Alta Terra di Lavoro

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STUDJ SOPRA LA QUESTIONE ITALIANA DI CARLO CATINELLI (II)

Posted by on Gen 12, 2021

STUDJ SOPRA LA QUESTIONE ITALIANA DI CARLO CATINELLI (II)

Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui – l’ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org – Buona lettura!

CAPITOLO III

Sull’agitazione italiana, e sui mezzi coi quali è stata prodotta, e si è fatta sino al giorno d’oggi durare.

L’Italia aveva nel 1814, dopo tanti anni d’incassanti terribili guerre, soprattutto bisogno di ordine, di quiete e di pace. Più vi si riflette e più si rimane convinti, che nella condizione nella quale essa in allora si trovava, da nessuno si poteva al prefatto bisogno provvedere, se non dagl’Alleati; e che ogni ordinamento autonomo vi si sarebbe, all’atto pratico, mostrato inneseguibile. La violenta opposizione insorta contra di esso, fa perciò, indipendentemente dalla di lei trasformazione in agitazione, cospirazione e ribellione, un( 4) opera in ogni caso affatto fuor di tempo, e inconsiderata. Ma che dire poi dell’irreflessione e leggerezza, con la quale questa qualunque siasi opposizione si è fatta? della meschinità, insufficienza, immoralità dei mezzi che vi si sono impiegati? — E se almeno il non successo e l’esito disastroso del primo tentativo avesse insegnato a far meglio! Ma no. Il vero è, che l’uomo pell’ordinario tiene assai poco conto delle lezioni che gli dà la propria esperienza per quanto esse possano essere, come lo furono nel caso in discorso, severe e dolorose, e mono ancora di quelle dell’esperienza altrui, e dei tempi passati. Il partito sovversivo si è costituito subito dopo la guerra del 1815 in tutta l’Italia in leghe e congreghe agitatrici rivoluzionarie, e non ha cessato di tenere nei suoi ulteriori tentativi contro l’esistente ordine politico la stessa strada, che tenue nel 1815, procedendo con gli stessi metodi, e usando gli stessi mezzi che aveva usati nei detto anno. Il di lui manuale divenne e rimase sempre il proclama di Gioacchino Murat agli Italiani messo in corso da Rimini il giorno 30 marzo 1815; che perciò si merita in sommo grado la nostra attenzione. Esso è dei seguente tenore:

«Italiani! L’ora è venuta che debbono compiersi gli alti vostri destini. La provvidenza vi chiama in fine ad essere una nazione indipendente. Dalle Alpi allo stretto di Sicilia odasi un grido solo l’indipendenza d’Italia! Ed a qual titolo popoli stranieri pretendono togliervi questa indipendenza, primo diritto e primo bene d’ogni popolo? A qual titolo signoreggiano essi le vostre più belle contrade? A qual titolo s’appropriano le vostre ricchezze per trasportarle in regioni ove non nacquero? A qual titolo finalmente vi strappano i figli, destinandoli a servire, a languire, a morire lungi dalle tombe degli avi.

« Invano adunque natura levò per voi le barriere delle Alpi? Vi cinse invano di barriere in sormontabili ancora la differenza dei linguaggi e dei costumi, l’invincibile antipatia dei caratteri? No, no: sgombri dal suolo italico ogni dominio straniero! Padroni una volta del mondo espiaste questa gloria perigliosa con venti secoli d’oppressioni e di stragi. Sia oggi vostra gloria di non avere più padroni. Ogni nazione deve contenersi nei limiti che le diè natura. Mari, e monti inaccessibili, ec coi limiti vostri. Non aspirate mai ad oltrepassarli, ma respingetene lo straniero che li ha violati, se non si affretta di tornare ne’ suoi. Ottantamila Italiani degli Stati di Napoli marciano comandati dal loro re, e giurarono di non domandare riposo, se non dopo la liberazione d’Italia. È già provato che sanno essi mantenere quanto giurarono. Italiani delle altre contrade, secondate il magnanimo disegno!. Torni all’arme deposte chi le usò tra voi, e si addestri ad usarle la gioventù, inesperta.

«Sorga un si nobile sforzo chi ha cuore ingenuo, e secondando una libera voce parti in nome della patria ad ogni petto veramente italiano. Tutta insomma, si spieghi ed in tutte le forme l’energia nazionale. Trattasi di decidere, se l’Italia dovrà essere libera, o piegare ancora per secoli la fronte umiliata al servaggio.

«La lotta sia decisa: e ben vedremo assicurata lungamente la prosperità duna patria bella, che, lacera ancora ed insanguinata, eccita tante gare straniere. Gli uomini illuminati d’ogni contrada, le nazioni intere degne d’un governo liberale, i sovrani che si distinguono per grandezza di carattere godranno della vostra impresa, ed applaudiranno al vostro trionfo. Potrebbe ella non applaudirvi l’Inghilterra, quel modello di reggimento costituzionale, quel popolo libero, che si reca a gloria di combattere, e di profondere i suoi tesori per l’indipendenza delle nazioni?

«Italiani! voi foste lunga stagione sorpresi di chiamarci invano: voi ci tacciaste forse ancora di inazione; allorché i vostri voti ci suonarono d’ogn’intorno. Ma il tempo opportuno non era peranco venuto, non per anco aveva io fatto prova della perfidia de’ vostri nemici: e fu d’uopo che l’esperienza smentisse le bugiarde promesse di cui v’eran si prodighi i vostri antichi dominatori nel riapparire fra voi.

«Sperienza pronta e fatale! Ne appello a voi, bravi e infelici Italiani di Milano, di Bologna, di Torino, di Venezia, di Brescia, di Modena, di Reggio e di altrettante illustri ed oppresse regioni. Quanti prodi guerrieri e patrioti virtuosi svelti dal paese natio! quanti gementi tra ceppi! quante vittime ed estorsioni, ed umiliazioni inaudite! Italiani, riparo a tanti mali, stringetevi in salda unione, ed un governo di vostra scelta, una rappresentanza nazionale, una Costituzione degna del secolo e di voi, garantiscano la vostra libertà e proprietà interna, tostoché il vostro coraggio avrà garantita la vostra indipendenza.

«Io chiamo intorno a me tutti i bravi per com battere. lo chiamo del pari quanti hanno profondamente meditato sugli interessi della lor patria, affine di preparare e disporre la Costituzione, e le leggi che reggano oggimai la felice Italia, la indipendente Italia.

Rimini, 30 Marzo 1815.
GIOACCHINO NAPOLEONE
per copia conforme
MILLET DI VILLENEUVE

In questo proclama già si rinvengono, con la sola eccezione della secolarizzazione degli Stati pontificj, le pretensioni, che costituiscono la questione italiana, cioè: riunione, indipendenza e reggimento costituzionale. E vi hanno anche i principali argomenti, coi quali le si difendono, e che sono l. ( e) essere ogni dominio forastiero illegittimo, perché forastiero; principio mai ancora stato ammesso nel mondo politico, né mai ammissibile, senza che ne segna doversi disfare tutti i grandi Stati d’Europa; 2.° aver la natura stessa ordinata e decretata la riunione, l’inseparabilità e l’indipendenza d’Italia, escludendone lo straniero coi mari e con le Alpi che la circondano; concetto anche questo falsissimo, perché il mare anzi facilita l’accesso ad un paese, se pur non ha coste scogliose che rendono l’avvicinarvisi pericoloso, e l’approdarvi impossibile: pericolo e difficoltà che le coste italiche non presentano che comparativamente in pochi siti; e quanto alle Alpi, perché la loro conformazione ne fa, in ispezialità di quelle poste fra l’Allemagna e l’italia, tutt’altro che una barriere insormontabile allo straniero (42).

E s’incontra pur anche in cotesto proclama già tutta spiegata quella tattica rivoluzionaria con la quale si é prodotta la fanatica agitazione per l’attuazione delle dette pretensioni; agitazione che ha replicatamente sconvolta da capo a fondo l’italia, che l’ha precipitata più volle in un abisso di disastri, e che sempre ancora minaccia, alla prima congiuntura che apparisca propizia a ulteriori tentativi di riscosse d’insurrezioni e di guerre, di precipitarvela di nuovo e di sprofondarvela più che mai. Cosi la tattica delle calunnie contro i governi italiani; e non meno contro i governi indigeni, che contro il governo austriaco del regno Lombardo—Veneto. Non vi ha scritto agitatore che non ne sia pieno—zeppo. L’iniziativa in questo ramo dell’arte di agitare è dovuta a Gioacchino Murat — E lo stesso è il caso, ancorché in un minor grado, delle false relazioni con le quali gli agitatori si sono sempre a vicenda ingannati in riguardo alle rispettive forze disponibili per l’impresa d’indipendenza italiana. I settarj dell’Italia settentrionale dicevano a quelli dell’Italia di mezzo, e dell’Italia meridionale, che nelle loro contrade tutto era apparecchiato, tutto pronto a sollevarsi ai primi segni che si avrebbero di una insurrezione del loro paese, ancorché gli apparecchiatisi non fossero che essi stessi. Un simile linguaggio tenevasi dai settarj dell’Italia meridionale a quelli dell’Italia di mezzo e dell’Italia settentrionale (43).

Questa reciprocità di menzognere illusioni ebbe già luogo fra la congrega lombarda e Gioacchino. Quella mentiva a questo tutto un esercito, che al suo approssimarsi al Po doveva raggiungerlo e rinforzarlo. Questo, se anche non mentiva nell’istesso modo alla detta congrega e all’Italia alla quale in generale indirizzava quel suo proclama, non esitava ad abbandonarsi alla più esorbitante esagerazione, raddoppiando, e più che raddoppiando la forza dell’armata con da quale intendeva di assalire l’Austria, dicendola ammontare a ottantamila uomini, quando non ne contava neppur la metà.

Finalmente, e questo è il punto più importante: abbenché il grido: l’italia farà da sé, fosse assai sovente suite labbra degli agitatori, non portante misero essi sempre il massimo impegno a far credere, che pel caso che pur essa non vi bastasse, vi avea ogni ragione di contare suite simpatie detta Francia e dell’Inghilterra; inganno che certamente è stato, come in seguito si vedrà, di, tutti quelli che l’agitazione a saputo mettere in opera, il più efficace, e che te ha servito e le serve qual ancora di speranza. Anche in questo riguardo il primo a far uso di questa leva agitatoria è stato quel disgraziato re. Già esso vantava le simpatie, per l’impresa da lui capitanata, della Francia e dell’Inghilterra, quantunque non vi avesse alcun anche minimo fondamento. Egli aveva ogni ragione di aspettarsi, che segnatamente l’Inghilterra non tarderebbe un momento, al primo sentore che essa avesse della, di lui mossa contro l’Austria, di fargli dalla Sicilia, per mare e per terra, la più aspra guerra. Non pertanto dimanda esso nel detto suo proclama. «Potrebbe l’Inghilterra, quel modello di reggimento costituzionale, quel popolo libero, che si reca a gloria di combattere, e di profondare i suoi tesori pell’indipendenza delle nazioni, non applaudire all’impresa d’indipendenza italiana?» — E cosi è chiaro, che l’agitazione italiana è stata dai suoi primordj alimentata e tenuta viva coi mezzi più abbietti, con assurde lusinghe, con turpi e schifose falsità, e con ogni sorta d’inganni, non esclusi i più riprovevoli.

Diffatti l’agitazione non è mai riuscita a far presa sul vero popolo italiano. Il di lui buon senso, uno dei doni più preziosi dei quali la natura gli fu si generosa, ha sempre resi vani tutti i di lei sforzi per sedurlo e per impadronirsene, ed ha respinte con disgusto e riprovazione tutte le di lei insinuazioni. La di lei propaganda non ha mai avuto altro campo di azione se non, quanto allo persone adulte, le sale dei settari, e le accademie letterarie; e quanto alla gioventù, le università, ed i convitti. Il vero popolo ha sempre veduto nei di lei capi gente o annellante di potere, o tormentata dall’«auri sacra famés» o degli Erostrati, i quali, purché il loro nome passi ai posteri, non sentono verun ribrezzo di mettere la loro bella patria a fuoco e a sangue. — Eppure, dirassi, l’Italia non pertanto continua ad agitarsi, ed a soffrire di essere agitata. Si, ciò è innegabile, ma è certo, che l’agitazione dopo gli avvenimenti del 1848 e 1849 sarebbe cessata, se in quegli anni non la fosse passata nelle mani del governo sardo, e se un avvenimento del tutto estraneo all’Italia, la questione o per meglio dire la guerra d’Oriente non gli avesse fornito l’occasione e il modo di tenerla in piedi, e di prolungarne la turpe vita. Mi spiego.

