervo di pontificie truppe aveva oltrepassato il Po, ma esso tollerava la guerra perché non potea impedirla, ed era alieno dal manifestare con atti pubblici che l’avesse voluta; e ritenea le mosse delle sue truppe come una violenza recata alla sua volontà.

Oltredicché, il pontificio governo si teneva tentennante, perché si era susurrato, o sospettato, che il napolitano esercito facesse base di operazioni Ancona, e ne andasse per lo mezzo la occupazione di questa Città.

Ed il S. Padre inoltre nutriva il giusto pensiero, che come Vicario di G. C. e come Padre dei Fedeli, dovea essere alieno da qualunque dichiarazione di guerra all’Austria, e disapprovava la condotta del Generale Durando, che avea spinto le sue truppe sugli austriaci domini; né egli non vedeva il pericolo di uno scisma austriaco dalla S. Sede, la propagatesi eresia protestante nella Italia, le quali cose non eran certo da pretermettere innanzi al conquisto del Lombardo-Veneto; perché le cose spirituali

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Intanto nel mattino del 27 Aprile si tenne Consiglio in Napoli con l’intervento di molti generali, in casa dei Tenenti Generali Pepe, e lungamente si ventilò, se il nostro corpo di spedizione potesse schivare il pontificio passaggio, diriggendosi a Venezia per via di mare; ma si riconobbe impraticabile, si perché era impossibile, che i Legni potessero portare tanta cavalleria ed artiglieria; sì perché lo sbarco non poteasi fare che nei luoghi in cui già dicevasi giunto il Corpo d’Armata del generale Nugent, il quale per fermo lo avrebbe impedito, o reso malagevole con ogni maniera di sforzo. Pensava adunque il Consiglio, che messa dall’un de’ lati Venezia, il nostro esercito dovesse per al momento spingersi per terra fino alle rive del Po, fermarsi a Bologna, e Ferrara per impedire la invasione dello Stato Pontificio e di Toscana. Infine acconsentiva il pontificio governo al transito delle truppe napolitane, salvando sempre i dritti della Chiesa, e il decoro del Sommo Pontefice e intendeva però di rimanere del tutto passivo, non dubitando che la sua perfetta neutralità riconosciuta da tutte le Potenze, venisse anche in questa circostanza religiosamente rispettata.

Appunto fra quei preparativi era giunto da Milano un Toffetti, mandato da quel governo provvisorio affin di sollecitare l’invio di una flotta nell’Adriatico, diretta ad impedire qualunque tentativo di sbarco di milizie austriache sulla costa orientale d’Italia; e questa premura fa anche convalidata dal Conte di Rignon, inviato straordinario di re Carlo Alberto appo il nostro Governo.

In frattanto si muovevano pel designato luogo le milizie ai 27 Aprile, composte da due divisioni, delle quali la prima ai cenni del generale Conte Statella risultava da otto battaglioni di fanteria, una batteria di campagna, due compagnie di zappatori, e le corrispondenti ambulanze; la seconda capitanata dal brigadiere Nicoletti, si componeva

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La cavalleria sotto gli ordini del Colonnello Marcantonio Colonna, risultante da due reggimenti di Dragoni, ed uno di Lancieri, era come riserva. La flotta nella quale si noveravano cinque fregate a vapore, due a vela, ed una corvetta, era pronta a salpare sotto il Comando del RetroAmmiraglio Barone de Cosa. Tutte queste genti di mare e di terra obbedivano al Tenente Generale D. Guglielmo Pepe, il quale dopo ben 27 anni di esilio, ritornava nella politica scena, e serbavanlo gli eventi ad uscire in campo contro di quell’oste istessa per la quale avea toccata memoranda sconfitta in Rieti.

Preparati i combattenti, preparavasi ancora un piano di guerra; cosicché una giunta di Generali composta dal Ministro della Guerra, dal Comandante Supremo di quell’armata, dal Maresciallo Labrano, e dai Brigadieri Scala e Zizzi si riuniva per discutere e preparare un piano di operazioni militari.

