Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 (VIX)

Posted by on Gen 1, 2024

STORIA DI FERDINANDO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE DAL 1830 AL 1850 (VIX)

Dovremmo smettere di definire certi storici “borbonici” e chiamarli semplicemente “preunitari” o “napolitani” nel nostro caso. Non si  capisce per quale motivo il Colletta che non scrive certo un trattato di obiettività scientifica sia considerato uno storico e i napolitani che scrissero al tempo di Ferdinando II siano considerati dei lacchè di regime.

Gli esuli pagati profumatamente in quel di Torino dal conte di Cavour per scrivere le loro ricostruzioni storiche antiborboniche che cos’erano? I depositari  della verità rivelata?

Buona lettura e soffermatevi sul profluvio veramente impressionante di innovazioni normative operate dal Re Ferdinando II.

CAPITOLO VIII.

SALUTE PUBBLICA.

Sommario

Ferdinando II si adopera con fervore in bene della pubblica salute. Disposizioni varie. Scoverta del pus vaccinico indigeno. Il Colera Morbo. Come e quando il Sovrano curasse di preservarne il regno. Pugliesi città primo campo dell’indica pestilenza. Spavento universale. Vengono per Napoli i dì ferali. Primo caso di colera successovi. Da tal lieve e presso che inosservata favilla il morboso incendio largamente divampa. Timori e mestizia generale. il Re alla suprema calamità. Sembiante corso, cagioni, cura ed altre circostanze dei colera. Laudabile condotta dei Medici, e degli Ecclesiastici, e fra questi il Cardinal Caracciolo e Monsignor Ferretti chiari lumi di carità. Tentativi turbolenti dal Governo declinati. Lacrimevole aspetto della Metropoli. Infine si ammollisce Il rigore del Cielo. Dolorosa traccia del colera, che il Governo procura di raddolcire. Nuova invasione colerica più della prima larga e spietata; nuovi provvedimenti del Re più dei primi generosi e confortevoli. Sicilia infelice tra furori pestilenziali e civili furovi avviluppata. Fine del Colera. Epidemia ferale del torcicollo. La pubblica salute si ristaura.

Singolar premura portava il Re intorno alla pubblica salate, onde mantenere quello stato fiorente di vita nello sue popolazioni, il quale è frutto della benignità del clima, e delle altre benefiche influenze che natura ha prodigato a questo nostro reame, e senza di cui ogni bene terreno non piacevole, né lusinghiero, ma noioso e pesante riuscirebbe.

Varie mutazioni ed immegliamenti furono arrecati alle deputazioni sanitarie, tra le quali parecchie nuovamente instituite: emise un regolamento e talune istruzioni pel corso degli studii farmaceutici in Sicilia, onde ottenere il privilegio in farmacia; permise alla Deputazione sanitaria di Messina,

che conservando lo sue ordinario attribuzioni, potesse in taluni casi deliberare sulle misure sanitarie

ai vaccìnici innesti avvenuta in Troja fra le vacche dei signori Varo nel Giugno del 1838, la quale fu il frutto del filantropismo del Governo, che con ogni maniera d’incuoramenti aveva richiamato la pubblica attenzione su tal riguardo.

Ma quante fossero le regie cure intorno alla pubblica salute bisogna andarlo a vedere nel tempo delle epidemie che di tanto in tanto afflissero il nostro Regno, nelle quali il Re non uomo, ma Genio Consolatore apparve. Comincerò la dolorosa narrazione dal colera morbo, il quale per orrori, pianti, e morti fu la più grave e grande calamità che Iddio a castigo degli nomini fulminasse.

Da tempi remotissimi annidavasi fra le melmose rive del Gange il colera, e con vario dolore percuoteva quelle contrade, allorché nel 1817 irruppe più che mai furente, e man mano imprese a dilatarsi. Non breve fora né opportuna la narrazione istorica delle regioni corse, delle vittime conquise, del tutto sparso, del terrore arrecato, dei paesi disertati; cennerò soltanto che dal mentovato anno in poi più non si ridusse nel suo natio luogo, ma l’un dopo l’altro tutti i regni fieramente invase.