L’anno 1848 produsse, dalla seconda metà di febbrajo in poi, per qualche mese, diversi avvenimenti rivoluzionarj, ai quali gli agitatori italiani non ebbero nessuna, o tutto al più pochissima parte. Fu la rivoluzione di Parigi del 24 febbrajo, che eccitò la rivoluzione di Vienna, e fa questa, e l’idea che l’Austria sfasciavasi, che incoraggiò la insurrezione di Milano e di Venezia, e determinò Carlo Alberto alla guerra contro l’Austria, che si credeva agonizzante e spirante. Né questo, né gli agitatori lombardo—veneti avrebbero mai osato ricorrere alle armi contro di essa senza questa supposizione. Dirò di più che la caduta di Venezia, che fu il colpo che solo potè dare a quel la guerra un carattere serio, fu egualmente l’opera di una circostanza estranea affatto all’agitazione italiana. L’impresa di forzar l’Austria ad abbandonar il regno Lombardo—Veneto col Tirolo meridionale e col versante occidentale delle Alpi—Giulie era giunta al punto di divenir un fatto compiuto, quando l’edifizio crollò., Il modo come questo crollamento si fece, fu tale, che non si potè non riconoscervi un ultimatum della Provvidenza, la quale nei suoi misteriosi fini volle lasciar arrivar le cose ad un estremo, ad un maximum di probabilità di successo, per render l’impressione del non—successo, tanto più profonda e durevole. E certamente non furono pochi quelli fra i sedotti, che non agitavano ma agitavansi, i quali, comprendendone il significato, chinarono la testa, rassegnaronsi, ed acquietaronsi. Accadde anche che quelli fra gli agitatori che nel trambusto della sommossa, dell’insurrezione e della guerra riuscirono ad impadronirsi degli affari, facessero prova di tanta innettezza, che si screditarono affatto, che il dar loro ascolto si considerasse qual balordaggine o sciocchezza. L’agitazione era dopo il 1848 in tutta l’Italia avvilita e sfinita. Cosi nel regno di Napoli, cosi negli Stati pontificj, cosi in Toscana, cosi nel regno Lombardo—Veneto, cosi fin nel Piemonte.

Ma sebbene gli agitatori rivoluzionarj italiani, stante il totale discredito, nel quale erano caduti presso i loro connazionali, si vedessero condannati all’innazione non è per questo, che rinunciassero ai loro piani e non pensassero a ricominciare le loro operazioni alla prima favorevole congiuntura, che in Italia e nell’Europa si presentasse di ricominciarle con probabilità di successo. Forzati in seguito alle vicende del 1848 e del 1849, e al ristabilimento dell’ordine nei rispettivi paesi di emigrare, ripararono alcuni di essi in Inghilterra, altri nella Svizzera, ma la maggior parte cercò rifugio in Piemonte e lo trovò. Nel governo sardo avveravasi allora, e si avvera sempre ancora il detto di Emmanuele—Filiberto di Savoia, chi riceve l’ingiuria sovente la dimentica, chi la fa, giammai. Esso non sapeva e non sa perdonare all’Austria di non essersi da lui lasciala strappare il regno Lombardo—Veneto, e di avere, con grande di lei gloria, e con non piccolo di lui scorno, respinti due volte i di lui assalti. Tutto astio contro la detta potenza, riceveva quei rifuggiti a braccia aperte, e li ospitava come alleati. Essi vedevano nel di lui ministero una spezie di Direttorio, che aveva ai suoi comandi un esercito, attorno al quale l’insurrezione italiana potasse, nel caso di una nuova riscossa, ordinarsi. Quel governo dal suo canto ravvisava nei suoi ospiti degli alleati, che un di lo ajuterebbero a vendicarsi dei ricevuti affronti, ad attuare l’agognata fusione del regno Lombardo—Veneto, dei Ducati di Modena e di Farina e delle Marche e delle Legazioni col Piemonte, ed a impadronirsi dell’egemonia sul rimanente dell’Italia. Trascorsero cosi tre intieri anni, quando insorse la Questione d’Oriente, la quale eccitò non solo nei rivoluzionarj italiani, ma anche nei rivoluzionarj francesi ed inglesi le più sanguigne speranze di una vastissima tremenda guerra Europea. Né tardarono essi ad accordarsi nell’inasprire mediante la loro stampa a tal segno le parti contendenti, che poterono impedire la pacifica soluzione della il summenzionata questione. La guerra che si volle avere si ebbe; tuttavia non come desideravasi, nel centro dell’Europa, ma alle di lei estremità, da prima nei Principati Danubiani, e poi nella Crimea, però sempre ancora fiera abbastanza per consumare delle centinaja di migliaja di uomini.

Alla detta guerra, per la quale notoriamente si allearono la Francia e l’Inghilterra in soccorso della Porta contro la Russia, si associò con un trattato di alleanza, che porta la data di Torino e dei 12 gennajo 1855, anche il governo Sardo—Piemontese per quindicimila uomini, che di fatti sbarcarono verso la fine di aprile in Crimea nel porto di Balaclava. La di lui accessione ad una si formidabile coalizione, e l’invio dei summenzionati quindicimila uomini nella Crimea, fece nei fasti dell’agitazione italiana epoca. La guerra alla quale esso prendeva parte era affatto estranea ad ogni interesse sardo—piemontese, e ad ogni interesse italiano. Siccome la questione d’Oriente involgeva una causa di nazionalità, vale a dire la causa greca, cosi il prendervi parte era pel governo sardo—piemontese evidentemente una completa rinegazione della sua fede politica. Esso aveva già nel 184fornito con la guerra contro l’Austria, malgrado l’opposizione di tutto il vero popolo piemontese, la prova la più convincente, e ora la dava per la seconda volta, che i governi costituzionali sanno essere assoluti e dispotici come nessun sovrano cristiano, sia pur quanto mai si voglia persuaso di non essere responsabile dei suoi dettati se non a quello da cui deriva ogni autorità su questa terra, e alla propria coscienza, oserebbe oggigiorno essere. Tutto ciò non ha per altro impedito che quei quindicimila uomini, che il ministero sardo—piemontese rimetteva alla detta coalizione, si considerassero dagli agitatori, o almeno si volessero far apparire, come una caparra, che doveva assicurare al di lui governo, in ogni guerra che gli venisse la voglia nella sua irrequietezza rivoluzionaria di provocare, una potente cordiale assistenza. Né mancò certamente quell’alleanza, e particolarmente il vedere, allorché si trattò nel 1856 al congresso di Parigi la pace fra le potenze che avevano preso parte alla guerra d’Oriente, sedersi e prender posto fra li rappresentanti delle grandi potenze Europee anche due Plenipotenziarj sardo —piemontesi, di fare sull’Italia un grandissimo senso, e di riprodurre in migliaja di teste il riscaldo, che era stato dagli avvenimenti del 1848, e 184 raffreddato.

Importa, nessuno certamente io negherà, assai per la pace d’Italia, di conoscere bene e a fondo la politica della Francia e dell’Inghilterra in riguardo alle pretensioni che costituiscono la questione italiana e in ispezialità in riguardo a quella di staccare dall’Austria il regno Lombardo—Veneto, questione non tanto italiana quanto eminentemente Europea. Questa conoscenza ha per l’Italia e per tutta l’Europa la più grande importanza. Vediamo, cortese Lettore, di arrivarvi. La via è un pò lunga, ma piana, e senza ingombri di veruna sorta.

Lo scopo del congresso di Parigi era uno solo, quello cioè di porre definitivamente fine alla guerra d’Oriente con una pace solida e durevole. Egli è un fatto, che i Plenipotenziarj della Russia, della Prussia, dell’Austria e della Porta non avevano altri poteri che relativamente alla suddetta pace, e che gli articoli della pace furono in dieciotto sedute discussi e formulati, e il trattato firmato il 30 marzo, senza che si parlasse di altro, che di cose relative alla pace. Se non che i Plenipotenziarj sardi, conte di Cavour, e marche8e Villamarina consegnarono il giorno 27 marzo al Primo—plenipotenziario francese conte Walewski, e al Primo—plenipotenziario inglese conte di Clarendon, tre giorni prima che si passasse alla sottoscrizione della pace, una nota verbale, che il Lettore troverà fra le note e documenti annessi a questo capitolo la quale tratta di cose relative all’Italia; ma è certo che di cose italiane non si è parlato se non nella seduta ventesimaseconda che ebbe luogo soltanto il giorno 8 aprile. Nella summenzionata nota è detto in sostanza: che il governo clericale pontificio era un governo incapace di tener le suo popolazioni ordinate, e di preservarle dall’anarchia; che ciò rendeva necessaria la presenza di truppe forestiero francesi e austriache; che uno stato che aveva bisogno di truppe forestiere per tenersi in piedi era una anomalia; che l’occupazione forestiera, spezialmente quella delle Legazioni per parte degli Austriaci, produceva una situazione incompatibile col l’equilibrio politico; che la debolezza del governo pontificio forniva all’Austria un pretesto per farvi da padrona; che per rimediarvi conveniva secolarizzare quegli Stati, e se non tutti, almeno le Legazioni.

Non fermiamoci a commentare questa nota, e limitiamoci a dirla in molti punti anche di fatto, e sino in molti punti istorici, sui quali si hanno delle relazioni superiori ad ogni eccezione, lontanissima dal vero; e a osservare, che mentre sino alla metà del 1848 i rivoluzionarj italiani non vedevano altro ostacolo alla loro opera, se non l’Austria; dalla detta epoca in poi ne riconoscono due; l’Austria e il Papato. La revoluzione italiana dico il Montanelli, ex—Presidente del consiglio dei ministri, ed ex—Triumviro del governo provvisorio toscano nel 184se non sia il Papa che la faccia, come avevamo creduto possibile gridando capo—popolo Pio IX, convien si faccia contro di lui, e conseguentemente contro gl’interessi Europei, che gli mantengono signoria in Italia (44).

Il nostro scopo è qui di conoscere sino a qual segno la politica delle due potenze occidentali si accorda con quelle del governo e del ministero sardo—piemontese o ne differisce. Sentiamo ora le due parlate.

Il conte Walewski prese le sue mosse dallo stato anomalo del regno Ellenico, che per non degenerare in anarchia richiedeva un presidio forastiero; disse che la Francia e l’Inghilterra che la fornivano, non desideravano altro, che di ritirarlo, appena lo si potesse fare senza detrimento del detto regno. E ciò detto osservò che pur troppo anche lo stato Pontificio presentava la stessa situazione e condizione anomale, e la stessa complicazione come il regno Ellenico.

«La necessità cito le sue parole di non lasciar gli Stati pontificj in balte dell’anarchia ha determinato la Francia, come anche l’Austria, a condiscendere alla richiesta della Santa Sede, e ad occupare con truppe francesi Roma, e con truppe austriache le Legazioni. La Francia ha avuto un doppio motivo di deferir senza esitanza a quanto le si chiedeva, in primo luogo come potenza cattolica, ed in secondo come potenza Europea, 11 titolo di figlio primogenito della Chiesa, del quale il Sovrano della Francia si gloria, faceva all’Imperatore un dovere di prestar assistenza e sostegno al Sovrano Pontefice. La tranquillità degli Stati romani dalla quale dipende quella di tutta l’Italia si connette troppo da vicino col mantenimento dell’ordine in Europa onde la Francia non abbia un particolar interesse a contribuirvi con tutti i mezzi che sono in suo potere».

Aggiunge poi il conte, che egli non disconosce quel tanto che vi ha di anomalo nella situazione di una potenza, che per non cadere, ha bisogno di essere sostenuta da truppe forastiere; e dichiara, osservando che anche l’Austria trovasi in riguardo alle di lei trappe dell’istesso parere che la Francia era non solo pronta a ritirare lo sue, ma che non desiderava altro che il momento di poterlo fare senza compromettere la tranquillità interna del paese, e l’autorità del governo pontificio, alla prosperità del quale l’augusto suo Sovrano l’Imperatore non tralascierà in verun tempo di prendere il più vivo interesse. E proseguendo a parlare degli Stati pontificj, disse, doversi desiderare nell’interesse dell’equilibrio Europeo che il governo pontificio si consolidi e si faccia sufficientemente forte all’uopo, che le truppe francesi ed austriache possano sgombrare senza inconveniente i di lui Stati; che egli crede che un voto espresso in questo senso (vale a dire in riguardo alla necessità di consolidanti e di non aver bisogno di truppe forestiere) avrebbe 1approvazione di tutte le potenze rappresentate al Congresso.