Partivano ormai pel designato luogo gli Armati, per le vie degli Abruzzi, dirigendosi alle Marche, ed a battaglioni si muovevano poiché così era stato consentito il passaggio dal Governo Pontificio. Scioglieva eziandio dal nostro porto il preparato naviglio portando la divisione Nicoletti volgendo le prue per l’Adriatico. Ma si dovea dare anche adesso un argomento della Sicula frenesia; imperciocché imboccate appena nel Faro le prime navi, cominciossi dai forti siciliani un furioso cannoneggiamento, al quale gagliardamente rispose la passante flotta. Or chi non vede in questo atto passioni frenetiche degne di folli o di barbari? Una flotta che correva in soccorso di coloro coi quali prostendevano aver causa comune, e che si addentrava nell’Adriatico per opporsi a qualche tentativo da parte della minaccevole Austria, e che passava pel Faro amichevolmente dovea essere salutata con gli evviva non mai con le palle.

Ma tale e tanta era la eccedenza di quell’età, che mal vi si potrebbe portare il pensiero senza grave conturbamento, e maraviglia!…

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Mandata a fine questa importante parte del ministeriale programma, rimanea in punta dei desiderii la italica lega; epperò il Ministero Troja si facea a metterla ad effetto. Gioberti avea messo innanzi il concetto federale, Mazzini e i suoi affiliati spingevano lo sguardo al pensiero unitario, il quale abbatterebbe il Principato e sulle sue ruine innalzerebbe la repubblica. Pertanto queste ed altrettali vedute non erano altro che utopie, le quali potevano allignare soltanto nelle menti di coloro, che ragguardavano le cose nella felice solitudine del letterario gabinetto, e fra i lusinghieri campi della immaginazione, non mai nelle menti di quegli altri, che calcolando le cose nel concreto e nei fatti, vedevano mille difficoltà intrinseche ed estrinseche per le quali la lega mai non avrebbe potuto essere attuata.

E primamente (volendo toccare questo argomento di sfuggita) non era chi non vedesse, che non Milano, non Venezia, non Parma, né Modena potevano accedere al Congresso, perché non legalmente costituite; né potea aver dritto di associazione politica un governo che non possedeva la esistenza politica; poiché ogni dritto è sempre posteriore alla esistenza, e se il dritto di associazione era l’esercizio di una facoltà, questo esercizio non poteva essere dove la esistenza mancava, e cheche si fosse detto intorno alla legalità dei fatti eseguiti a nome del così detto popolo, egli era certo, che secondo il Dritto Politico Universale vigente abbisognava che le nuove esistenze politiche, per avere legalità e potere dovessero essere riconosciute dai principali Potentati, i quali giammai si sarebbero calati a tal riconoscimento per non far prevalere il principio di approvare la separazione di una parte di uno Stato, sol perché il popolo o una quota di esso il volesse. E ciò sarebbe valso a Napoli per l’avversa Sicilia, e tacendo di altre nazioni, all’Austria che era minacciata

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In secondo luogo era a considerare che Carlo Alberto Re, non così tosto, né cosi agevolmente si sarebbe accostato alla Lega prima degli eventi diflìnitivi della guerra che andavansi a decidere nei campi lombardi; imperciocché non potea non considerare Egli, che se essi riuscissero avversi alle sue armi, gli Alemanni avrebber dato fondo alla Lega, come ad ogni altro italico progetto, e se favorevoli non avrebbe potuto fare tutto il suo volere, ma dovuto pendere dalla Lega, non solo per trattati che sarebbersi fermati, ma eziandio perché tutta la Italia cispadana avrebbe potuto tenerlo in freno.

Forse anche alienarono l’animo del Sabaudo Re, i settarii che vagheggiavano la utopia di spazzare l’Italia di tutti i troni, e darne a Lui solo il possesso, per indi traboccare anche Lui nel precipizio, ed innalzare il berretto della Cisalpina. E forse a questo scopo si era nominato al trono di Sicilia un Principe di quella Casa Regnante.

Inoltre non si era forse posto mente, che una Italica Unione non avrebbe potuto si facilmente garbare a tutte, o a molte delle principali nazioni, e segnatamente all’Inghilterra, i cui interessi commerciali ne sarebbero andati per lo mezzo. Epperò costei mentre faceva le viste di liberalismo, e dava favore a varii popoli per iscuotere il freno dei Re, protestava, come si è altrove notato, contro l’invio degli armati in Lombardia, ed il passaggio delle truppe per lo Stato Pontificio.