Ferdinando II nulla pretermise per tutelarne i suoi popoli, e fino dai primordii del suo regno, quando già il reo malanno avea cominciato a contaminare Europa, volse ogni cura a tanto solenne scopo. Ricinti i lidi di cordoni sanitarii, navi ed uomini messi a guardia dei mari, dei porti, e delle spiagge, stabilite pene severissime ai violatori dei regolamenti sanitarii, creata una commissione presso il ministro dell’Interno per la pronta e spedita esecuzione dei provvedimenti sanitari, destinati selle Commissari con alti poteri (Alter Ego) nelle provincie per sopravvegliare alla pubblica salute; spediti cinque Medici nei paesi travagliati dal morbo affine di studiarlo, indagarne l’indole, conoscere i migliori metodi curativi; altro cordone sanitario disteso lunghesso la frontiera del Reame.

Né solo con tali modi andava provvedendo il buon, Re, ma da Cristiano qual è, vedendo in quel flagello l’ira divina, con ripetute istanze si rivolgeva ai Vescovi, onde ordinassero pubbliche, e fervide preci all’Altissimo, perché se così a Lui fosse piaciuto, declinasse il suo sdegno da questo Reame.

In tal crudele vicenda di operazioni, di timori, e di speranze, si era ormai giunto al 1835, e Io spaventoso male già scorrazzava in varie parti d’Italia, la quale pur si era creduta (sciocchi vaticini l) che per la dolcezza del clima, e la benignità del Cielo, ne andasse immune. Pressavano le circostanze, ed il Re raddoppiava cure e vigilanza, moltiplicava disposizioni, provvedeva a lotto ciò che era mestieri per preservare i suoi popoli dalla cruda pestilenza, ed a quello che sarebbe occorso in caso d’invasione. Riattivate in Napoli le Commissioni sanitarie centrale e circondariali affin di accrescere i mezzi di precauzione; riattivati i cordoni sanitari dappertutto, e con più severe leggi invigilati; interdette le comunicazioni con lo Stato Pontificio; pubblicate dal Supremo Magistrato di Salute istruzioni popolari per preservarsi e curarsi dal colera; prese nuove misure sanitarie per le provvenienze dalla Toscana, e da Trieste; stabiliti ospedali colerici nei Comuni del Regno, e nella Capitale ben sette Ospedali, e quattro Case di soccorso per ogni quartiere; approntiti medici, medicine, aiuti di ogni maniera; mille altri provvedimenti falli.

Ma tante sollecitudini di preservare all’altissimo scopo fatalmente non bastarono, e già nel Settembre del 1836 l’asiatica pestilenza invadeva il Regno! Rodi, Monte Santangelo, Carpino e Barletta furori segno ai primi suoi furori! Grave, universale fu lo spavento; grande, generosa, vigile la provvidenza del Re. Assiepate da rigoroso cordone le afflitte città pugliesi; stabilita in Ariano un officina di affumigazione per lo carteggio di que’ luoghi;

mandati Medici e Cbirurgi in Rodi alfin di osservarvi il morbo e darne pareri; molte altre disposizioni date a conforto di quelle desolate regioni.

Napoli cotidianamente alle afflitte città provvedeva, ma era ormai tempo che a se medesimi provvedesse. Si avvicinavano per lei i dì ferali! Ed ecco in sul cader di Settembre buccinarsi infermato di colera un viaggiatore in una Locanda di S. Giuseppe. Taluni vi aggiustavan fede, altri no: i dubbi furon brevi, perché nella seconda luce di Ottobre sopravvenne orrenda certezza. Da Gennaro Maggio, soldato di Dogana, nel posto del Beverello sul Molo, di nottetempo fu preso da vomiti, diarrea, crampi, e da altri colerici fenomeni, i quali di breve lo spensero nell’Ospedale di S. Maria di Loreto. Medici, Chirurgi, Deputati di Salute, Gendarmeria, Autorità di Polizia accorsero repente nel funesto luogo, il quale fu chiuso, barricato. Sparsa la fatai voce, Napoli tutta di spavento si empié. Pertanto o fosse prudenza, o scaltrimento, o ignoranza, o inesplicabil gergo della umana natura, al colera non si voleva metter fede, tuttoché qualche giorno dappoi altre vittime avesse mietute. Il Governo in tanto affare non mancava al debito suo. Chiudeva le case in cui perivano i presi dal colera; mandavano i parenti in opportuni lazzaretti; inibiva al popolo di affollarsi nei luoghi affetti; procedeva con pacatezza e fermo proposito, onde la immaginazione delle nostre plebi non si rinfocolasse; tenne il Re un Consiglio di Stato straordinario per deliberare sopra nuovi provvedimenti; e mentre gli altri fuggivano la mesta Città, Egli aggiravasi sereno e confortevole per le vie, visitava gli Ospedali, sopravvedeva a tutto; ordinava che tutti i poveri di ambo i sessi dispersi per la Città fossero raccolti nel Reclusorio, e trattativi alla maniera di tutti gli altri a spese del Real Tesoro.

