STORIE DI DONNE DIVERSE ……………le brigantesse ottocentesche del meridione d’Italia
Nel febbraio del 1861, con la capitolazione di Gaeta, ultima roccaforte borbonica, il Regno delle Due Sicilie cessa, di fatto, di esistere. Francesco II, ultimo Re di Napoli, ripara a Roma, ospite dello Stato Pontificio.
La precarietà dell’esilio, la solidarietà di numerose dinastie europee e le notizie – spesso ingigantite – delle difficoltà che il nuovo stato italiano incontra per radicarsi nel territorio, lo spingono a coltivare la speranza di un sollecito ritorno sul trono.
Dovunque, nei territori dell’ex regno – a Napoli come nei centri minori – sorgono comitati segreti filoborbonici, con lo scopo dichiarato di sollevare le popolazioni contro i Piemontesi. In tutto il Mezzogiorno si riaccendono improvvisamente i fuochi della ribellione contadina: fuochi che – a ben dire – hanno sempre infiammato il Meridione d’Italia; fuochi ora alimentati da uno sconquasso politico e sociale insostenibile.
Il possesso e l’uso della terra hanno da sempre costituito un fattore scatenante di rivolte. Ma né le leggi eversive né l’esproprio dei beni ecclesiastici hanno fatto conseguire la più antica aspirazione delle classi rurali, la proprietà della terra. Ed è terra ostile quella che i contadini lavorano per conto di altri, aristocratici e latifondisti. Spesso sottratta – zolla dopo zolla – ai boschi, alle macchie ed alle pietraie montane. In cambio i contadini ricevono un salario che consente appena di sopravvivere..
Il mutamento di governo ha ingenerato speranze che ben presto si rivelano infondate. La terra cambia proprietario ma i contadini ne sono sempre fuori, messi nell’impossibilità pratica di acquistarla o riscattarla con i sofismi di una legge fatta da un parlamento di “galantuomini” per i “galantuomini”. Il destino dei contadini appare segnato: rassegnarsi o ribellarsi.
L’esercito borbonico, che per molti giovani rappresentava l’unico sbocco occupazionale, è stato disciolto. Funzionari ex borbonici senza scrupoli, passati nella burocrazia del Regno d’Italia, hanno scientemente occultato il richiamo alle armi nel nuovo esercito italiano per favorire il disordine, così che una moltitudine di giovani si è ritrovata bollata con il marchio della diserzione, senza nemmeno venirne a conoscenza. Contadini senza terra i e soldati senza esercito null’altro possono fare che darsi alla macchia.
Nascono e proliferano, ingrossate anche da gruppi di evasi dai bagni penali borbonici, le bande dei briganti che sfruttano la conoscenza dei luoghi, l’ardimento e la sete di rivendicazione sociale per dare scacco all’esercito piemontese, un esercito straniero, che parla una lingua straniera, che applica leggi straniere, che obbedisce ad un re straniero e che dunque è un esercito di occupazione. La violenza esplode allora in tutta la sua virulenza: l’occasione è propizia anche per soddisfare la sete di vendetta troppo a lungo repressa nei confronti dei possidenti, dei “galantuomini” e del clero.
Nelle Calabrie, nelle Puglie e, soprattutto, in Basilicata sono messi a fuoco e depredati interi paesi, massacrate le personalità più in vista e più odiate, sbaragliate le truppe piemontesi.
L’esercito è impotente, percorre a casaccio le contrade più impervie, cade in imboscate, vede i suoi uomini falciati da un nemico invisibile, reagisce con violenza alla violenza in una spirale infinita di sangue.
Il fenomeno del brigantaggio
approda nel Parlamento che, lungi dal preoccuparsi di tentare – con una saggia
politica di riforme sociali – di rimuoverne le cause, sceglie la via della
repressione, adottando una legislazione speciale, la legge Pica, che instaura
il terrore nei territori occupati, la fucilazione sul campo, lo stupro delle
donne dei ribelli.