Senza di che non si era molto vagliato, e dirò anche ricordato il municipalismo gigante in Italia, eredato dal funesto trecento, che tennela in brani fra ire cittadine, e straniere avidità; il quale per fermo avrebbe intorbidato il cammino alla trattazione della Lega; e già bene si era affrettata a darne l’esempio la irrequieta Sicilia.

Una grave difficoltà in fine era da ricercare nella stessa sostanza che gl’Innovatori pretendeano dare alla Lega; e dirò come. Tre maniere di federazioni presenta la Storia.

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L’una è quella dei Principi, com’è la Germanica, la quale bene era in uggia ai Novatori, poiché supponea la riunione di tutti i poteri governativi nella persona del Principe, e nata dal rimpasto di un antico Impero feudale, smantellato in tempo delle napoleoniche guerre, sentiva dei principii monarcali, e mal potea servire di norma ad una Lega di popoli liberi del 1848.

La seconda è quella dei Governi, simile alla confederazione Elvetica, ed affermavasi non essere completa, ed offrire moltissime difficoltà nella pratica. I deputati della elvetica Dieta votano in virtù d’istruzioni avute dal Gran Consiglio del Cantone, depositario della piupparte delle attribuzioni governative. Nasce da ciò, che quantunque essi non fossero mandati del solo potere esecutivo, pure non hanno nulla di proprio, e sono obbligati ad ogni nuova quistione chiedere istruzioni ai loro mandatarii. Il che non andava al verso delle innovatici mire.

La terza è la Confederazione degli Stati, il cui esempio è nella Unione Americana; esser questa, dicevasi, la sola che si attagliasse ai presenti italiani.

In queste utopie andavano felicemente delirando i Platonici dei tempi moderni senza considerare punto né poco il Principato Italiano, il quale mai non si sarebbe piegato a cedere una quota del potereesecutivo per le cose riguardanti le materie comuni nella persona di quel Principe che sarebbe prescelto a Capo della Federazione.

Tutte le mentovate difficoltà avrebbero dovuto svagare gli animi dalle trattative di una Lega, la quale inattuabile essendo, sarebbe tornata di sommo disdoro ai Governi Italiani; nondimeno i tempi richiedevano che si fosse condisceso ai nuovi voleri, e si condiscese.

Furono nominati plenipotenziarii al Congresso della Lega Italiana i Signori Gamboa, de Lieto, e Luperano, e a Presidente il Principe di Colobrano. Personaggio, che per gentili virtù, e studii severi e mente versatile, forma onore, e decoro del nostro paese; per la qual cosa bene a ra

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indipendentemente dai suoi Colleghi, e si affidavano a Lui solo la cifra e la corrispondenza.

Nel tempo medesimo il Ministero dava le sue Istruzioni ai Plenipotenziarii, una copia della Convenzione preliminare fatta dai Governi dello Stato Pontificio, di Toscana e Sardegna per la Lega Doganale, ed i pienipoteri per lo Congresso.

Partirono i Plenipotenziarii per a Roma il 17, e vi giunsero il 18 di quell’Aprile. Buccinatosene l’arrivo tutta Roma ne andò a rumore, l’entusiasmo fu grande. Il Governo Pontificio era corrivo alla sollecita riunione del Congresso unicamente per sedare quelle rivolture, apportare dei vantaggi ma senza ledere menomamente i dritti dell’Italiano Principato; la Toscana consentiva; l’astuto Piemonte tergiversava, asserendo non parergli ancora tempo propizio, malgrado la pressa fattagli dal Pontificio Governo mercé l’opera di Monsignor Corboli Bussi, Inviato presso Re Carlo Alberto per queste, ed altre negoziazioni. Il Circolo Romano pertanto voleva, repugnante un solo, che pel momento si stringesse la federazione fra Napoli, Toscana, e Roma, alla quale si accosterebbe in ultimo il Piemonte, affin di gittare il fondamento del grandissimo edifizio, formare i patti che l’Italia Cispadana dovrebbe servare negli affari della Italia superiore, e stabilire un esercito imponente per non essere nella discrezione di Re Carlo Alberto, le intenzioni del quale eran dubbie ed ambiziose. Pertanto questo proponimento non ebbe veruno effetto per molte circostanze, e segnatamente per la scaltra ostinazione del piemontese governo non declinata punto dalla ressa di moltissime premure fatte dai Ministri Piemontesi di Roma, e di Napoli, e dallo stesso S. Padre.