Ma il morbo che nei cennati giorni aveva diradata

poco poscia crudelmente infierì, le credenze, le opinioni, le speranze, tutto fra lacrime, tutto e miserie travolse.

Grave, tristo, orrendo era per lo più il sembiante del colera. Nel primo periodo, d’invasione chiamato, le forze si affralivano, doleva il capo, si ottenebrava la mente; il viso era come di stupido, squallido, tristo, abbattuto, velato di livido; il sonno spariva; il petto imbolsito, dolente; frequenti i sospiri, non rari gli svenimenti; fioca la voce; piccoli ristretti e deboli i polsi; la lingua di velame bianco ricoperta; aumentata la sete; scemato o nullo l’appetito, i vomiti frequenti, angosciosi, moltiplicati di materiale vario, ai quali succedeva, e. talora precedeva., o più spesso correva con vice assidua ed alterna una stemperata e procellosa diarrea, convolata da coliche atroci, stringimenti allo stomaco, borbogli, ed offerente materiale vario, bilioso, mucoso, o una maniera di acqua cinerea o sanguigna consparsa di fiocchi biancastri; la colonna vertebrale e gli arti travagliati da violenti, e dolorose contratture (granchi), ogni altra funzione messa a socquadro.

Il freddo, segno del principio del secondo periodo, invadeva le estremità, ed ecco che aggravavansi gli enarrati fenomeni; la faccia si allividiva, si anneriva, si contraeva, si assecchiva, e gli occhi languidi, ed infossati, rendean la fisonomia oltre a modo tramutata; sì che persone nel fiore dell’età costituite parcano da prematuro invecchiamento gravate; rauca e tremula si facea la voce, il respiro stentato, il petto come da stretto cingolo arrandellato; la circolazione affralita, lenta, manchevole; fredda la lingua; ardentissima la sete; i vomiti conquassanti, la diarrea contumace, copiosa; né mancavano i vermi; le forze man mano svanivano; il freddo era intonso, generale, glaciale; le membra da violento e spesse contrazioni

Era il sin qui descritto il periodo algido, dal quale, ove natura non soccombesse, passavasi a quello di risorgimento, in cui man mano la fronte dapprima e poscia tutto il corpo accaloravasi, la fisonomia si ricomponeva; il tristo color livido si smettea; si rianimava la circolazione; il vomito e la diarrea andavano in dileguo, la cutanea rugiada appariva, tutti i fenomeni morbosi svanivano, e gl’infermi entravano in lievi febbricciuole, e da queste in penose o lunghe convalescenze.

Però talvolta la nazione aveva indole maligna e i campati dall’algidismo spegneva. In tali casi il calore non arrivava a rinfocolare il corpo, ma incerto e scarso nelle estremità si teneva; il sudore era vischioso; la mente delirante; il volto arrossito; la circolazione conturbata, tutti gli altri fenomeni non dileguati, ma con altri più tristi permutati.

Varia era dei cennati stadi la durata, varia del morbo la gravezza, il corso, la forma, il sembiante, le complicanze, varie degl’infermi le sorti, il pericolo. Nissuna cosa di certo, salvo la incertezza di tutto. La diversità delle complessioni, delle tempre, del sesso, della età del modo di vivere, dei luoghi, dei tempi, delle malattie pregresse, e di mille altre circostanze era cagione di tanto varietà.