Il di più della parlata del conte Walewski risguardò l’irrequietezza rivoluzionaria nel regno di Napoli. Egli chiedeva in termini general, se non fosse a desiderarsi che taluno dei governi della penisola italica avvicinasse a sé con degli atti ben intesi di clemenza gli spiriti traviati e non pervertiti, e con ciò mettesse un termine ad un sistema in contraddizione coi proprio scopo, e che invece di colpire i nemici dell’ordine, tendeva a render deboli i governi, e a rinforzare la demagogia. Il conte fini relativamente a Napoli col dire, che a suo parere sarebbe rendere un segnalato servigio non meno al detto governo, che alla causa dell’ordine nella penisola, se esso venisse illuminato sulla falsa strada da lui presa; e che degli avvertimenti, concepiti nel prefatto senso, provenienti dalle Potenze rappresentate al Congresso non potrebbero non venir ben accolte.

Ore si dimanda se il conte Walewski poteva più chiaramente e più francamente negare alla nota sardo— piemontese, ancorché non la menzionasse, ogni e qualunque assenso e consenso? 11 di lui discorso, che per rapporta al luogo ove è stato tenuto, fu un solenne manifesta destinato a far conoscere all’Italia, all’Europa e al mondo intiero la politica della Francia relativamente alle cose d’Italia, doveva necessariamente distruggere nei Plenipotenziarj sardo—piemontesi, e nel partito agitatore ricoveratosi in Piemonte fin l’ultima speranza di cangiar il status quo, politico e territoriale dell’Italia. Considerando con la dovuta attenzione i termini usati dal conte Walewski, lo si vede impegnato a togliere ogni dubbio sulle intenzioni della Francia in riguardo all’Italia, e sul partito da esso preso di non permettervi, anziché di favorirvi, riscosse, e insurrezioni contro i governi italiani La Francia vedeva nell’irrequietezza rivoluzionaria italiana un fomite di sconvolgimenti politici e di guerra non solo per l’Italia ma per l’Europa intiera, e dichiarava di non voler tollerare nulla che minacciasse la pace Europea, e di credersi in dovere di usar d’ogni mezzo che stava in suo potere per impedire tutto ciò che la potrebbe turbare. Quanta al Papato, lungi dall’aderire alle insinuazioni dei detti Plenipotenziarj, il conta ne fa in nome della Francia non meno che del figlio primogenito della Chiesa, un vero 9 guai a chi osa toccarmi.

Il conte di Cavour credette non pertanto di poter dire alla Camera dei deputati piemontesi al suo ritorno dal Congresso: che l’accoglienza fatta alla sua nota 0 verbale consegnata alla Francia e all’Inghilterra era stata accolta molto favorevolmente. Che l’Inghilterra non esitò a dare alla proposta che essa conteneva 0 la più completa adesione, e che la Francia, abbenché stimasse a proposito di far un ampia riserva 0 all’effettuazione della medesima ne aveva per altro 0 anch’essa ammesso il principio. Dio buono! che camera di deputati poteva esser quella alla quale un ministro osava tener un discorso tanto lontano dal vero! Quanto all’Inghilterra, il di lei Primo—plenipotenziario conte di Clarendon non si è mostrato meno del Primo—plenipotenziario francese avverso all’agitazione rivoluzionaria italiana. Vi ha però una notevole differenza fra le due parlate, la quale consiste nel che il Plenipotenziario inglese ha accentuata la sua con molta maggior forza ed energia, che non il Plenipotenziario francese, evidentemente nell’intenzione di distruggere l’opinione diffusasi in Europa, il come e il perché è qui indifferente, che l’Inghilterra fomentava negl’Italiani lo spirito rivoluzionario. Il conte di Clarendon, dopo aver anch’esso come il conte Walewski parlato del presidio anglo—francese, che aveavi in Atene; disse che col giorno 30 marzo 1856 erasi iniziata un’era novella, un’era di pace; averla cosi denominata l’Imperatore Napoleone III alla presentazione del trattato da essi firmato. Ma che volendo essere conseguenti conveniva non tralasciar nulla di ciò, che si richiedeva, per render la pace, che si era fatta, solida, e durevole; che il Congresso, che ivi rappresentava le prime potenze dell’Europa mancherebbe ai suoi doveri qualora consacrasse col suo silenzio delle situazioni nocevoli all’equilibrio politico, e che mettono in pericolo la pace in nno dei paesi più interessanti dell’Europa, vale a dire in Italia. Ecco anche il Plenipotenziario inglese, che non ha in vista altro se non in primo luogo l’attuale stato dell’equilibrio politico e, in secondo, la pace; la pace in Europa in generale, e la pace nel bel paese in particolare; dunque niente riferibile al promovervi riscosse, o modificazioni territoriali, che attendevano i deputati piemontesi dalla diplomatica operosità dei Plenipotenziarj sardo—piemontesi al Congresso di Parigi.

Il conte di Clarendon, ciò è vero, fece sua la proposta contenuta nella nota verbale sardo—piemontese, di secolarizzare, se non tutto lo Stato pontificio, per lo meno le Legazioni. Ma la fece egli sua nel senso, nell’intendimento, e nello scopo dei di lei autori? La fece egli sua per appiccare il fuoco all’Italia centrale che non avrebbe mancato di estendersi anche all’Italia settentrionale, e all’Italia tutta intiera? Egli se ne incaricò perché ciò non ripugnava alla sua situazione di acattolico e di acattolico anglicano elevato dalla sua più tenera età nei pregiudizj contro il Papato; e perché supponeva l’irrequietezza rivoluzionaria che regnava o si diceva regnare nello Stato pontificio, nna necessaria conseguenza di mal governo: mentre se realmente malgoverno vi avea, l’irrequietezza rivoluzionaria poteva benissimo esserne non l’effetto, ma la causa; ciò che era anche il caso, come lo testifica non un prelato romano, ma il personaggio più competente, più autorevole, che in una tal causa potesse chiamarsi a dar esalto conto del vero stato della questione romana, il conte di Reyneval ambasciatore al tempo del congresso per la Francia presso la Santa Sede (45).

Il Plenipotenziario inglese s’ingannava sulla genesi del male, e perciò necessariamente anche sui mezzi di rimediarvi; ma il suo scopo era decisamente ed essenzialmente conservativo, e tutt’altro che quello degli autori della proposta. Il ragionamento del conte di Clarendon era logico e giustissimo; egli diceva: Per togliere la necessità dei presidj forastieri convien togliere innanzi tutto i giusti motivi di malcontento, senza di ciò si renderà indispensabile un permanente sistema poco onorevole pei governi e affliggente pei popoli. Secondo lui l’amministrazione negli Stati romani andava incontro a degli inconvenienti, dai quali potevano nascere dei pericoli, che il congresso aveva il diritto, se mai poteva, di allontanare; il negligere!!, aggiungeva egli, era un operare nel senso della rivoluzione, che tutti i governi condannano, e vogliono impedire. E, come contro il governo pontificio, cosi mostravasi egli preoccupato anche contro il governo di Napoli, e istessamente perché, come in seguito è stato dimostrato, non ben informato (46).

Per altro la sua politica è sempre rimasta quella della pace. Ciò che noi vogliamo, diceva egli, è che la pace non sia disturbata. Or pace non vi ha, ove non vi ha giustizia. Noi dobbiamo perciò far arrivare al Re di Napoli un voto del congresso per una correzione del suo sistema governativo; voto che non saprebbe restar senza effetto, e chiedergli un’amnistia a favore delle persone che per delitti politici vi sono state condannate o vi sono detenute senza processo. Egli poteva non esser ben informato, e certamente si ingannava nel considerare l’agitazione italiana come un effetto quando essa era una causa. Ma qui finisce ogni eccezione che si possa Tare con ragione e fondamento al suo discorso, che ebbe in tutto e per tutto una tendenza conservativa e antirivoluzionaria.

Conchiudiamo dunque che la politica della Francia e dell’Inghilterra professata al congresso di Parigi nella ventesimaseconda tornala il giorno 8 aprile 1856 relativamente all’Italia è stata una politica diametralmente opposta e quella dell’agitazione rivoluzionaria che ha per iscopo di strappare all’Austria il regno Lombardo—Veneto, e la fusione di tutta l’Italia in un solo stato, e in generale di rivoluzionaria; e che l’idea con la quale si alimenta dal ministero sardo—piemontese oggidì l’agitazione italiana, cioè che ad una sua richiesta si alzerebbero in suo ajuto e a suo sostegno la Francia e l’Inghilterra, non ha maggior fondamento di quella che metteva in campo nel suo manifesto di Rimini Gioacchino Murat; cosicché la storia dell’agitazione italiana può riassumersi nelle seguenti pochissime parole: essa è sempre stata tenuta viva e alimentata, e tutt’ora si alimenta con i mezzi i più riprovevoli, e con delle speranze immaginarie e delle fantasmagorie. Sedutosi il conte di Clarendon, prese la parola il conte Orloff Primo—plenipotenziario per la Russia per dire di non avere né istruzioni né poteri che lo autorizzassero a prendere parte a quella discussione, e che doveva astenersene. Lo stesso disse anche il conte Buol Primo—plenipotenziario per l’Austria. Il barone di Manteuffel Primo—plenipotenziario per la Prussia mancava egualmente d’istruzioni e di poteri, pure fece comprendere che il passo relativamente a Napoli gli pareva più atto a far del male che del bene. Il conte di Cavour dichiarò su di ciò che non intendeva contestare a dei Plenipotenziarj, che mancavano delle relative autorizzazioni, il diritto di astenersi dal prender parte ad una discussione. Egli si contentà di chiedere, che quel tanto che erasi detto in riguardo alle cose d’Italia si prendesse a protocollo, ciò che il congresso accordò. La discussione non ebbe quindi verun risultato diretto. Essa fu non di meno un evento della massima importanza per l’Italia, perché tolse ogni dubbio che i mille Piemontesi che miseramente perirono nella Crimea, e gli ottanta milioni che aveva costale quella spedizione, non avevan fruttato al Piemonte se non l’onore che il conte di Cavour e il marchese Villamarina suoi rappresentanti potessero sedere assieme con dei rappresentanti della Porta ad un congresso delle cinque grandi potenze Europee, e del resto tolta ogni speranza all’agitazione italiana, che l’Europa si lascierebbe turbare la sua pace con dei tentativi di attuare quelle di lei pretensioni che costituiscono la questione italiana (47).

Nella prossima tornata che fu la ventesimaterza, ed ebbe luogo il 13 aprile, si parlò di nuovo di cose italiane, ma soltanto a modo di dilucidazione. Il giorno 16 aprile il conte di Cavour e il marchese Villamarina rimisero al conte Walewski e al conte di Clarendon una seconda nota sulle cose d’Italia, nella quale le solite arti degli agitatori italiani sono portate all’ultimo eccesso; ragione per la quale ho creduto di doverla mettere per intiero sotto gli occhi del Lettore e di aggiungervi anche quella del conte Buol a riscontro di essa, e dei discorsi tenutisi nella camera dei Deputali piemontesi al ritorno del conte di Cavour dal congresso di Parigi. Essa contiene diversi punti, dei quali dovremo nel corso di questi studj seriamente occuparci.

Nel seguente capitolo verremo, cosi credo, alla conclusione: richiedere la pace e la sicurezza dell’Europa, che essa consideri e tratti la questione italiana non altrimenti che ha considerata e trattata la questione d’Oriente; cioè come una questione eminentemente Europea; ed essere della più grande importanza di porre un fine all’agitazione italiana, che minaccia di disturbare in sommo grado l’azione dell’equilibrio politico in ogni guerra dell’Oriente con l’Occidente, o della Francia congiunta con la Russia contro il rimanente dell’Europa.

CAPITOLO IV

Sulla necessità per l’Europa di porre una fine all’agitazione italiana.

