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STORIE DI DONNE DIVERSE ……………le brigantesse ottocentesche del meridione d’Italia (II)

Posted by on Mar 31, 2019

STORIE DI DONNE DIVERSE ……………le brigantesse ottocentesche del meridione d’Italia (II)

La “donna del brigante” è colei che ha dovuto o voluto seguire il proprio uomo (spesso marito, talora amante, raramente figlio) che si è dato alla macchia.
Nel prio caso, quello della costrizione, il darsi alla macchia del proprio uomo l’ha confinata in una condizione ancora più disperata.

Le è venuta meno ogni forma di sostentamento: l’opinione pubblica l’ha additata con disprezzo e l’ha isolata, spesso anche per timore di sospetti di connivenza. Non le è rimasto che il mendicio ed il meretricio. Sola, senza mezzi, disprezzata dai borghesi benpensanti e dai popolani acquiescenti, controllata a vista dalle autorità governative, talvolta oggetto di attenzioni inconfessabili dei “galantuomini”, ha preferito alla fine seguire fino in fondo la scelta di vita del suo uomo.

La “donna del brigante” è anche colei che viene rapita e sedotta dal bandito, ridotta in stato di schiavitù e costretta – contro il suo volere – a seguirlo nelle sue azioni brigantesche. Spesso finisce però per innamorarsene, per quella condizione psicologica che oggi è classificata come “sindrome di Stoccolma”. E’ il caso, ad esempio – sempre nel periodo di occupazione francese – di una non meglio identificata Margherita.

Il brigante Bizzarro, uomo violento e sanguinario, imperversava nelle Calabrie. Costui, nel corso di una delle sue crudeli scorribande, sterminò un intera famiglia, trucidò un padre e ne rapì la figlia Margherita. Bizzarro sicuramente stuprò la donna, la rese sua schiava e la condusse con sé, in groppa al proprio cavallo, nelle imprese brigantesche alle quali dava continuamente vita.

Ci si aspetterebbe che la donna fosse investita da rabbia, rancore e odio. Invece in Margherita, lentamente, l’odio verso Bizzarro si trasformò in ammirazione, il sentimento di vendetta fu sostituito dall’amore verso il boia della sua famiglia. Ne diventò la compagna ed il braccio destro e lo accompagnò nelle sue scorrerie, gareggiando con lui in audacia e coraggio. Catturata in un’imboscata, non sopravvisse a lungo ai rigori della prigione che, come vedremo più avanti non erano inferiori a quelli della latitanza.

Per un beffardo gioco del destino una reazione opposta dimostrò invece – proprio nei confronti dello stesso Bizzarro – la donna che subentrò a Margherita nelle grazie del bandito: Niccolina Licciardi. Un giorno erano entrambi braccati dai piemontesi.

Bizzarro, in un raptus di follia omicida, sfracellò contro le pareti di una caverna il neonato avuto dalla compagna, per la sola ragione che il pianto del bimbo rischiava di rivelarne la presenza agli inseguitori. Niccolina non versò neppure una lacrima.

Con le mani scavò una fossa, vi seppellì il figlioletto e si pose a guardia della tomba – anche dormendovi sopra – per evitare lo scempio da parte degli animali selvatici che infestavano la zona. Profittando poi del sonno di Bizzarro, gli sottrasse il fucile e gli fece saltare le cervella, sparandogli in un orecchio.

Decapitato il bandito, ne avvolse la testa in un panno, si diresse a casa del governatore di Catanzaro e sul suo desco lanciò il macabro trofeo. Incassata la taglia, ritornò sui monti e di lei si perse ogni traccia.
Alcune volte, ed è il caso della libera scelta, “la donna del brigante ” segue volontariamente l’uomo di cui è innamorata.

Tale appare la vicenda di Maria Capitanio. La ragazza, nel 1865, a quindici anni si innamorò di Agostino Luongo, un operaio delle ferrovie. Maria continuò ad amarlo e a frequentarlo di nascosto anche quando questi si dette alla macchia. Lo seguì nella latitanza, consumò le “nozze rusticane” e partecipò per pochi giorni alle azioni delittuose della banda, fungendo da vivandiera e da carceriera di un ricco possidente, tenuto in ostaggio.

Catturata dopo una decina di giorni, in uno scontro a fuoco, grazie ai denari del padre, fu prosciolta dall’accusa di brigantaggio, essendo riuscita a dimostrare – attraverso false testimonianze – di essere stata costretta con la forza a seguire il brigante Luongo.

Rivelatrice di contraddizioni è la vicenda di Filomena Pennacchio, una tra le più note “brigantesse”. Figlia di un macellaio, nata in Irpinia nella provincia borbonica di Principato Ultra, fin dall’infanzia incrementò il povero bilancio familiare servendo come sguattera presso alcuni notabili del paese.