Le veementi commozioni morali, e segnatamente la paura; le intemperanze di ogni genere, e particolarmente del vitto; il sudore mal coltivato, o represso; gli avvicendamenti repentini dell’atmosfera; e simili davano occasione

Le opinioni intorno alla contagiosità furon qui come altrove svariate; ma la differenza dei luoghi corsi dal colera, e i fatti osservati senza spirito di parto bene il mostrano contagioso.

Mitemente comportavasi talora il morbo, e tal’altra con immane gravezza, sì che come percossi da fulmine. gl’infermi di breve mancavano.

Essendo speciale la natura del colera, di mezzi speciali bisognava per esser oppugnata con plausibilità di riuscita, ma la fatala ignoranza di quelli era cagione di metodi diversi. Moltissimi, innumerevoli i rimedi proposti; gli utili pochissimi o nessuno. Fortunati quegl’infermi che eran diretti da Medici filosofi, i quali dall’esclusivismo «dalla nociva operosità dei faccendieri egualmente aborrendo, si limitavano a guidar la natura in mezzo alla colerica catastrofe con rimedi vari a seconda delle vario circostanze. Talora conveniva rattemprare, o infrenare il vomito e la diarrea, tal altra favorirli se esistenti, promuoverli so manchevoli: all’algidismo con mezzi riscaldanti bisognava occorrere» ma calcolatamele, affinché la sopravveniente reazione non trovasse rinfocolato il corpo, ed in qualche infiammazione non lo precipitasse. Ai forti dolori, ai crampi, coi calmanti si riparava. Agli altri fenomeni con diversi mezzi si accorreva. Per tal modo soltanto la diversità dei rimedi, non potea essere antilogica che solo agli occhi dei ciurmadori, i quali vedendo nel fomite morboso la unità, ma non la diversità del morbo negl’individui diversi, uno stesso metodo con gravi iatture adoperavano.

I Medici Napolitani al loro debito in quella dolorosa emergenza ponto non mancarono. Con filantropismo e disinteresse assistevano gl’infermi, con solerzia attenzione, e pericoli l’immane morbo studiavano. Il tricocefalo disparo, csilissimo vermicciuolo, che in mirabil moltitudine si agglomerava negl’intestini, fa da essi discoperto;

e i preparati del fratto del platano orientale per essi prudentemente sperimentati. Pubblicarono memorie ed opere, comunicaronsi osservazioni, praticarono sperimenti, ninna cosa trascurarono che al bene della umanità, ed al progresso della scienza si aspettasse. Parecchi di loro accanto ai loro simili, per sì santo scopo perirono; moltissimi la furia del morbo a gran fatica scamparono.

Molto da commendare fu l’opera e la umanità degli ecclesiastici regolari e secolari, i quali già fin dai primi rumori del morbo si eran profferti ad assistere senza riserra i morenti. Il Cardinal Giudice Caracciolo, Uomo prudente, saggio e santo, assai immaturamente involato al bene del suo gregge, con prudente consiglio niegava le pubbliche processioni, e l’ardore dei fedeli con preci, ed opere di pietà a migliore intendimento dirigeva. Monsignor Ferretti, Nunzio Apostolico, Uomo superiore ad ogni umana lode, continuamente, quasi nuovo Borromeo, si aggirava per le case degl’infermi, nulla curando fatiche, spesa, pericoli, e largheggiando di soccorsi spirituali e temporali. Si volser preci all’Altissimo; il Re istesso recossi al Duomo, e fra la contrita moltitudine ferventemente orava. Si confirmavano i voti pubblici del 1649 e 1656, quando desolatrice pestilenza disertò il Reame; promettevasi la riapertura della Chiesa di S. Carlo Borromeo; molte altre cose si facevano, le quali dal pietosissimo Iddio furono gradite.

Il Governo sempre vigile, sempre solerte nella grande opera di sovvenire, attendere, provvedere, far tutto infine che riuscisse a mitigare l’acerbità della pubblica calamità, santissimo proposito, che molte vittime strappò al reo flagello, ed a moltissimi rese men duro il morire! La patria carità in questo più che in altri tempi rifulse. Non poche somme versavano i particolari, i Mini

letti, camice, suppellettili, ed altre masserizie pei poveri si profondevano: nobil gara di generosità eccitossi fra Governo e Governati: si davano socccorsi gratuiti di vitto, di medicine e di ogni maniera di assistenza a coloro fra i poveri, che nelle domestiche mura desiderassero curarsi: un apposito cimitero fu dischiuso per accogliere le fredde salme dei colerosi.