Né mancò la Sicilia d’intorbidare il corso della Lega Italiana; imperciocché mandava anch’essa i suoi Plenipotenziarii, e nominava il P. Ventura a suo Rappresentante presso la S. Sede.

E sebbene dal pontificio governo mai non

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che la legittimità di mandar plenipotenziarii per una Lega possa soltanto venire dal popolo, non già dai Principi. Bene ed a tempo l’esperto Principe di Colobrano protestò contro i Siculi Inviati; poiché non avean dritto di presentarsi come Rappresentanti di una parte di quel Regno, che Egli e i suoi Colleghi legittimamente rappresentavano; né il governo della ribellata Trinacria poteva esercitare il dritto di legazione quando di ogni altro dritto, e precise di quello dell’esistenza politica era nudato.

Ma il rovescio della Lega venne principalmente da quel Piemonte istesso, il quale volea servirsi di tutto e di tutti per magnificare la propria grandezza. Imperciocché instava per mezzo del Marchese Pareto suo Ministro di Roma, affinché il Pontefice Massimo dichiarasse alla pur fine la guerra all’Austria; ed a tali istanze si univa la rinfocolata voglia de’ Novatori, i quali a tal fine in ogni momento e in ogni verso si agitavano.

In mezzo a tante e sì gravi tentazioni saldo rimaneasi il Santo Padre, e nel solenne Concistoro dei 29 Aprile facea aperto l’animo suo. Ecco le memorabili parole.

«Non è la prima volta, venerabili fratelli, che nel vostro consesso abbiamo detestata l’audacia di taluni, che a Noi ed a questa apostolica sede non dubitarono di gettare tale ingiuria, da sostenere che Noi avevamo deviato dalle santissime istituzioni de’ predecessori Nostri, e della stessa dottrina della chiesa. Però neanche oggi mancano di coloro che di Noi così parlano, quasi fossimo gli autori precipui delle pubbliche commozioni che negli ultimi tempi, non solo negli altri luoghi di Europa, ma ancora in Italia avvennero. Abbiamo saputo sopratutto dalle austriache regioni della Germania, spargersi colà fra il volgo, che il romano Pontefice, e con esploratori inviati, e con altre arti adoperate, abbia eccitati i popoli italiani ad indurre novelli cangiamenti nelle cose pubbliche. Abbiamo saputo del pari, che alcuni nemici della cattolica religione prendono quindi occasione ad infiammare gli animi de’ germani col bollore

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della vendetta, ed alienarli dalla unità di questa santa sede. Ma sebbene non abbiamo al tutto alcun dubbio che le genti cattoliche della Germania e gli spettabili pastori che ad esse presedono siino abborrenti affatto dalla costoro malvagità, pure sappiamo essere Nostro oficio riparare allo scandalo che alquanti incauti e semplici uomini ne possono ricevere, e ribattere la calunnia, che non solo ridonda in contumelia della Nostra umile persona, ma ancora del supremo apostolato di cui siamo investiti, e di questa santa sede. E poiché questi stessi nostri detrattori non potendo produrre alcun documento delle macchinazioni che Ci appongono, si sforzano d’indurre in sospezione le cose che da Noi furono operate nell’imprendere il governo temporale dello stato pontificio, perciò onde togliere ad essi questo pretesto di calunnia, Ci è venuto in pensiero di spiegare oggi nel vostro consesso chiaro ed apertamente tutta la ragione di queste cose.»

«A voi non è ignoto, venerabili fratelli, che già fin dagli ultimi tempi di Pio VII, Nostro predecessore, i principali principi di Europa aveano curato d’insinuare alla sede apostolica che adoperasse alcun modo più facile e rispondente a’ desideri di lei nell’amministrazione delle cose civili. Di poi nell’anno 1831 questi loro consigli e voti più solennemente spiccarono per quel celebre memorandum, che gli imperatori di Austria e di Russia, e i re de’ Francesi, d’Inghilterra e di Prussia stimarono di mandare a Roma per mezzo de’ loro legati. In questo scritto tra le altre cose si trattò del consiglio di consultori da convocarsi in Roma da tutto lo stato pontificio, del ristaurare o ampliare la costituzione de’ municipi, dell’istituire consigli provinciali, dell’introdurre queste stesse ad altre istituzioni in tutte le provincie per comune utilità, e del darsi adito a’ laici a tutti gli ofici che riguardassero tanto la pubblica amministrazione, quanto l’ordine giudiziale.»