Vi hanno nella storia della questione dOriente la quale, ciò sia detto per parentesi, ha una grande analogia con la questione italiana, e nel modo come essa è stata considerata, trattata e sciolta, due gravi ommissioni o reticenze, che sono 1.° l’azione perturbatrice, che ha esercitato sullo sviluppo e sulla soluzione della detta questione, sotto l’egemonia sardo—piemontese, l’agitazione italiana, e 2 la parte che ha avuto l’Austria all’esito della guerra d’Oriente. Egli è della massima importanza in riguardo alla questione italiana di riempiere questi vuoti, e di chiarire i prefatti due punti. Se non m’inganno, chiariti che essi fossero, non resterebbe verun dubbio, essere del dovere e del decoro delle grandi potenze Europee di porre una fine alla detta agitazione e alla detta egemonia, che assieme costituiscono nell’Europa un’anomalia, che vi mette l’intiero suo diritto pubblico in forse.

Chiunque abbia seguito con attenzione nelle di lei fasi la questione d’Oriente si sarà convinto, che nessuna delle cinque grandi potenze Europee, e la Russia non più delle altre, vole va la guerra, e che quanto all’Impero turco, esso non solo non poteva volerla o desiderarla, ma aveva ogni motivo di sommamente temerla. Eppure è stato esso che l’ha iniziata e che vi ha strascinato sec|o, per quanto i rispettivi gabinetti vi ripugnassero, la Francia e l’Inghilterra. Si vuole, essere stato Lord Strafford de Redcliffe, l’ambasciatore in quel tempo inglese a Costantinopoli, l’autore principale della consulta, la quale spinse la Porta a rigettar la nota viennese, che conteneva un aggiustamento già accettato dalla Russia, e a dichiarare a questa il giorno 4 ottobre 1853 la guerra senza minimamente curarsi di ciò, che facevasi altrove nel di lei interesse e a di loi protezione da tutte le grandi potenze Europee. Egli è però certo che quel diplomatico fece tutto ciò contro gli ordini, le istruzioni e le intenzioni del suo ministero, e che senza i rivoluzionarj, i quali dopo la guerra del 1849, e poi ai primo sentore delle differenze insorte fra la Russie e la Porta ripararono a stormi nella Turchia, e vi fanatizzarono il popolo musulmano, Lord Redcliffe non avrebbe trovato le menti e gli animi disposti a cedere ai suoi impulsi (48).

Ed è d’altronde innegabile che, se la Francia e l’Inghilterra non si unirono alle duo potenze allemane, all’Austria e alla Prussia per forzare la Porta ad accettare le proposte contenute nella nota viennese, e invece si associarono a questa nella guerra che già ardeva contro la Russia, ciò proveniva unicamente dal che anch’esse avevano un pubblico dalla stampa rivoluzionaria fanatizzato, e perché neppure esse trovavansi in istato di signoreggiar la loro situazione, che le precipitò a loro dispetto in una guerra, della quale, come il seguito l’ha provato, non conoscevano né il peso né la portata, e senza che sapessero né come la si dovesse condurre, né come la si potrebbe finire. L’Austria, la Prussia e la Confederazione Germanica non cedettero alla pressione rivoluzionaria; ma la prima si trovò allacciala alla Russia da relazioni dalle quali non seppe o non potè sciogliersi, e che la indussero a prendere il peggior partito di tutti, quello cioè di non prenderne nessuno, e d rinunciare in un certo modo, per quanto il momento fosse critico per l’Europa e per la Germania, alle funzioni di grande potenza Europea, e questo mal esempio seguendo, fece lo stesso anche la Confederazione Germanica.

L’Austria invece, ancorché la sua situazione fosse senza confronto la più complicata e la più minacciala di tutte, fece, grazie al profondo seno politico, e all’imperturbabile dominio di sé stesso del suo nobile, generoso e cavalleresco giovine Imperatore: qualità queste da fare il più grande onore a qualunque più mature uomo di Stato, rimpetto all’Europa in riguardo alla questione d’Oriente il suo dovere di mediatrice con in una mano l’olivo, e nell’altra la spada, e lo fece ancorché non potesse non provare il massimo ribrezzo di associarsi ad una causa la quale, per quanto la fosse conservativa, ed eminentemente Europea, era però divenuta, con lo scopo più abbominevole, la causa anche dei rivoluzionari in generale e dei rivoluzionari italiani in particolare, ai quali ultimi nulla stava nella questione d’Oriente più a cuore, che di dar altrove tanta occupazione all’Austria, che dovesse abbandonare il regno Lombardo—Veneto a sé stesso onde, appena lo si vedesse senza sufficiente presidio, invaderlo, farlo insorgere e fonderlo, come nel 1848, col Piemonte. Essa fece il suo dovere, ancorché l’agitazione italiana e l’altitudine sempre ostilissima del regno Sardo—piemontese divertissero una considerevole parte delle sue forze e indebolissero la sua azione. Senza questo incidente appena puossi dubitare che essa avrebbe impedita la guerra d’Oriente, la quale, se non avesse fatto altro male, ha fatto quello immenso di sconcertare da capo a fondo il concerto Europeo, e di mettere l’Europa nella dura necessità di cercar a combinare nuovi accordi e concerti politici. La storia ha intieramente trasandata, sia per non conoscerla sia per cortigianeria verso i rivoluzionarj, la perturbazione che ha sofferto il corso e lo sviluppo naturale della questione d’Oriente per parte dell’agitazione italiana, e del regno Sardo—piemontese, coi sospendere, paralizzare ed indebolire l’azione mediatrice dell’Austria. Or si dimanda, se non sia necessario d’impedire simili perturbazioni, e di prevenirle per non aver poi a combatterle, quando si potrebbe non esser più a tempo di farlo. Discutiamo queste domande, e rispondiamoci.

Ho qualificate nella introduzione di questo capitolo l’agitazione italiana e l’egemonia sardo—piemontese anomalie che mettono tutto il diritto pubblico Europeo in questione. Nella tornata degli 8| aprile del Congresso di Parigi 1856, che è quella nella quale si è parlato di cose italiane, e stato fatto replicatamente uso della parola anomalo. Anomalo è stato detto il regno Elleno; anomalo lo Stato pontificio. La parola vi si è sempre usala nel significato, che uno Stato anomalo è una spezie di scandalo politico, che il concerto Europeo è in dovere al più presto fia possibile di togliere. — Ma quale Stato saprebbe essere più anomalo, più uno scandalo politico di quello il quale si crea la missione di prestar soccorso ad ogni ribellione che accade in uno Stato limitrofo, ancorché si ritrovi con esso lui sul piede di una profonda pace; che si credo chiamalo a censurare, discreditare, calunniare i governi suoi connazionali; di aizzarvi contro con accuse falsissime le potenze occidentali; che riproduce in sé l’uomo del Vangelo colla trave nell’occhio, della quale non si accorge, mentre vede la pa gliuccia nell’occhio del suo prossimo, e ne mena il più gran rumore: uno Stato ove non solo colla stampa più infame, ma fin dalla tribuna si predica… Ma basta! Si! non vi ha oggidì in Europa stato più anomalo, più perturbatore della di lei pace e sicurezza del regno Sardo—piemontese. l’Europa, dacché è cristiana, non ha presentato niente di si anomalo nei suoi stati. Eppure il concerto Europeo lo soffre!! (49).

Allorché nel 1854 le potenze occidentali si preparavano a soccorrere la Porta nella di lei guerra colla Russia, il regno Elleno, il fatto è certo, mandava segretamente uffiziali e soldati in soccorso dei Cristiani insorti contra i Turchi nell’Epiro, nella Tessaglia e nella Macedonia. L’impero turco non apparteneva ancora al concerto Europeo; non aveva ancora data veruna fondata speranza, che rimedierebbe radicalmente alla deplorabile condizione dei suoi sudditi cristiani; esso aveva rigettata la nota viennese; quelle genti erano realmente infelicissime; la loro sorte era sotto ogni aspetto deplorabile; dessa non era per nulla la commedia con la maschera della tragedia dell’infelicità italiana; esse vantavano i più giusti titoli alle simpatie dell’Europa, la quale sino allora aveva sempre considerate le insurrezioni greche come legittime (50).

Il regno Elleno era nna recente creazione delle potenze occidentali di concerto con la Russia. L’iniziativa vi aveva preso non la Russia ma, durante il ministero Canning in luglio del 1827, l’Inghilterra. Fu nna flotta anglo—francese—russa, che il giorno 20 ottobre dello stesso anno distrusse, a difesa e protezione dei Greci, nel porto di Navarino la flotta turco—egizia; fu un esercito francese che tolse o fini di togliere la Morea alla Porta; e furono la Francia, l’Inghilterra e la Russia che nella conferenza di Londra dei 22 marzo 182si accordarono a staccar dall’Impero turco quel complesso di continente di penisole e d’isole che costituiscono oggidì il detto regno il quale evidentemente non potè aver verun altro scopo, se pur n’ebbe uno, che di servire ai futuri tentativi di emancipazione della penisola greca, di base e di appoggio.

Ciò non ostante, a fronte di tutto ciò, appena alzò all’annunzio della summenzionata insurrezione la Porta il grido: Ajuto, soccorso che gli Alleati affrettaronsi di sbarcare con tre mila uomini Ira Francesi e Inglesi al Pireo, (25 maggio 1854) occuparono Atene; e intimarono, a rigor di termine, a spada tratta al Re Ottone di cangiar il suo ministero, e di richiamare senza remora, immediatamente, gli Uffiziali e soldati della sua truppa, che eransi messi alla testa o nelle file degli insorgenti. — Ora se il tentativo di quei Cristiani di emanciparsi da un governo decisamente barbare e tirannico, era ribellione e se non era lecito di proteggerlo e di soccorrerlo ad uno stato, che non poteva aver altra destinazione che, come ho detto poco fa, di servire ad ogni siffatto tentativo di base e di appoggio: perché non sarebbe ribellione una insurrezione lombardo—veneta contro l’impero austriaco? perché non sarà un delitto di leso—diritto—pubblico il promoverla con delle speranze e anche delle promesse di soccorrerla? Vi risponde il Martens: «C’est sans doute se déclarer l’ennemi du genre humain que de tacher à exciter les peuples à la révolté en leur promettant secours (51).

» l’altitudine del regno Sardo—piemontese rimpetto all’Austria é non solo un delitto di leso—diritto—pubblico, ma un delitto di lesa—umanità. In chi sta la colpa della tragedia di Brescia? In Haynau? qual confusione d’idee!!

Dacché si tengono congressi non vi ha esempio che la conservazione di une Stato e la sua integrità divenisse l’oggetto di tante cure e cautele, di quanto divenne l’Impero turco al congresso di Parigi del 1856. Il settimo articolo del trattato di pace dei 30 marzo del detto anno dice:

«Leurs Majestés (L’imperatore dei Francesi, l’imperatore d’Austria, la Regina d’Inghilterra, il Re di Prussia, l’Imperatore di tutte le Russie, e il Re di Sardegna) — déclarent la sublime Porte admise à participer aux avantages du droit public et du concert Européen. Leurs Majestés s’engagent, chacune de son coté à respecter l’indépendance et l’intégrité territoriale de l’Empire Ottoman, garantissent en commun la stricte observation de cet engagement, et considéreront en conséquence, tout acte de nature à y porter atteinte comme une question d’intérêt général».

E l’ottavo: «— S’il survenait, entre la sublime Porte, et 1une ou plusieurs des autres Puissances signataires, un dissentiment qui menaçait le maintien de leurs relations, la Sublime Porte et chacune de ces Puissances, avant de recourir à l’emploi de la force, mettront les autres Parties contractantes en mesure de provenir cette extrémité par leur action médiatrice».

Chi non crederebbe che ciò avesse dovuto bastare a tranquillizzare il congresso in riguardo alla sicurezza e all’integrità dell’Impero turco, il quale trovavasi in seguito al detto trattato posto sotto la guarentigia di tutte le cinque grandi potenze Europee non esclusa la Russia, e per soprappiù che direbbe Napoleone, il quale non si dava pace al vedere fra i rappresentanti delle grandi potenze Europee che lo accompagnavano nel suo viaggio all’isola d’Elba, anche il rappresentante della Prussia la quale pur conta per tre Sardegna? anche sotto quella della Sardegna. Ma no, quei due articoli furono dalla Francia, dall’Inghilterra e dall’Austria giudicati insufficienti, e queste tre potenze si unirono separatamente in un’alleanza di garanzia del trattato dei 30 marzo, e segnarono il famoso trattato dei 15 aprile concepito nei seguenti termini:

«— Sa Majestà l’Empereur des Français, Sa Majestà l’Empereur d’Autriche et Sa Majestà la Reine du Royaume Uni de la Grande—Bretagne et d’Irlande voulant régler entre elles l’action combinée qu’entrenerait, de leur part, toute infraction aux stipulations de la paix de Paris, ont nommée à cet effet, pour leurs Plénipotentiaires, savoir; le comte Colonna Walewski, le comte Boul—Schauenstein et le baron de Hübner, le comte de Clarendon et le baron Cowley, lesquels sont convenus des articles suivants:

«Article 1. — Les hautes Parties contractantes garantissent solidairement entre elles l’indépendance et l’intégrité de l’Empire Ottoman, consacrées par le traité conclu à Paris le 30 mars 1856.