Impertanto, in mezzo a tanta sapienza carità, e provvidenza che il Governo serbava, non mancarono i ribaldi di conturbare la pubblica quiete. Tristi semi, in tempi tristi volevansi dischiusi. In ogni calamità il popolo vuoi rinvenire una causa, e quando universale ed orrendo è L’ effetto tosto va col pensiero a cagioni strane; si che in tempo di popolari malattie al flagello della natura si arrogo il flagello delle false credenze, gli animi tentennano fra la diffidenza ed i sospetti, ed ove la Provvidenza non mitiga l’umana fantasia, o i credenti dell’umano artifizio non rinsaviscono, o i pubblici conturbatori non ismettono le ree tendenze, si arriva a temere degli amici e dei parenti più stretti, a supporre agguati nelle cose più innocenti, a creder contaminati di veleno i commestibili, le fontane e i fiumi, a sparger l’odio al governo, a metter mano alle faci della discordia civile, al sacco, al ferro, al fuoco. Seppeselo in altri tempi Milano coi suoi untori; seppeselo Napoli stessa con gli appestatori, sepperselo nei moderni tempi tutti i regni percossi dal colera, sepperselo appo noi Penne, Palermo, Catania e Siracusa di sangue civile tinti. La fermezza, e la carità del Re da questa peste morale questa città preservarono.

Chi mai potrebbe appieno ritrarre lo stato miserando di quella rea stagione? I luoghi pubblici, e i teatri. chiusi o deserti; solitarie le vie; ognuno dalla perdita

l’amico restava spesso privo dell’amico elio nella sera innante, o poche ore prima abbracciato avea; mancava al padre il figlio che leale era nel più bel fiore dell’età costituito; di breve s’involava alle famiglie l’amatissimo vecchio, la cui vita da tante catastrofi era campata; non sesso, non età, non complessione, non stato il crudo flagello risparmiava: latti nella comune sventura agguagliava. Una lunga fila di mortuarie carrette, convojate dai Sacerdoti, e da altri in mezzo a’ torchi accesi, e coi segni della religione, dirigevasi in ogni sera lungo fori» per al camposanto; giravan per la contristata città i becchini, e in poco d’ora la feral soma colmavano: grandi erano i lamenti, infinite le lacrime, universale l’afflizione, sapremo il terrore: il ridente Cielo delle Sirene, desiderio dell’Universo, come mortifera maremma aborrito.

Nel quartiere Porto dapprima sviluppossi, e rinfocolossi la contagione, indi in quelli del Pendino, Mercato, è Vicaria, più fieramente si avventò, o per lo maggior numero della minuta gente, o per la poca nettezza dei corpi, o per la trasandata igiene, o perché la imbelle fortuna è più crudele ai miseri; da ultimo nei quartieri più civili con minore acerbità corse. Molli personaggi per chiarezza di natali, per onori, per virtù conti, moltissimi del popolo confusamente nei sepolcri spinse. Ai principii di Ottobre cominciarono gl’impeti del morbo, montarono grado grado in orrido incremento: durò la fierezza per tutto Novembre e le calende di Dicembre; ai selle di questo mese infine ammollissi il rigore del ciclo, le morti andarono scemando, dipoi finirono; gli ospedali colerici l’un dopo l’altro si chiudevano; gli abitanti rientravano nella desolata città; gli animi si rinfrancavano. Ai 7 Marzo cessò del tutto il colera. Il Supremo Magistrato di Salute dichiarò che si lasciassero patenti libe

L’asiatica pestilenza non nella Capitale soltanto, ma nelle provincie ancora riversata la sua trista bava, tutto il reame cisfarino con vario dolore afflisse.