«E specialmente questi due ultimi capi si proponevano come principi vitali di governare.

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Negli altri scritti ancora si trattò di un più ampio perdono da accordarsi a tutti, o quasi tutti coloro i quali aveano mancato di fedeltà verso il principe nel dominio pontificio.»

«Niuno quindi ignora che alcune di queste cose sono state condotte a fine da Gregorio XVI Nostro antecessore, ed alcune altre inoltre promesse negli editti promulgati nell’istesso anno 1831 per di lui ordine. Ma questi benefici del Nostro predecessore eran sembrati non corrispondere a’ voti de’ principi, né esser bastanti a confermare la tranquillità ed il benessere in tutto lo stato temporale della santa sede.»

«Laonde Noi, appena per imprescrutabile giudizio di Dio fummo surrogati in sua vece, sulle prime non eccitati al certo dall’esortanza o dal consiglio di veruno, ma commossi dal Nostro singolare amore verso il popolo sottomesso al Nostro temporale ecclesiastico dominio, impartimmo venia più ampia a coloro i quali aveano aberrato dalla fedeltà dovuta al governo pontificio, e quindi ci affrettammo a stabilire alcune norme, le quali avevamo giudicato essere per giovare alla prosperità dello stesso popolo. E tutte quelle cose che operammo nell’esordire istesso del Nostro pontificato, interamente son congruenti con quelle che grandemente i principi di Europa bramavano.»

«Ma dopo che i Nostri consigli coll’aiuto di Dio furon condotti a fine, sì i Nostri, che i limitrofi popoli fur visti per letizia esultare e con pubblici attestati di congratulazione e di ossequio talmente a Noi rivolgersi, che ci fu necessario sforzarci in questa stessa alma città di chiamare alla norma del dovere i popolari clamori, plausi, radunamenti con soverchio impeto prorompenti.»

«Sono inoltre a tutti note, venerabili fratelli, le parole dell’allocuzione Nostra a voi fatta nel concistoro tenuto il dì 4 ottobre dello scorso anno parole colle quali commendammo la paterna benignità ed un amore più efficace dei principi verso i popoli loro soggetti, ed esortammo di nuovo i popoli stessi

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alla fede ed obbedienza da loro a’ principi dovuta. Né poscia intralasciammo di ammonire ed esortare tutti a nostro potere, che aderendo forte alla cattolica dottrina ed osservando i precetti di Dio e della chiesa, intendessero alla scambievole concordia, alla tranquillità ed alla carità verso tutti.»

«Ed oh alle paterne Nostre voci ed esortazioni avesse corrisposto l’effetto bramato! Ma sono a tutti note le pubbliche sovraccennate commozioni de’ popoli italiani, non men che gli altri avvenimenti che fuori e dentro Italia accaddero poscia, ed eran prima accaduti. Se alcuno poi sostener voglia che ad eventi di tal fatta avesse aperta qualche via ciò che ne’ primordi del nostro sacro principato da Noi benevolmente fu fatto, costui certamente in niun conto potrà ciò ascrivere all’opera Nostra, non avendo Noi fatto altro, se non quel che, per la prosperità del Nostro stato, non pure a Noi, ma ancora ai principi mentovati parve opportuno. Del resto, per ciò che concerne a coloro che in questa Nostra signoria abusato ànno de’ Nostri benefici stessi, Noi imitando l’esempio del divino Principe dei pastori, loro perdoniamo di cuore ed amorevolmente li richiamiamo a più saggi consigli, chiedendo umilmente a Dio padre delle misericordie, che per sua clemenza allontani dal loro capo i castighi che toccano agli uomini ingrati.»

«Oltre a ciò non possono essere con Noi irati i popoli mentovati della Germania, se non fu a Noi possibile raffrenar l’ardore di coloro che dalla Nostra temporale signoria applaudir vollero a’ fatti contro di essi intrapresi nell’Italia superiore, e come altri infiammati di amore verso la propria nazione accomunarono la loro opera co’ rimanenti popoli d’ Italia. Imperciocché molli altri principi di Europa, avendo eserciti di gran lunga più numerosi che Noi, non poterono del pari resistere a’ commovimenti de’ loro popoli in questo tempo stesso.»