«Article 2. — Toute infraction aux stipulations du dit traité sera considérée, par les Puissances signataires du présent traité, comme «casus belli». Elles s’entendront avec la Sublime Porte sur les mesures devenons nécessaires, et détermineront sans retard, l’emploi à faire de leurs forces militaires et navales.

«Articles 3. — Le présent traité sera ratifié, et les ratifications en seront échangées dans l’espace de quinze jours, ou plus—tôt s’il est possible. En foi de quoi etc. Fait à Paris le 15.° jour du mois d’avril 1856».

Questo trattato dei 15 aprile fu uno degli avvenimenti relativamente alla questione d’Oriente che più diedero a pensare al pubblico politico, e vi hanno sul di lui significato e sulla di lui portata le più svariate interpretazioni. Per comprenderne il senso e spiegarne il bisogno, convien ricorrere alla storia della guerra d’Oriente, e indagarvela parte ch’ebbe l’Austria nella di lei decisione in favore della causa Europea, ciocché non si tarderà a fare. Pur credo di esser già ora autorizzato a osservare, che tutte queste garanzie a protezione dell’Impero turco non saprebbero assicurarlo, e rimarranno illusorie, sino a tanto che uno stato limitrofo con le sue macchinazioni potrà fare nna guerra, se anche Borda, però continua alla potenza che producendosi il casus belli» avrebbe la prima a correre alle armi, e a misurarsi col gigante, contro del quale si crede di dover prender tante cautele. come potrebbe l’Austria invilupparsi in una guerra colla Russia o altra potenza, che il trattato di pace dei 30 mono 1856 e quello di garanzia dei 15 aprile del detto anno le imporrebbero, finché sta in balia di uno Stato, che è il flagello di sé stesso e degli Stati italiani i quali hanno la disgrazia di averlo per vicino, di paralizzarne, collegandosi con l’agitazione italiana, l’azione? Non si parti di equilibrio politico finché si lascerà durare una siffatta anomalie.

Su questa azione perturbatrice che esercita sul1equilibrio politico Europeo l’agitazione italiana sotte l’egemonia sardo—piemontese, ci resta non poco ancora a dire; lo diremo più tardi; per ora ricorriamo alla storia della guerra d’Oriente, onde indagare la parte che si ebbe l’Austria nella di lei decisione. Tre sono i momenti dei quali dobbiamo occuparci. Il 1. è la condizione dell’Impero turco nei primordii della guerra relativamente ai suoi cristiani di rito greco, ai Serbi, ai Montenegrini, e agli Elleni, il 2.° Io sgombro per parte dell’armata russa dei Principali danubiani, e la loro occupazione per parte di un corpo d’armata austriaco; il 3. la diversione effettuata dall’Austria in vantaggio della guerra nella Crimea.

I. La guerra fra la Porta e la Russia era appena incominciata, che si rendeva ad ogni intelletto sano e riflessivo chiaro e manifesto, che la prima vi si era lanciata a occhi chiusi senza vederne i pericoli. Le popolazioni cristiane di rito greco di lei suddite, una volta venute a conoscere, ciò che era inevitabile, la cagione e il motivo delle differenze insorte fra la Porta e la Russia, e che vi si trattava di un patronato che desse a questa un titolo legale di migliorar la loro infelicissima sorte, e di alleggerir loro il peso della schiavitù sotto alla quale gemevano, e di porti nel caso di poter esser liberamente cristiani, le dette popolazioni, dico, dovevano necessariamente vedere nello Czar il loro liberatore e disporsi ad insorgere contro i Turchi subito che seppero, che un’armata russa si avvicinava al Danubio. Per quelle genti il riconoscimento per parte del Sultano del patronato voluto dalla Russia era la cosa più indifferente del mondo. Il male che poteva fare quel patronato, se ammesso formalmente, lo fece già l’annuncio di essere stato addimandato. Appena si seppe che la guerra era dichiarala, ché una incredibile irrequietezza s’impadronì dei cristiani di rito greco in tutta la Turchia; cercavano armi e munizioni, prendevano delle misure per mettere le loro famiglie in salvo.

Contro questo pericolo, che trattandosi di cinque milioni di sudditi, i quali insorgendo non avevano nulla a perdere e tutto a guadagnare, e avrebbero resa ogni difesa sia dei Danubio sia del Balcan impossibile, era un pericolo estremo; la Porta non prese che delle messe misure, se pur ne prese. l’interno dell’Impero fu poco men che affatto sguarnito di trappe. Si occupò fortificò Kalafat sulla sinistra del Danubio in faccia a Widdino per impedire ai Russi di venire a contatto coi Serbi, e si addunarono, a difesa di quella specie di testa di ponte e di quella piazza, fra i 25 ai 30 mila uomini. Senonché vi si impiegarono anche le trop pe che guardavano l’alta Bulgaria, provincia, fuorché nelle città, tutta cristiana, contro i Serbi, i quali preparavansi ad entrarvi, ed a sollevarla. La guerra prese nella piccola Valacchia e sul Danubio un andamento per la Porta vantaggioso in quanto, che essa diede a divedere non solo molto valore nella truppa, ma anche molte intelligenza nei capi e particolarmente nel Generalissimo dell’esercito turco, Omer Pashà; ma essa non cangiò nulla nella condizione dell’Impero relativamente e quel pericolo che era il maggiore fra tutti quelli che allora lo minacciavano, e non allontanava in verun modo la spada di Damocle che pendeva da un filo tenuissimo sovra di esso. A che giovavano delle misure per tener i Russi lontani dai Serin, se non se ne prendevano anche per tener i Serbi lontani dai Russi?

Il pericolo grande ed estremo per sé stesso di una sollevazione generale dei Cristiani diveniva irreparabile per la circostanza, che nei Serbi e nei Montenegrini loro correligionarj sudditi vassalli ma emancipali, e negli Elleni loro correligionarj anch’essi, ma affatto indipendenti, il partito russe era divenuto incoercible, e del tutto predominante. La Servia non ba che un milione di abitanti, ma ogni uomo capace di portar le armi vi è soldato, e soldato dalla sua infanzia. Il numero dei coscritti per la milizia ammontava a cento mila uomini, ripartiti in quattro distretti militari; tutte quella gente era completamente armata o provveduta anche di uffiziali; e già se ne estraevano 50 mila uomini per metterli sul piede di guerra e già vi avea un corpo di osservazione sul Timoc, e un altro sulla strada di Nissa. Il governo già disponevasi ad abbandonare con le casse, col tesoro con le cancellerie Belgrado. La guerra era imminente. — Chi l’impedì, chi vi si oppose? Chi fermà quel popolo di guerrieri? — Lo fermò l’Austria che il giorno 6 febbrajo 1855 gl’intimò nel modo più solenne categorico che ogni atto ostile che esso si permettesse contro l’Impero turco, sarebbe per essa il segnale di passare con un corpo di armata la Sava. Diffatti già ne adunava uno nella Womodina, e già i suoi reggimenti detti di frontiere «Grànzrégimenters» stavano in pronto per passare quel fiume al primo cenno, che loro venisse dato. — E come i Serbi, cosi erano i Montenegrini sul punto di entrare nell’Erzegovina di sollevarvi i Cristiani; essi erano appena sortiti per mezzo dell’Austria da una guerra colla Porta, che li minacciava di un totale esterminio a patti moderati. Cionondimeno la difficoltà di fermarli non fu minore di quelle che vi volle per fermare i Serbi. Alcune poche parole che loro aveva indirizzate il loro Principe forai a questo 6 mila volontarj, che giurarono di seguirlo in quella guerra santa, come essi la chiamavano. L’Austria raddoppiò e triplice i presidj di Ragusa e di Cattaro; si armarono anche i Turchi nella Bosnia e nell’Albania. Alla fine si acquietarono, e rimasero a casa; ma non si sarebbero acquietati, se non si fossero acquietati i Serbi.

Per comprendere e misurare tutta la portata dell’intervento austriaco in favore della Porta, o per dir meglio della causa Europea, che qui si è considerato, basta pensare a ciò che avvenne nell’Epiro e nella Tessaglia, ove una mano di Elleni riuscirono a far insorgere l’intiera popolazione cristiana in pochissimi giorni, e a forzar la popolazione turca a ricoverarsi nelle città o nei luoghi fortificati. Costantinopoli ne fu spaventata. L’occupazione di Atene per parte dei Francesi e degl’Inglesi non ebbe luogo se non li 25 maggio 1854, tre mesi e mezzo dopo la protesta intimala dall’Austria alla Servia; prova la più convincente, che neppur le potenze alleate conoscevano appieno la condizione più che critica nella quale trovavasi l’Impero turco in riguardo ai suoi cristiani, e che neppur esse avevano nna chiara idea dei pericoli che quella guerra accompagnavano. Non si sa cosa pensare e mena ancora casa dire, quando si leggono i lamenti del maresciallo Saint—Arnaud contro l’inazione dell’Austria, e si considerò il timore che le dimostrazioni armate di essa lungo tutta la frontiera austriaco—turca dalle Bocche di Cattaro a Belgrado cagionavano a Londra e a Parigi, fossero dei patti preliminari predisponenti per una spartizione dalla Turchia fra l’Austria e la Russie. L’insurrezione nelle suddette due provincie, vedendo la sua causa avversata da quelle due potentissime nazioni, che nel 1827 avevano rivalizzato con la Russia di simpatia per essa, e sopratutto, che in Servia ed il Montenegro non si moveano, si sbandò, non senza aver dato nei diversi scontri che essa ebbe coi—Turchi grandi prove di coraggio. Fortunato chi potè salvar sé e la sua famiglia in luoghi remoti nei monti e nei boschi, il tutto fu un deplorabile grande disastro, che avrebbe potuto e dovuto prevenirsi ed impedirsi. — Non devo tralasciar di ricordare la circostanza importantissima die, pervenuta all’esercito di Omer—Pashà la notizia della sollevazione dell’Epiro e della Tessaglia, i soldati turchi di quelle provincie abbandonarono a migliaja le loro bandiere per correre in ajuto dei loro confratelli che si difendevano alla meglio che potevano contro i Cristiani, dimodoché qualora la sollevazione nell’interno si fosse estesa anche alla Bulgaria, e alla Rutelia e a tutte le provincie confinanti con la Servia e col Montenegro, l’esercito turco, che sotto Omer—Pashà difendeva il Danubio, avrebbe cessato di esistere. La questione d’Oriente sarebbesi allora sciolta non dagli Alleati, ma dai sollevati; l’Impero turco sarebbe divenuto una provincia rossa. Per rimediare al male di una tale soluzione della questione che avrebbe messo l’Europa in una peggior condizione che non era quella nella quale la si trovava dal 1810 al 1812, si sarebbe resa necessaria una guerra su di una scala due o tre volte maggiore di quella che fece Napoleone alla Spagna. Egli è l’imperatore d’Austria, Francesco—Giuseppe che sprezzando i clamori dei rivoluzionarj e del volgo politico, ha risparmiato una siffatta guerra all’Europa. La frontiera austriaco—turca dalle Bocche di Cattaro sino a Belgrado misura 110 leghe geografiche di 15 al grado; l’Austria vi avea durante la guerra d’Oriente più di 80 mila uomini. Le spese di quell’intervento furono immense.

Di tutti i fatti che hanno avuto luogo per la soluzione della questione d’Oriente, il più grave, il più decisivo, ancorché la sua importanza fosse puramente negativa, fu quello del quale ora si è parlato. Esso spiega e giustifica da sé solo il trattalo di garanzia dei 15 aprile 1856. La storia lo ha appena accennato e la di lui portata è rimasta del tutto inosservata (52).