Passato il colera luttuose tracce lasciava. Teneri bambini, o caste giovanotte, o freschi garzoncelli orbati di genitori e di parenti; vecchi cadenti, di figli amorevoli, sostegno di loro canizie, privati; famiglie di numerosa prole ricchi, totalmente disertate; tutto, dolore, cordoglio, e più altre miserie sulla miseranda Napoli gravavano,, Governo nulla lasciò che a consuolo degli afflitti ritornar potesse, e segnatamente degli Orfani amorevol cura prese. La carità che forma principal pregio dei Napoletani al resto sopperì. Duri giorni vide questa città per l’asiatico flagello, dolcissimi ne vide per la pubblica carità. Il Re ad ogni buona e confortevole opera esempio e sostegno.

Pertanto le coleriche sventure non ebbero qui termine. beo altre, o più gravi avrommene a narrare. Sembravan finite le napolitano sciagure j si credevano passati i tempi del tutto; dicessi dileguata la cruda calamità, quando nuove miserie, nuovo tutto, e nuova calamità, le speranze e le credenze disperdevano. Tristi semi avea lasciato nella lamentevole città l’asiatica pestilenza, i quali di breve tristi frutti dovean produrre, e quando ancor calde erano le ceneri de’ colerosi, e calde le lacrime sparse per essi, per nuovi accelerati, e per nuove lacrime la mesta Napoli fu contristata.

Ai 13 di Aprile del 1837 risorse furente il colera, e per lunga ora gravò sulla straziala città. Morti più numerose, dolori e cordogli più acerbi, lacrime più generali, infezioni più larghe, timori più universali resero memoranda la seconda invasione colerica. Il Governo oggi

In Napoli anche questa seconda volta il colera non si contenne, ma le provincie con vario impeto invase, e sulla siciliana isola più che efferatamente si avventò. Un pestifero rivo dall’ammorbato e torbido Sebeto emanava. Nel più alto colmo del suo maggior furore la miseranda Palermo il vide. Dal 7 Giugno al 1 Agosto del 1837 con larga strage vi scorrazzò. Ben 40 mila palermitani in si breve tempo giacquero! Catania, Siracusa, Girgenti ed altre siculo città furono da pari sventura oppresse. Feral nembo sull’afflitta Sicilia si addensò. Il Governo curo, impegni, premure nell’afflitta isola trasfuse. Né mancò il filantropismo di rendere men dura quella cruda stagione.

Se non che assai da deplorare é, che in questo secondo infierimento del colera, alle furie del morbo, le furie civili si fossero arrose. La diceria degli avvelenatoci sparsa, e sostenuta per le ribalde mire dei perturbatori,3 quali, cosa orrenda a dirsi, mossi da grande crudeltà, non si rimanevano dal soffiare perfino nelle stragi del morto desolatore, e che in Napoli per la vigilanza del governo non avea messo radici, riscaldò le menti siciliano più del conveniente, e ad atti insensati e furiosi gli spinse. Arse in Palermo la rivoluzione, in Siracusa, in Messina, in Catania arse. Il Governo tosto volse l’animo alla tutela della pubblica tranquillità, e con appositi modi i semi della ribellione spense. Ai gastighi divini, gli umani gastigbi si aggiunsero. Presso che 150 mila vittime la colerica voragine in ambo le Sicilie sorbì; più che il triplo ne rimase grami ed afflitti: troppo ampia materia di dolori vi fu. Trista ed orrenda età fu quella del colera stampata con caratteri di sangue e di dolore nelle pagine della storia, e nella memoria degli uomini. Ma alla pur fine il Dio delle Misericordie trasse i suoi flagelli da questa. diletta terra e man mano all’antica letizia la ricondusse.

Impertante sembrava, che alla tempesta del colera fosse successa la calma, perché dall’ultima invasione di esso la pubblica salute si era ricuperata; ma la tregua dell’epidemie è come il riposo dei vulcani, che riposo non è, ma lavorio ed accumulo di novelle forze per insorgere con più violenza e nerbo; ed infatti mentre che ci stavano rinfrancando gli animi dall’ultima calamità per un’altra calamità dovemmo contristarci.