In questo contesto matura il dramma delle “brigantesse”, che è dramma
della rottura dell’equilibrio familiare, dramma di madri senza più figli, di
ragazze orfane dei genitori, di vedove: è dramma di donne disperate che,
ribaltando un ruolo stereotipo di rassegnazione e sudditanza, si dimostrano
capaci di affiancare con coraggio i propri uomini e partecipare attivamente
alla rivolta contadina.
E’ difficile attribuire una data di nascita al brigantaggio femminile, ma una prima significativa figura femminile di età moderna può essere individuata in Francesca La Gamba, nata a Palmi (RC) nel 1768 e attiva nel decennio di occupazione francese (1806-1816).
Francesca, filandiera di professione, madre di tre figli, divenne capobanda, spinta da un’incontenibile sete di vendetta contro i francesi che l’avevano colpita negli affetti più cari. Rimasta vedova del primo marito, dal quale aveva avuto due figli, convolò in seconde nozze. Avvenente d’aspetto ed esuberante nel carattere, attirò le mire di un ufficiale francese che, invaghitosene, tentò – forte della sua posizione sociale – di sedurla.
Respinto dalla fiera
Francesca il militare pensò di vendicarsi in maniera terribile. Nottetempo fece
affiggere un falso manifesto di incitamento alla rivolta contro l’esercito
francese di occupazione ed il mattino successivo fece arrestare i figli della
donna, accusandoli di essere gli autori della bravata. Alle suppliche di
Francesca, l’ufficiale fu irremovibile: i giovani subirono un processo sommario
e furono fucilati.
Francesca, pazza di dolore, si unì ad una banda di briganti che operava nella
zona, dismise gli abiti femminili ed indossò quelli dei briganti.
In breve fornì prove di ardimento tali da divenire il capo riconosciuto della banda stessa, seminando ovunque il terrore. I francesi si accanirono nella caccia della donna, fino a quando un loro drappello cadde in un’imboscata tesa da Francesca. Tra i soldati fatti prigionieri la sorte volle che ci fosse proprio l’ufficiale suo nemico. Con una coltellata Francesca gli strappò il cuore e lo divorò ancora palpitante.
Nell’orrore di questa vicenda, pure caricata di colore dal mito, possono leggersi le ragioni che hanno spesso indotto tranquille popolane meridionali a trasformarsi in Erinni vendicatrici: la prevaricazione degli occupanti, il loro disprezzo per gli affetti feriti, l’irrefrenabile ansia di vendetta suscitata nei popoli conquistati.
Crollato il mondo familiare
intorno al quale si è costruita a fatica una pur misera esistenza, la vendetta
femminile si dimostra ancor più feroce di quella maschile. Si tratta di
fenomeni tuttavia limitati che fanno da contraltare a tanti episodi di
rassegnazione e di pianto: costituiscono un’eccezione, insomma, non già la
regola.
Appare dunque azzardato il tentativo di attribuire autonomia assoluta al
brigantaggio femminile preunitario.
Forse sarebbe più corretto parlare di una “questione dentro la
questione”.
E questo non sminuisce il
ruolo delle donne nella rivolta contadina. Anzi, lo amplia e agevola la
comprensione dell’intera questione delle classi subalterne meridionali.
E’ comprovata invece, nelle vicende rivoluzionarie della seconda metà
dell’ottocento la presenza di un considerevole numero di donne
nell’organizzazione brigantesca.
Chi può, infatti,
legittimamente sostenere che in una banda di briganti, numerosa e perfettamente
organizzata (come tante nel periodo che trattiamo), si potesse fare a meno
della presenza delle donne per motivi logistici, di collegamento, di
approvvigionamento e, perché no, anche per motivi affettivi?
Occorre qui introdurre ed operare – semmai – un’altra distinzione che
dall’ottocento ad oggi ha diviso e divide gli studiosi: la distinzione tra
“la donna del brigante” e “la brigantessa”.
Numerosi sono gli esempi di ” donne del brigante”, più rari – ma non meno significativi – quelli di “brigantesse”.
Gli uni e gli altri concorrono però in eguale misura a definire il ruolo della donna nelle classi rurali della seconda metà dell’ottocento meridionale italiano e contribuiscono certamente all’affermazione del posto che la donna occupa nella odierna società italiana.
Valentino Romano