II. L’imperatore Niccolò aveva prestato all’Austria nella guerra ungherese del 184un grandioso, validissimo, decisivo, magnanimo soccorso, pel quale il di lei Imperatore e con esso ogni vero Austriaco gli professava la più viva gratitudine e si credeva in debito di professargliela. Ma la gratitudine, qualunque ne sia il grado e l’intensità, non saprebbe mai obbligare alla dimenticanza dei propri doveri né ad una bassa connivenza o adesione; la gratitudine dell’Austria verso la Russia non poteva e non doveva farle mettere da canto lo funzioni ed i doveri di potenza Europea e della sua missione in riguardo all’equilibrio politico. il soccorso prestatole non poteva divenire un debito da scontarsi con degli atti che compromettevano la dignità, il decoro e la sicurezza della Monarchie. Ciò che aveva fatto la Russie per l’Austria nel 1849, l’Austria l’avere fatto nel 1813 dopo la battaglia di Baulzen per la Russia, e per la Prussia, nel 1809 per la Spagna, e nel 1805 per l’Inghilterra. La Russia non fece nel 1849 se non che il suo dovere come grande potenza Europea, e non altro se non ciò che le doveva dettare, e che certamente le dettò il proprio interesse. Il disordinamento dell’Europa non poteva mai esserle indifferente.

Partendo da questi riflessi, l’Austria, la quale ebbe l’opportunità di convincersi, che la Russia tentava, basandolo suite disposizioni delle popolazioni cristiane di rito greco suddite della Porta e su quella dei Serbi, dei Montenegrini e degli Elleni, un gran colpo, si sarebbe già in novembre del 1853 associata alle due potenze occidentali, se non avesse dovuto impiegare oltre a quelle truppe che erano postate rimpetto al confine turco, anche un’armata a guardia del suo regno Lombardo—Veneto. Senza questo inciampo, poste alla di lei azione politica, l’Austria avrebbe fatto già in dicembre 1853 ciò che fece in dicembre 1854. La Russia a quel tempo si sarebbe contentata, che l’Austria facesse aperta professione di neutralità. Questa rispose sempre, che nella di lei qualità di grande potenza Europea non poteva rimanersi neutrale ogni qualvolta vedesse l’equilibrio politico minacciato, come lo minacciava l’occupazione per parte della Russia dei principati danubiani, e la guerra che essa faceva alla Porta sul Danubio; e fu al tempo che le fu fatto l’ultimo messaggio per averla se non alleata almeno neutrale, che essa intimò alla Servia il surriferito «ultimatum» del 6 febbrajo, il quale produsse sul gabinetto di Pietroburgo l’effetto di una grande battaglia perduta, che lo indusse e forzò a rinunciare al suo piano di guerra, ad abbandonare la piccola Vallacchia, e a trasportare la guerra dall’alto al basso Danubio.

Ma i Serbi, se anche stavansi quieti, non per questo avevano deposte le armi, né sciolto il loro esercito, che tenevano adunato sotto il pretesto di difender la loro neutralità. L’Austria aveva alla fine di febbrajo 1854 nella sola Woiwodina rimpetto ad essi 50 mila uomini ad un epoca che le potenze occidentali non avevano ancora neppur dichiarata alla Russia la guerra. Le popolazioni cristiane dell’Impero turco non cessavano, finché l’armata russa guerreggiava nei principati e sui Danubio, d’ispirare i più serj timori; dall’altro canto l’Austria non poteva veder con occhio tranquillo e indifferente ai confini della Transilvania, che pochi anni prima era stata messa dai rivoluzionarj tutta sottosopra, l’armata di Omer—Pasha ripiena di rinnegati e di elementi sovversivi ostili ad ogni ordine. Gli Alleati, la Porta e l’Austria ed anche la Prussia come potenza allemana cui stava a cuore, se non altro, la libertà del Danubio, avevano tutte più o mono un interesse d’indurre l’Imperatore Niccolò a ritirare le sue trappe dai Principati. Né ciò poteva esser per lui un sagrifizio, giacché, stante la circostanza che il nemico era padrone dei mare, la guerra sul Danubio contro le fortezze che vi avevano, non prometteva verun successo.

Non erano per altro questi i soli motivi, che facessero desiderare che l’armata russa abbandonasse i Principati. Si era d’accordo a Londra, a Parigi, a Vienna e a Costantinopoli, che per raggiungere il grande scopo di quella guerra, che doveva essere ed era di togliere all’azione enormemente preponderante della Russia sull’Impero turco parte della sua forza, e produrvi una spezie di equilibrio, conveniva impadronirsi di Sebastopoli, e distruggervi non solo la flotta che vi avea, e che era il terrore di Costantinopoli e della Turchia, ma anche tutti gli stabilimenti marittimi. Se non che non si poteva pensar alla spedizione nella Crimea finché i Rossi minacciavano, standosi nei Principal il cuore dell’Impero turco; e che non si avevano i mezzi di fare contemporaneamente l’uno e l’altro. Qui conveniva incominciare col proseguire la guerra nei Principali, la quale diveniva per gli Alleati, che avrebbero dovuto allontanarsi dalle loro flotte, una guerra, indipendentemente dall’insalubrità del paese, ardua al massimo segno, e dedicarvi un anno. Ma che sarebbe frattanto divenuta la Crimea, che Sebastopoli?

In seguito a questi riflessi, la Francia, l’Inghilterra e la Prussia concertarono con l’Austria una convenzione tra questa e la Porta in termina tali, che la Russia ne tirasse la conclusione di dover abbandonare i Principali, se pur non voleva che l’Austria accedesse definitivamente alla coalizione che già sussisteva contro di essa. La Porta aderì al progetto, e la convenzione fu segnata il giorno 14 giugne a Costantinopoli e ratificata il giorno 80 dello stesso mese a Vienna. In essa è detto:

«— Che l’Austria, riconoscendo che l’esistenza dell’Impero turco negli attuali suoi limiti era necessaria al mantenimento dell’equilibrio politico fra gli stati Europei, e che segnatamente lo sgombro dei Principati danubiani era usa condizione essenziale della dette di lui integrità s’impegna (s’engage) di esaurire tutti i mezzi in via di negoziazione diplomatica ed altri per ottenere lo sgombro dei Principati danubiani dall’armata straniera, che li occupa, e d’impiegare pur anche in caso di bisogno il numero necessario di truppe per raggiungere il detto scopo (53)».

I limiti entro i quali devo tenermi non mi permettono di dare la storia di queste trattative, né di quelle incamminate dall’Austria con la Prussia e con la Confederazione germanica, per essere soccorsa dalle due potenze, in caso che la Russia si rivolgesse col nerbo delle sue forze contro di essa; per noi basta il fatto che la Russia alla fine abbandonò i Principati, e che l’Austria li occupò con forze sufficienti per difenderli; che i timori che ispiravano i Cristiani dell’Impero turco, e i Serbi, e i Montenegrini cessarono; che la spedizione nella Crimea potè farsi e si fece, ma che non la si sarebbe potuto fare se non un anno più tardi, se pur vi si arrivava a tempo, se l’Austria non s’incaricava dello sgombramento, dell’occupazione e della difesa dei Principati; e finalmente, che con la detta occupazione divenne disponibile per la spedizione della Crimea non solo l’armata inglese e francese, ma anche parte dell’armata turca, poiché vi aveano nella detta penisola, alla fine d’aprile 1855, 40000 Turchi, e molto di più nell’Asia, ove senza i soccorsi che vi vennero dal Danubio l’esercito turco appena sarebbe stato nel caso di tener la campagna. La Storia ha bensì parlato dell’occupazione dei Principati danubiani per parte dell’Austria e le ha anche assegnato qualche importanza; ma non ne ha riconosciuto tutta la portata né tutto il suo merito che consistette nell’accelerare almeno di un anno la pace.

L’Austria non fece mai un mistero della sua politica, relativamente alla questione d’Oriente coll’Imperatore Niccolò. La di lei condotta non fu mai ambigua. Essa aveva nei primi mesi del 1854, innanzi che le Potenze occidentali dichiarassero la guerra alla Russia, 80 mila uomini sotto le armi pronti ad agire per la causa Europea. Fu essa, non si saprebbe troppo dirlo, che fermo l’impulso che dovevasi dare dai Serbi, dai Montenegrini e dagli Elleni ad una generale insurrezione dei Cristiani sudditi della Porta. Non fermò quello che vi diedero nell’Epiro e nella Tessaglia gli Elleni, perché non fu a portata di farlo. Quella insurrezione, se l’Austria non l’avesse impedita, avrebbe Ira s porta la in un pajo di mesi la guerra dalle rive del Danubio ai sobborghi di Costantinopoli. l’Imperatore Niccolò non poteva disfarsi dell’idea, che l’Austria dopo il 184non potesse aver altra politica che h sua. Una delle domande, che il conte Orloff fece in gennajo 1854 al gabinetto di Vienna, era il libera passaggio di un corpo di truppe russe per la Servia (54).

Pur troppo volle esso proseguire la sua guerra sul Danubio, alla quale egli dava, il più che fosse possibile, il carattere di una guerra di emancipazione politica e religiosa. Non fu che la convenzione dei 14 giugno con la Porta che finalmente lo disingannò; non fu se non allora che quel Monarca si persuase, aver l’Austria definitivamente adottata una politica indipendente, in opposizione alla sua. Né tardò esso ad adunare delle truppe ai confini della Polonia. L’Austria fece lo stesso ai confini della Galizia e della Bucovina. Negli ultimi mesi del 1854 vi aveano 100 mila Russi, e 100 mila Austriaci in quei paesi in guardia gli uni contro gli altri.

Ma anche l’agitazione italiana e il ministero Sardo—piemontese non volevano credere, che l’Austria potesse slegarsi dalla Russia, e stavano sempre ancora attendendo con ansietà una guerra, nella quale fossero da una parte le Potenze occidentali coll’Impero turco e dell’altra la Russia con l’Austria, quando a loro grande sconforto comparve la convenzione dei 14 giugno che dissipò le loro speranze. Ma l’Imperatore dei Francesi che rendeva piena giustizia alla politica canta e circospetta dell’Austria dichiarò che esso non permetterebbe in verun caso che la pace d’Italia venisse turbata (55).

Questa dichiarazione spianò la via al trattato di alleanza dell’Austria con la Francia e con l’Inghilterra dei 2 dicembre 1854, lo scopo del quale era non già di |aggiungere materiali all’incendio, quanto di arrivare al più presto che fosse possibile ad una solida e durevole pace. Questo trattato portà più grande abbattimento e la disperazione nel campo dell’agitazione italiana, e nel Ministero Sardo—piemontese. Ma ecco porgersi l’occasione di ravvivare gli animi. L’Inghilterra cercava, come altrove è stato detto, soldati per la guerra nella Crimea, ed aveva la massima difficoltà di trovarne. Il Ministero sardo—piemontese gliene offri un quindici mila coi patio che la Sardegna venisse accettata qual quarta potenza nell’alleanza francese—inglese—turca, che faceva la guerra alla Russia; ciocché gli fu accordato col trattato dei gennajo 1855. L’agitazione italiana ne tripudiò. Essa già vedeva alla prima guerra, che la farebbe all’Austria, accorrere ambedue le Potenze occidentali, per terra e per mare e ajutarla e finirla una volta coll’abborrito Tedesco. Il Ministero Sardo—piemontese tentò, appena firmato il surriferito trattato di alleanza, d’indurre le due potenze ad interporsi presso l’Austria, acciò essa levasse il sequestro che aveva messo sui beni degli emigrati lombardi, domanda che però non ottenne verun ascolto. Il detto trattato che costò al regno Sardo—piemontese 80 milioni di franchi oltre ad un migliajo e più di ottimi soldati, che ebbero miserabilmente a morire, con l’eccezione di un centinajo poco più, negli ospitali di Balaclava e di Costantinopoli, non fruttò al detto regno se non se l’onore, certamente grande, di aver anch’esso due rappresentanti al congresso di Parigi (56).

Il Presidente del detto Ministero volendd0scuare d’essersi immischiato con si poco frotte nella guerra d’Oriente, disse nella Camara dei Deputati Sardo—piemontesi le memorande parole: «che ciò si era fatto nella speranza che quella guerra prenderebbe delle dimensioni molto maggiori di quelle che aveva prese, motivo certamente mai ancora messo in campo da verun Stato cristiano per giustificare una guerra (57)».