«Nel quale stato di cose Noi per altro non volemmo che i soldati spediti a’ confini dello stato pontificio

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avessero altro mandato, tranne quello di tutelarne la integrità e la sicurezza.»

«Ma desiderando ora alcuni, che Noi pure intraprendessimo la guerra contro i tedeschi con gli altri popoli e principi italiani, credemmo essere finalmente Nostro dovere dichiarare apertamente in questo vostro consesso, essere ciò alienissimo da’ Nostri consigli, perciocché Noi quantunque indegno, in terra teniamo le veci di Colui che è autor della pace ed amator della carità, e secondo l’ufìcio del Nostro apostolato, abbracciamo con pari amor paterno tutte le genti e tutt’i popoli, e le nazioni. Che se ciò non ostante taluni de’ Nostri soggetti sono rapiti dall’esempio degli altri italiani, come potrem Noi infrenare il loro ardore?»

«Ma qui non possiamo noi ripudiare nel cospetto di tutte le nazioni i fraudolenti consigli manifestati per mezzo de’ pubblici giornali e di vari opuscoli da coloro che vorrebbero che il romano Pontefice fosse capo di non sappiamo qual novella repubblica da costituirsi da tutt’i popoli italiani. Anzi in questa occasione sommamente ammoniamo ed esortiamo gli stessi popoli d’ Italia, per la carità che abbiam per essi, che con ogni cura si guardino da consigli sì astuti, ed all’Italia stessa dannosi, e che si tengano forte stretti a’ proprii principi, de’ quali àn pure sperimentato la benevolenza, né soffrano essere mai strappati all’ossequio loro dovuto. Perciocché altrimenti comportandosi, non solo mancherebbero al proprio dovere, ma soggiacerebbero al pericolo che l’Italia si scindesse in parti per effetto di sempre crescenti discordie ed interne fazioni.»

«Quando a Noi dichiariamo di nuovo, che il romano Pontefice rivolge tutt’i suoi pensieri, le cure, lo zelo al quotidiano incremento del regno di Cristo, cioè della chiesa, non perché si allarghino i principi di quel principato civile cui la Divina provvidenza donar volle a questa santa chiesa a tutela della sua dignità, ed al libero esercizio del

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Sono adunque in grande errore coloro che credono poter l’animo Nostro essere adescato da ambizione di più ampio dominio temporale, in guisa da gittar Noi stessi in mezzo a’ tumulti delle armi. Sarebbe invece giocondissimo al Nostro cuore paterno, se con l’opera, con le cure e con lo zelo Nostro ci fosse dato estinguere il fomite delle discordie, conciliare fra loro gli animi de’ belligeranti e rimenare tra loro la pace.»

Effetti varii secondo le varie passioni il pontificio discorso suscitava. Fu alba di pace per coloro i quali non certi ancora delle benigne idee del S. Padre, vedevano apertamente in quello, quanto male si fosse apposta la Setta nel far credere un Papa, sostegno delle loro mire, e veramente il Cardinal Mastai non era stato assunto al Pontificato per dislegare e rompere l’armonia politica prestabilita, e molto meno per minare a danno del Principato, e gittare l’Italia fra i tumulti e le guerre; e le migliorie civili di ché Egli erasi fatto iniziatore, s’intendevan mai sempre in concordia ed in armonia del dritto politico vigente, e d’altronde era una pazza utopia quella di asserire e credere, che i vantaggi dei popoli non potessero tallire all’ombra dei Troni.

L’Austria soprattutti restavane paga, imperciocché in mezzo a quel socquadro che agitavala in quasi tutte le membra del suo gran corpo, calevale di declinare il pondo di una ostile dichiarazione del Pontefice, la quale senza dubbio avrebbele accresciute le nemiche legioni, e quindi le difficoltà del riacquisto, e forse anche balestrata nel baratro di una emancipazione dalla cattolica fede.

Tutte le altre Potenze, che avean ceduto all’imperio delle circostanze, vedevano anch’esse che distrutto ormai il prestigio del pontificio fiato alle innovatrici mire, la rivoluzione non si potesse più sostenere, e veramente puossi affermare, che il 29 Aprile, in cui fu divulgato l’accennato discorso, l’agonia di quella cominciasse. All’opposto gravi rancori alla casta sovvertitrice la papale allocuzione recava. In Roma l’agitazione al colmo.