Alcuni mesi dopo il primo incontro con Giuseppe Schiavone, famoso capobanda lucano, vendette per alcuni ducati il poco che aveva e lo seguì nella latitanza. La vita brigantesca la rese subito un’intrepida combattente, evidenziando le sue inclinazioni sanguinarie. Con Schiavone partecipò a furti di bestiame ed a sequestri di persona, trovando modo di meritarsi il rispetto e la simpatia di tutta la banda.

Non si sottrasse nemmeno all’omicidio, avendo preso attiva parte all’eccidio di nove soldati del 45° Reggimento di Fanteria nel luglio del 1863 a Sferracavallo. Era altresì capace di slanci di generosità come è testimoniato dal soccorso che offrì ad alcune vittime della banda Schiavone e per aver cercato di salvare alcune vite.

Di lei si disse anche, ma senza suffragio di prove, essere stata non solo l’amante di Schiavone ma anche di Carmine Crocco, il leggendario e riconosciuto capo di tutte le bande lucane e dei suoi luogotenenti Ninco Nanco e donato Tortora.

La presenza di più donne nella banda portava facilmente ad episodi di gelosia, dei quali si servì largamente l’esercito occupante per annientare il nemico. E fu proprio la gelosia di Rosa Giuliani, cui Filomena Pennacchio aveva sottratto i favori di Schiavone a tradire quest’ultimo: la delazione della Giuliani consentì, infatti, l’arresto di Schiavone e di altri briganti che furono subito condannati a morte.
Prima di morire il feroce Schiavone volle rivedere ancora Filomena, gravida di un suo figlio.

Fu un incontro tenerissimo tra la brigantessa regina di ferocia ed il capobanda terrore delle valli dell’Ofanto che in ginocchio – chiedendole perdono – le baciava le mani, i piedi ed il ventre pregno.

Filomena Pennacchio però non visse – come altre – nel ricordo del suo uomo. Preferì – allettata da una promessa di sconto della pena – tradire anch’essa e fece catturare con le sue rivelazioni un altro luogotenente di Crocco, Agostino Sacchitiello ed altre due famose “brigantesse”, Giuseppina Vitale e Maria Giovanna Tito. Condannata a venti anni di reclusione, la Pennacchio godette di vari sconti di pena: dopo sette anni di detenzione tornò a casa ed anche per lei si aprirono le porte di una vita anonima.

Nella storia della calabrese Marianna Olivierio, detta “Ciccilla”, è sempre il sentimento della gelosia il detonatore che fa esplodere la determinazione criminale della “brigantessa”: Ciccilla era una bellissima ragazza dalle lunghe e nere chiome e dagli occhi corvini. Sposa di Pietro Monaco, un ex soldato borbonico ed ex garibaldino, datosi al brigantaggio dopo un omicidio, non lo aveva inizialmente seguito.

Rimase nel proprio paese, accontentandosi di rari, furtivi momenti di intimità con il marito quando questi scendeva dai monti, fino a quando venne a sapere che Monaco aveva avuto una fugace relazione con la sorella. Ciccilla decise di vendicarsi. Invitò la sorella in casa e – nel cuore della notte – la trucidò con un pugnale, martoriandone il corpo con una trentina di colpi d’ascia.

Subito dopo – a dorso di mulo – raggiunse la banda del marito, divenendone addirittura il capo di fatto. Il raccapriccio che accompagnò le sue gesta si diffuse in tutto il circondario.

Perfino i suoi stessi briganti ne ebbero terrore e disprezzo. Usava, ad esempio, infierire sui cadaveri dei nemici uccisi, mutilandoli atrocemente con coltelli e rasoi che portava sempre con sé.

Catturata dopo la morte del marito, fu disconosciuta dai suoi stessi familiari. Anche la madre rifiutò di visitarla in carcere. Il processo, che fu celebrato a Catanzaro con grande partecipazione di gente e che vide come testimoni a carico anche i parenti suoi e del marito, si concluse con la condanna a morte.

Ed è uno dei rarissimi, se non l’unico, caso di sentenza capitale per una donna. La sentenza – contrariamente a quanto sostengono taluni frettolosi cronisti – non fu poi eseguita ma tramutata nell’ergastolo perché il governo italiano non aveva interesse a mostrarsi all’opinione pubblica internazionale come giustiziere di una donna.
Storie brigantesche, come si vede di inaudita ferocia, ma anche storie di teneri sentimenti che le esasperazioni di una guerra civile non riescono a sopprimere del tutto.

Valentino Romano

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