I Russi ch’ebbero nella prima settimana di agosto l’ordine dal loro Imperatore di abbandonare diffinitivamente ambidue i Principati danubiani, ne sortirono e ripassarono il Pruth. L’occupazione dei detti Principati per parte degli Austriaci ebbe luogo per qualche tempo assieme coll’esercito turco. Questo passò poi la parte nella Crimea, in parte nell’Asia dimodoché 1occapazione dei Principati per parte dell’Austria valse agli Alleati nella Crimea un rinforzo di 40 mila Turchi, e all’armata turca nell’Asia, che ne aveva il più grande bisogno, un rinforzo ancora maggiore.

III. Siamo al terzo momento della guerra d’Oriente, alla guerra che gli Alleati fecero nella Crimea. La spedizione nella dette penisola trasportava la guerra degli Alleati ad una delle estremità della Russie, quindi alla massima distanza dal centro della sua possanza; permetteva agli Alleati la cooperazione delle loro flotte; faciliterà loro in sommo grado l’approvvigionamento delle loro armate, e l’arrivo dei soccorsi; riduceva la guerra ad nna delle sue forme più semplici, ad un assedio e alla di lui protezione contro l’armata nemica che tenterebbe di farlo levare; aveva un campo di battaglia per la sua conformazione topografica facilissimo a rendersi inespugnabile, e che inchiude due porti di mare ambidue anch’essi facili a fortificarsi a convertirai in piazze darmi, ove in caso di non perduta battaglia potersi rimbarcare, oppure aspettarvi rinforzi per ricominciare le operazioni. Ciò nondimeno fu ivi la guerra una lotta dal principio alla fine dubbia ed incerta. La detta guerra può per noi riassumersi nei seguenti fatti: 1.° che i Russi furono sempre in tutte le battaglie, che vi si sono date, in una decisa numerica inferiorità, 2.° che nulladimeno gli Alleati avrebbero, se le loro trappe non avessero fatto mostra di un valore più che eroico, avuto nei combattimenti più importanti e più decisivi la peggio, se i Russi avessero avuto un quaranta in cinquanta mila uomini di più; 3. che questi quaranta in cinquanta mila uomini di più si avrebbero avuti, se non fossero stati ritenuti dagli Austriaci ai confini della Polonia, e quindi 4.° che senza l’Austria la spedizione della Crimea né si sarebbe potuto fare, né, se la si faceva, avrebbe avuto il successo che ebbe.

Gli Alleati sbarcarono senza opposizione sullo coste della Crimea a mezza strada fra Eupatoria e Sebastopoli il giorno 14 settembre con 30000 Francesi, 22000 Inglesi e 7000 Turchi, in tutto 59000 uomini. La flotta componevasi di 34 vascelli di linea e 50 altri bastimenti a vapore e 80 bastimenti di trasporto. Gli Alleati marciando verso Sebastopoli incontrarono il giorno 20 settembre, postata sul piccolo fiume detto l’Alma, occupando un altipiano che rapidamente discende verso quel fiumicello, un’armata di n on più che 35000 Russi, con 84 cannoni, sotto gli ordini del Principe Mentschikoff. La di lei posizione era fortissima contro un attacco di fronte, ma le ale non erano protette da verun ostacolo naturale. Difatti i Francesi ne assalirono l’ala sinistre con due intiere divisioni. La battaglia fu nondimeno contrastata durante quattro ore e più, ma andò finalmente perduta per i Russi. Gli Inglesi che assalirono la posizione di fronte fecero una perdita considerevole, tra morti e feriti 2000 uomini, e non fu di poco neppur quella dei Francesi, tra morti e feriti 1300.

Or questa battaglia, se attentamente considerata, non lascia verun dubbio, che i Russi malgrado la loro numerica inferiorità l’avrebbero guadagnata, e si sarebbero se non altro mantenuti nella posizione che occupavano, se il Principe Mentschikoff loro Generale avesse preso le misure, che la conformazione del campo di battaglia dettava. Fra la sua ala sinistra e il mare vi avea uno spazio di circa 4000 metri che a lui sembrava inaccessibile, e che rimase poco men che affatto sguarnito di truppe. Una intiera divisione francese con la sua artiglieria vi era non solo ascesa, ma già in piena marcia contro il suo fianco sinistro, ché egli sempre ancora si ostinava a non crederlo. Dieci mila uomini di più avrebbero bastato a rimediare a quel fatto, e ad impedirne le conseguenze.

L’armata russa perdette Ira morti e feriti 4600 uomini ma nessun pezzo di artiglieria, e fece la sua ritirata con molto ordine. Gli Alleati, quantunque vi avessero ancora due ore di giorno, non la seguirono; passarono la notte sul campo di battaglia da essi conquistato, e vi si trattennero il giorno 21 e 22. Ai 23 si rimisero in marcia, girarono attorno Sebastopoli, e si trovarono fra l’armata russa e la piazza. Questa era quindi isolata. Ma non si fermarono, e continuarono la loro marcia sino a Balaclava e si postarono al Sud di Sebastopoli fra la Tsernaja e il mare. La loro marcia che durò quattro giorni fu stentatissima, ma senza essere minimamente dal nemico molestata. Questo parve scomparso del tutto, e aver abbandonata la penisola. Sebastopoli non aveva altre fortificazioni che una cinta di muro. Le opere che servirono a difenderla erano ancora da costruirsi. La guarnigione consisterà in quattro battaglioni di linea e in 20 mila marinai destinati al servizio dell’artiglieria, ed ai lavori di fortificazione. l’isolamento della piazza doveva esser il capo principale dell’impresa. Esso era col spontaneo allontanamento dell’armala rossa divenuto un fatto compiuto. Bastava fermarsi all’Est di Sebastopoli, e trincerarvisi. Ma gli Alleati si accinsero a quell’impresa senta forte sufficienti. Essi da sé riaprirono il passo all’armata russe, che non conterà che 30000 uomini presenti sotte le armi. L’impresa, che con forte sufficienti sarebbe stata facilissima, divenne difficilissima e piena di pericoli.

L’armata degli Alleati fu portate nella seconda metà di ottobre mediante un rinforzo di 18000 Francesi ad un effettivo di 72000 uomini. l’armata rossa ricevette il giorno 22 da Odessa una divisione d’infanteria forte tutt’al più di 10000 uomini. Il Principe Mentschikoff la lasciò riposare tre soli giorni, e già il giorno 25 ottobre se ne servi, aggiungendovi alcuni battaglioni d’infanteria e due reggimenti di cavalleria, per dare la battaglia di Balaclava. I Rossi riuscirono in essa a scacciar i Turchi da alcuni posti fortificati, e a malmenare terribilmente una brigata di cavalleria leggera inglese, che per on fatale malinteso fu mandata ad un vero macello; ma senza verun notevole risultamento. Frattanto arrivarono altre due divisioni d’infanteria, ambedue da Odessa. I Rossi avevano alla fine di ottobre 63000, gli Alleati 72000 uomini; quelli 20, questi 35 in 40 mila marinai. Il giorno 5 novembre ebbe luogo la battaglia d’Inkermann, la quale ha relativamente al nostro oggetto un particolar interesse.

Anche questa battaglia è di quei fatti storici che parlano, e si rettificano da sé. Nelle trincee e batterie di assedio stavano in guardia 25 mila Francesi. A destra era postata su di una linea nella direzione dal Nord al Sud che ripiegavasi alle due estremità in modo da formare un Z, l’armata degli Alleati occupando uno spazio di 12000 metri. I Turchi guardavano Balaclava alla estremità meridionale della detta posizione. Tanto questi che i Francesi avevano per maggior precauzione elevati nello spazio da essi occupalo dei trinceramenti; non cosi gl’Inglesi che occupavano l’estremità settentrionale prossima a Sebastopoli. Il piano di battaglia dei Rossi fa di assalire gl’Inglesi che ivi non avevano che dodicimila nomini, con forze molto superiori, e nell’istesso tempo di minacciare il centro e l’ala destra ove erano i Francesi, per tenerli fermi al loro posto, e impedir loro di soccorrere gl’lnglesi. Cinquemila uomini furono destinati a piombare sulle trincee e sulle batterie di assedio. I Russi che assalirono gl’lnglesi erano ripartiti in due colonne: una, la destra, sorti da Sebastopoli, l’altra venne da lnkermann; quella a destra doveva aggirare la loro ala sinistra e assalire di fronte, di fianco e alle spalle, l’altra era destinata ad assalire di fronte la loro ala destra. Ma la colonna destra non si estese quanto faceva d’uopo a dritta, e le due colonne per mancanza di spazio s’intralciarono. Ciò per altro non impedì, che gl’Inglesi si trovassero dai primi momenti nella più critica situazione. Essi combatterono come leoni, con un coraggio superiore ad ogni elogio, ma sarebbero, per poco che i Francesi avessero indugiato ad arrivare, stati dai Russi schiacciati. corpo di truppe, che doveva minacciare l’ala destra e il centro, era troppo debole, e pare anche che si fermasse in una troppo grande distanza per non dare ai generali francesi a divedere che il di lui incarico si limitava ad una semplice dimostrazione. Questi perciò non si Iasciarono trattenere un sol istante dal correre in ajuto degli Inglesi. I Russi, avanzando, esponevano il loro fianco sinistro, sul quale i Francesi si scagliarono al passo di corsa e lo investirono. Gl’Inglesi, che non avevano cessato di combattere, si riordinarono e ripresero l’offensiva. I Russi assaliti di fronte e di fianco dovettero fermarsi e poi cedere, e finalmente indietreggiare. Essi perdettero la battaglia, ma non l’avrebbero perduta, se avessero avuto venti in trenta mila uomini di più, vale a dire, se ad una pure dimostrazione contro il centro, avessero potuto sostituire un attacco risoluto, che avesse fermalo i Francesi al loro posto. Lo stesso e da dirsi dei cinquemila Russi che assalirono le trincee e le batterie dell’assedio. Essi incontrarono una grande resistenza, perdettero molta gente, e bastò una sola brigala francese per respingerli. Invece di cinque vi volevano per lo meno quindici mila uomini.

Donde proveniva questa insufficienza di forze? Quale n’era la causa o la ragione? Si porrebbe dire che ai Russi, a cagione delle grandi distanze mancasse il tempo di portarvi un maggior numero di soldati. Ma il vero è, che inferiorità numerica si rintraccia anche alla fine di aprile dell’anno susseguente, adunque sei mesi dopo l’arrivo degli Alleati nella dette penisola. A quell’epoca aveano i Russi a Sebastopoli 35000, nei contorni di esso 70000, al Nord di Eupatoria 15000, in tutto non più di 120,000 uomini, mentre l’armata degli Alleati si componeva di 76009. Francesi, 25000 Inglesi, 15000 Piemontesi, e 40000 Turchi, che sommavano 155000 uomini; sicché 35000 più dei Russi (58).

Né questa inferiorità numerica ha mai nell’armata russa cessato. I Francesi ricevettero nella seconda metà di maggio altri 22000 uomini fra i quali l’intiera divisione della guardia imperiale. Le grandi distanze, ciò è chiaro, non spiegano il caso in questione; esso doveva necessariamente provenire da altre cagioni.

La cagione, se non la sola, la principale della detta inferiorità fu, secondo quanto ne dissero in allora i giornali, e ne fu detto anche nella camera dei Pari d’Inghilterra da uno dei Ministri, la seguente armata russa aveva fatto nella guerra sul Danubio e nella basse Valacchia, paese estremamente malsano e nei tanti fatti d’armi, e in ispezialità nell’assedio di Silistria perdite immense. L’imperatore Niccolò per ripararvi ordinò una leva generale in tutto l’Impero, che fu eseguita col massimo rigore, e la quale forai parecchie centinaja di migliaja di reclute, che in grandi trasporti dovevano raggiungere i corpi d’armata per i quali erano destinate. Ma questi trasporti ebbero la disgrazia di venir colli durante la marcia da un freddo il più straordinario anche per la Russia; cosicché molti di quei giovani soldati vi perirono, molti anzi la maggior parte divennero inabili al servizio, non pochi disertarono. pochissimi arrivarono ai rispettivi loro reggimenti. Si direbbe che la Provvidenza non ha voluto che la causa Europea soggiacesse l’anno 1855 nella questione coll’Oriente, come non ha voluto che la soggiacesse nel 1813 nella questione coll’Occidente, e che la impiegasse la stessa spada sterminatrice contro la prepotenza russa, che fu da essa impiegata contro la prepotenza francese. Anche questo gran fatto è stato appena rimarcato dalla Storia sebbene sia anch’esso una delle principali condizioni dalle quali dipendette l’esito della guerra d’Oriente. Che sarebbe avvenuto, se nel 1855 i Russi fossero comparsi sul teatro della guerra con duecentomila uomini di più? Non si osa pensarvi.