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I Circoli nella flotte stessa si radunarono; si volse il pensiero ad occupare Castello S. Angelo, ad impadronirsi del Santo Padre, e creare un governo provvisorio; né si mancò di minacciare la vita del Principe di Colobrano (1), Ministro di Napoli, il quale era additato al pubblico sdegno come uno dei dissuasori del Papa per la guerra: si strappavano dalle cantonate gli affissi del Pontefice, ed al suo nome, prima idolatrato, ora sceleratamente si malediva: si mettean guardie agli usci dei Cardinali, recando violenza ed ingiuria alla inviolabilità del domestico asilo: inibito l’uscire a chicchessia dalle porte della Città; il palazzo del Quirinale custodito da un battaglione di Guardia Cittadina.

Frattanto in mezzo a si grande tramestìo non mancarono i Moderati, i quali attesero a frastornare quel furore stabilendo, che il Ministero farebbe una dimanda per la guerra, e tosto si dimetterebbe ove nessuno effetto sortisse; che si chiedesse una leva di truppa straordinaria per inviarsi in sostegno della già partita, e così implicitamente metter Sua Santità in opposizione con se stesso. Nel medesimo tempo il Marchese Pareto distese una nota contro la pontificia dichiarazione; il Ministero si dimetteva, perché dissuggellati i plichi e i dispacci; e il S. Padre fatto a se venire il Conte Mamiani, sceglieva un Ministero tutto laicale, che represse la rivoluzione, emettendo un programma il quale segnatamente trattava della guerra contro l’Austria. Abbonivasi alquanto il romano temporale, ma tristi orme nel cuore del Sommo Pio stampava, il quale nelle presenti condizioni non altro era che il Martire di coloro a cui avea largito pietosamente il beneficio. Cotanto amari frutti le passioni non secondate producono; i quali se sono della libertà, non saprei quali fosser quelli della tirannide!

(1) Un P. Strina si portò dal Principe ad offrirgli asilo nella sua casa; egli si rifiutò dicendo, che ove si volesse commettere un attentato contro il dritto delle Genti, era contento di morire per l’adempimento dei suoi doveri.

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Tratte le menti a più gravi obbietti, si mise fondo alla Lega, e disconclusi rimaneano gl’Inviati. Dei nostri Plenipotenziarii, quelli che si erano accodati all’andazzo comune, si dimisero in Roma stessa, gli altri, e particolarmente il Principe di Colobrano, il quale con dignità e sapienza comportossi in quella diplomatica trattazione, rimpatriarono verso il 7 Maggio, lasciando il Vaticano ostello dei tumulti e delle settarie mulinazioni, le quali a più solenni e gravi casi e cangiamenti voltarono gli animi.

Intanto il Ministero, non riuscita la Lega, non si rimanea dal dare opera a tutte le faccende che riguardavano i suoi diversi rami.

Una paralisi finanziera travagliava il nostro, come ogni altro Reame, in mezzo a quei ribollimenti politici universali. La minorazione delle entrate e l’aumento delle spese ne formavano le cause; ed in vero quanto alle prime scemato era il prodotto daziario, e doganale, ridotta di meglio della terza parte il balzello del sale, abolito il macino, non esatti i crediti verso Sicilia notati nello Stato discusso, impigriti i traffichi e quindi manchevoli o scemate le importazioni e le esportazioni, nascosti o non circolanti i capitali, reso audace e largo il controbbando per lo minorato vigore della forza pubblica, e la faciltà della violazione delle interne barriere, tarde o incomplete le esazioni.

Dall’altra banda erano aumentate a dismisura le pubbliche spese; poiché grandi somme si richiedevano per tanti armati che erano in piedi: una flotta correva l’Adriatico; altro naviglio pei bisogni della Cittadella; un corpo di armata era uscito in campagna, altro disperso pel Reame di qua dal Faro; la Guardia Nazionale provveduta di armi; inoltre moltissimi impiegati i cui servigi erano creduti vani soperchi o dannosi, messi al ritiro, moltissimi altri sorti a sopperirli; gl’impieghi, gli ufficii, le pensioni, i salarii si erano moltiplicati per favorire l’interminabile satellizio degli uomini della nuova era.