Il tifo apoplettico-tetanico, volgarmente detto torcicollo, venne ad invadere il nostro Regno in Febbrajo del 1840, e a serpeggiare per tutti i cauti delle provincie. Grave

Stranissima e varia suppellettile di fenomeni il torcicollo assumeva; fra cui spiccavan quelli che il capo o la schiena riguardavano. Gl’infermi afflitti, per tempo o modo vario da sintomi precursori, davan tosto io acerbi dolori di capo, crescenti, insoffribili, o esagitati erano da procelloso delirio, o smossi nella ebrezza di un delirio tranquillo, o in letargo sì profondo che poco più è morte: alzavansi talora di letto in attitudine strana, con occhi stralunati e rossi, come se fosser presi da spavento, e spavento agli astanti arrecavano: gli occhi, come se schizzassero dalle occhiaje, chiusi come per morte, o aperti, come per grave paura, lacrimosi, lucidi, e pinsi di sangue: le parotidi gonfie e dolenti: la fisonomia squallida, o rossa, o convulsa, o torva, o esterrefatta: la bocca strettamente arrandellata, e sprizzante schiuma fra grave anelito, o di continuo aperta come si fa dai cani nel bollore della canicola: lunghesso la spina dorsale spasati, doglie atroci, e crudele vicenda di rigidezze e convulsioni, in mezzo alle quali il corpo stranamente curvavasi in uno dei lati, o in avanti, o si fattamente indietro, che l’occipite alle calcagna toccava: la febbre variamente alta, i dolori ventrali o di altri punti, la sete, l’insonnie ed altri fenomeni morbosi l’affliggente soma accrescevano.

Talora con sì subito impeto incoglieva, che gl’infermi in quatte’ ore uccideva; altre volte men crudelmente

Pochi furono i corpi in coi serena come prima la salute riedesse, più la cecità, o la sordìa, o la mutolezza, o il dire barbogio, e il torpore delle membra, o il tremito del corpo, o la mentale imbecillità, o l’idiotismo, o altre peggiori reliquie dal crudo morbo eredavano. Cessi Dio, che questa epidemia fosse corsa così largamente come quella del colera! Maggiori vittime avrebbe mietute, maggiori dolori arrecati, maggior rivo di pianto prodotto. Spicciolatamente, ma con indicibil furia si avventò. Sepperselo pur troppo alcuni paesi di Terra di Lavoro, del Principato Citeriore, delle Calabrie, della Basilicata, e della Puglia nei quali il morbo s’insinuò.

Brevi durate avevano le particolari epidemie dei paesi, forse perché debole erane la cagione, o perché i mutamenti atmosferici, così frequenti nel nostro regno, o le mutata condizioni dei luoghi ne fiaccasser l’impeto e la ferocia. Si brancolò come ciechi intorno alla cagione ultima del male, un fomite speciale però non potea essere negato, il quale, meglio delle chimeriche cagioni da taluni mesce innanzi, rendea spiegabile il procedere particolare del morbo.

Si disputò benanche se ci fosse contagio o par no, ed al solito i Medici si divisero in due partiti, alcuni pel né, ed altri pel sì lenendo, i quali ultimi sembra elio meglio dei primi avessero seguito i fatti, che non furono né pochi né oscuri.

I più vennero in sul credere, che il morbo stesse in una infiammazione della polpa nervosa contenuta nel cranio. o nello speco vertebrale, o degl’involucri, che dappertutto la inviluppano e la proteggono. Epperò i rimedi contrari alle infiammazioni si adoperarono. Ma ossiaché

Il Governo, intesi appena i primi rumori del torcicollo, non mancava al suo debito emettendo ordini al grave caso opportuni, mandando Medici, e tutti i comodi in quei paesi che ne difettavano. La privata carità segui tosto l’esempio del Governo, e non pochi atti commendevoli sursero, i quali di grande e dolce conforto riuscivano.

Dopo siffatta epidemia nessun’altra calamità avemmo a deplorare, e d’allora in poi la pubblica salute si è tenuta in uno stato laudevole. Conceda il pietoso Iddio, che nessun’altra pagina di morbosi dolori abbia ad aggiungersi alle pagini della nostra Istoria.

continua………

fonte

https://www.eleaml.org/sud/stampa2s/01_Storia_di_Ferdinando_II_Regno_due_Sicilie_1830_1850_libro_I_II_II_Giovanni_Pagano_2011.html#AMMINISTRAZIONE

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.