Il Ministro per apportare un tostano riparo a cotanto dan

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Instituiva una commissione intesa a prestargli aiuto è lumi nel difficile aringo; si facea a indrizzare opportune parole agl’Intendenti ed alle Commissioni, affinché ponesser mente allo esatto andamento della riscossione delle imposte; invitava i proprietarii ad anticipare le rate delle contribuzioni, non senza destar gara di emulazione, anche con l’esca del beneficio del 5 per 100 annuo sui bimestri anticipati; emetteva gagliarde disposizioni per lo spegnimento del controbbando; impegnava tutti, impiegati e non impiegati, a largizioni volontarie, stabilendole per quelli proporzionate ai soldi che percepivano; per ultimo facea decretare un prestito di tre milioni di ducati alla Tesoreria Generale, il quale era forzoso per due milioni, e volontario per l’altro, e stabilivansi le condizioni opportune a tale oggetto, e con un regolamento la partizione della contribuzione, ed i titoli di sicurtà del rimborso.

Il Ministro degli Affari Ecclesiastici si facea ad instituire una Commissione per la compilazione di un Codice Ecclesiastico, della quale però acramente si dolse S. E. il Cardinale Arcivescovo di Napoli.

Ministro dell’Interno curava di portare al suo termine la organizzazione della Guardia Nazionale sì nella Capitale che nelle provincie, emettendo un regolamento pel vestiario, facendo distribuire molte migliaja di fucili nella Capitale, ordinandone l’acquisto di molte altre migliaja per mandarsi alle provincie, pubblicando, sanzionato dal Re, un regolamento disciplinare; emetteva, consentite dal Consiglio dei Ministri, delle Istruzioni pei delegati Regii, i quali avevano estese ed importanti facoltà.

Il Ministro di Agricoltura e Commercio intendea l’animo all’ordinamento delle materie e delle attribuzioni del Ministero, ed alla miglior riuscita della cosa nominava una Commissione;e infatti vennero diffidite le attribuzioni e l’organamento di esso; inoltre instituiva un’ altra Commissione intesa a rivedere le leggi e i regolamenti sanitarii per apportarvi delle opportune innovazioni;

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segnatamente per ciò

Parimente una riforma avveniva nel Ministero della Pubblica Istruzione, determinandosene le attribuzioni.

Nel Ministero degli Affari Esteri s’instituiva una classe di Alunni Diplomatici addetti al Ripartimento delle Relazioni Politiche, affine di ammaestrarsi nelle materie che formano le attribuzioni del medesimo, e stabilivasi in un regolamento opportuno ciò che per l’ammissione convenisse fare.

Il Ministro di Grazia e Giustizia formava una Commissione per la revisione di tutte le parti del Codice delle Due Sicilie, e di quanto risguardava l’ordinamento dell’Amministrazione della giustizia nel fine di renderla più opportuna al pubblico bisogno, e designava parecchi obbietti sui quali voleva che si concentrasse l’attenzione di quella.

Il Ministero volse anche uno sguardo sulla contumace Sicilia, ed aspettando tempi men crudeli, in cui le armi avrebber conseguito quello che la ragione oggimai più non potea, restringevasi a pubblicare una protesta formale del Re contro l’atto deliberativo della decadenza emanato dal siciliano Parlamento il dì 13 Aprile, siccome quello che era a danno dei sacri dritti del Re e della Sua Dinastia, e della integrità della Monarchia. Nel tempo istesso perveniva alla conclusione di un armistizio fra i combattenti di Messina, e non si rimanea dal tentare l’animo dei Siciliani onde si calassero a qualche buon termine, e dalle loro forti eccedenze cessassero. A tal proposito fu scelto Andrea Romeo, il quale non potea non essere accetto ai Siciliani. Infatti si portò nella conturbata Messina il nuovo Inviato, ma nulla concluse, o nulla volle concludere, se pure non vogliasi affermare, che confortasse i ribelli a non recedere dalla intrapresa via; poiché egli era tale che careggiava le idee della indipendenza in Sicilia e della Repubblica in Napoli.

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Troppo funesta era la posizione del napolitano Governo, poiché dovunque e comunque volgesse i passi e i pensieri mai sempre in gravi ostacoli s’imbatteva, e quegl’istessi dai quali potea sperar salute continuatamente ai suoi danni vacavano. continua…..

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa2s/02_Storia_di_Ferdinando_II_Regno_due_Sicilie_1830_1850_libro_I_II_II_Giovanni_Pagano_2011.html#COMITATO

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