Comunque ciò sia, resta va però sempre ancora l’armata che la Russia aveva nella Polonia contra l’Austria, la quale avrebbe certamente più che bastato, qualora avesse potuto porterai nella Crimea a rendere la continuazione dell’assedio di Sebastopoli impossibile. Ma essa non osò perder di vista l’armata austriaca. che stava in Galizia e nella Bucovina; non si mosse, e Sebastopoli cadde. E cosi è chiaro che l’Austria indirettamente, ma non per questo mono efficacemente, né meno essenzialmente, ha cooperato alla presa di Sebastopoli, è ciò con due elementi, uno positivo, vale a dire con le trappe di Omer—Paschà, che essa coll’occupare e presidiare i Principati rese disponibili per la Crimea, e uno negativo, col ritenere un’armata lontana da essa, che altrimenti si sarebbe aggiunta a quella che difendeva la detta piazza, e l’avrebbe raddoppiala.

Riepiloghiamo i fatti risguardanti la questione d’Oriente dalla Storia posti in non cale, che qui si sono da noi rintracciati, e vediamo ciò che essi insegnano. I fatti ridotti ai loro minimi termini sono, 1.° che senza l’Austria la guerra d’Oriente non solo non avrebbe impedita la caduta dell’Impero turco, ma l’avrebbe, col provocarvi l’insurrezione dei di lui Cristiani, accagionata ed accelerata; 2.° che qualora l’Austria non avesse occupati e presidiali i Principati danubiani, la spedizione della Crimea non avrebbe potuto aver luogo se non nella seconda metà dell’anno 1855; e l’armata di Omer—Pashà non sarebbe divenuta disponibile per altri teatri della guerra, cioè per la Crimea e per l’Asia; 3.° che senza l’Austria l’armata russa, ch’era in Polonia si sarebbe portata nella Crimea, e avrebbe resa la continuazione dell’assedio di Sebastopoli impossibile.

E che inseguano questi fatti? C’insegnano, che l’Austria come è stata alla fine del passato e nei primi Ire lustri del presente secolo una necessità nelle guerre condotte nell’interesse dell’equilibrio politico contro la Francia, la è stata anche una necessità nella guerra condotta nella stesso interesse ultimamente contro la Russia. Senza l’Austria l’Impero turco cadeva, la guerra prendeva un altro andamento, ad un altro carattere, ed aveva nu altro esito. Ciò che ha fatto l’Austria nissun’altra Potenza era nella situazione e nel caso di farlo e, come nelle precedenti, cosi,anche in questa guerra è dessa che ne ha portalo il maggior carico, e vi ba corso i maggiori pericoli. La pace dei 30 marzo 1856 ha, ciò non è da negarsi, ammegliorato essenzialmente e dirò sino radicalmente la condizione dell’Impero turco rimpetto alla Russia. Ma ha essa ammegliorato nel detto riguardo anche egualmente la condizione dell’Europa? Chi garantirà quella pace, chi è a portata, chi è in istato di garantirla? Basta gettare l’occhio su di nna caria geografica dell’Impero turco per convincersi che una vera, effettiva garanzia della pace dei 30 marzo non la saprebbe fornire che l’Austria. Ed ecco spiegato e giustificato il surriferito trattato del 15 aprile 1856. La Russia minaccia ancora come pel passato i Principati; non è che l’Austria che sia nel caso, se anche non d’impedirle l’entrarvi, di contrastarle il possesso; e non è che dessa che possa frapporsi fra i Russi e i Serbi, e impedirne la coalizione la quale, come è stato l’eventualità più pericolosa della guerra passata, lo sarà egualmente in ogni guerra che la Russia farà d’ora innanzi all’Impero turco. Se le potenze occidentali volevano che il detto trattato di pace avesse il suo effetto e divenisse una verità ed un fatto, ben conveniva che si rivolgessero all’Austria, e la inducessero ad associarsi ad esse.

Ma sarà poi l’Austria in istato di compiere gli obblighi che quel trattato le impone? Che farà il regno Sardo—piemontese, che l’agitazione italiana sotto la di lui egemonia, quando vedranno l’Austria impegnato in nna guerra con una potenza qual è la Russia, ènella necessità di postare cinquantamila uomini rim petto alla Servia altri venti in trentamila lungo la frontiere turco—dalmata e rimpetto ai Montenegro, una armata più forte ancora nella Transilvania, ed un’altra nella Galizia? La guerre dei 1848 e cosi quella del 184hanno richiesto, per potersi finirà, come le si sono finite, oltre a cento mila uomini. L’Austria non oserà mai, finché durano le mene rivoluzionarie in Italia, aver un minor numero di truppe nel regno Lombardo—veneto, e nelle vicine provincie a guardia di esso. L’agitazione Italiana, che sino al 1848 non era che una sconnessa associazione di settarj, è divenuta sotto l’egemonia del regno Sardo—piemontese una potenza rivoluzionaria che non vive che di speranze nefande. Questa potenza, se l’Europa vuol essere preparata all’avvenire che la minaccia, deve abbattersi; questo fomite di sconvolgimenti politici di ribellioni e di guerre deve farsi cessare.

La guerra con la Russie è stata vinta. Ma quanti fatti non hanno dovuto commettersi dai di lei generali, quanti di quelli commessi d’altra parte rimanersi inosservati e senza conseguenza, quante eventualità fuori di ogni calcolo prodursi, per vincerla? La Russie aveva già nel 1856 una popolazione di 70 milioni con un annuo aumento del 13 per mille, la quale perciò sarà nel 1866 per lo mono di 80, nel 1876 per lo meno di 90, e nei 1886 per lo meno di 100 milioni. Già la prossima generazione avrà in Europa innanzi a sé un Impero russo più potente di molto, che non lo avrebbe la presente, quand’anche lo si fosso accresciuto di tutta la Turchia Europea. Non vi ha paese in Europa ove le strade ferrate siano tanto facili ad eseguirsi, e ove esse costino meno che nella Russia. Non passeranno dieci anni, che essa sarà in ogni direzione, e da nna estremità all’altra traversata da tali strade, e avrà le distanze ridotte in tempo ad un terzo di ciò che esse sono presentemente — La posizione sporgente e centrale della Polonia russa minaccia contemporaneamente la Prussia e l’Austria, e le disgiunge. I quattro stati limitrofi della Russia, h Svezia, la Prussia, l’Austria e la Turchia Europea hanno bensì assieme una popolazione di 75 milioni. Ma qual differenza per rapporto ad unità di volere e di azione? Si aggiunga pure anche la Confederazione germanica con una popolazione di diecisette milioni. Quale speranza di resistere ad una potenza colossale come la Russia, se il principale dei detti Stati, l’Austria e paralizzato da un nemico alle spalle, che non riconosce trattati, e col quale non si può venire ad una vera pace? Le potenze occidentali non rimarranno, giova sperarlo, spettatrici indifferenti alla lolla. Ma giungeranno esse a tempo? Provveduta una volta la Russia di strade ferrate, le sue invasioni saranno un mare che, rotti i suoi argini, irrompe furioso, irresistibile. Fra le condizioni dalle quali dipenderà la possibilità di ritenere la Russia nei suoi limiti, o di respingerla ogni qualvolta ne sortisse, sarà sempre una delle principali, che la pace d’Italia non sia turbata. Questa verità si è dovuto riconoscere già nel 1854. Assicurata che sarebbe la pace d’Italia e represso in generale lo spirito rivoluzionario «l’entente cordiale» degli Stati limitrofi della Russia, e in ispezialità quella delle due potenze alemanne, dell’Austria e della Prussia sostenute dal rimanente della Confederazione germanica, costituirebbe un argine fortissimo fra l’Oriente e l’Occidente che sarebbe tanto per l’uno che per l’altro quel empeschement, tanto necessario particolarmente agli Stati preponderanti per non subissarsi nel sopruso della loro esorbitante possanza, del quale si è parlato nell’introduzione del secondo capitolo di questi Studj.

Concludiamo. L’Europa abbisogna di un’Austria forte, possente, la di cui azione sia libera ed intiera. Una tal Austria non può aversi senza che si ponga fine all’agitazione che dal 1814 in poi tormenta e funesta l’Italia, e che non è che una spezie di trastullo, un passatempo dei di lei agitatori.


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Il cortese Lettore voglia non dimenticare, ch’egli non ha innanzi a sé un lavoro finito e compiuto e ciò che ai chiama un libro; ma unicamente degli studj i quali di loro natura devono presentare in ciascuno un tutto, e abbracciare tutte le questioni che vi pi collegano. Ciò ha l’inconveniente che la stessa questione ricomparisce più volte. Volendo possibilmente diminuirlo, e renderlo meno nojoso, dedico ad ognuna di tali questioni, secondo la sua maggior o minor importanza, o un capitolo nel lesto, o un articolo nelle note, e la considero, ove apparisce nella qualità di questione secondaria, come già sciolta .43

Fra gli scrittori rivoluzionarj italiani non vi ha, a mio parere, nessuno che meriti più di essere studiato da chi vuol mettersi al fatto dell’agitazione italiana che il Professore Montanelli ex—Presidente del consiglio dei ministri, ed ex—Triumviro del governo provvisorio toscano; egli combatté a Curtatone e vi fu ferito; è un nemico accanito contro l’Austria, ma è scrittore di una rara ingenuità. Nelle sue memorie sull’Italia e spezialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850 Vol. I cap. VII. intitolato Fratellanze secrete s’incontra a proposito dei reciproci inganni che usavano gli agitatori italiani, acciò in qualche parte s’incominciasse e s’insorgesse, il seguente passo. — «Frattanto Mazzini annunziava all’Europa migliaja di apostoli armati, impazienti di battaglia; e molti fra i capi locali ragguagliato a questi vanti il poverume del personale a loro note, si consolavano figurandosi essere il luogo che conoscevano una eccezione, e la faccenda procederà altrimenti su tutti gli altri luoghi. Ed è sempre cosi in tutte le imprese di cospirazione; sempre la stessa storia delle migliaja di combattenti immaginarj, e dei conti fatti per ciascun paese su quello che sente dire dell’altro. Le cospirazioni messe su, e limoneggiate dai fuorusciti hanno poi questo di peggio; che in esse ë più che celle altre difficile il rinsavire dei capi alla scuola dell’esperienza. I fuorusciti cui prende il mal talento di sovrastare al movimento della patria, e tenerne in mano le redini, si fanno un regno fantastico e partecipano ai fascini, al|e illusioni e alle caponaggini incorregibili dei regnatori; considerano come poste nel loro imperio ogni città, ogni provincia dove hanno due o tre corrispondenti; vantano forze supposte; attirano cogli improvvidi vanti sugli amici di dentro la persecuzione; si fanno piedestallo delle vittime della loro inconsideratezza e dai liberi paesi, in cui vivono sicuri, proclamano ai fratelli in pericolo fecondo il martirio.» (pag. 42)44

Montanelli u. s. Vol. II. cap. XLIV. p. 424.45

La nota del conte di Reyneval Ambasciatore di Napoleone 111 presso la Santa Sede indirizzata al conte Walewski è una calma, circostanziata apologia del reggime pontificio in generale, e una confutazione del progetto di secolarizzazione degli Stati pontifici proposta a Parigi del conte di Cavour e dal marchese Villa marina in particolare. Quella nota ha fatto un grandissimo senso in Francia, in Inghilterra e in tutto il mondo politico, e fu un terribile colpo per gli autori del progetto di secolarizzazione, e anche per chi al congresso lo fece suo. Veggasi sulla Questione Romana, e sul dispaccio del conte di Rayneval anche l’opera: Le vittorie della Chiesa del Sacerdote Margotti, cap. VII. pag. 256. La copia che ho io del dette dispaccio non ha data di luogo, ed 6 accompagnati da una critica anonima nella quale l’autore non esita ad oppugnare dei fatti che quell’esimio personaggio doveva conoscere perfettamente, senza pensare che un anonimo già, perché ha voluto celare il suo nome, non può in verun modo competere con un testimonio si autorevole.46

Veg. L’État de la Question Napolitaine d’après les documents officiels communiqués aux deux chambres du Parlement Britannique par Jules Gondon Paris et Londres.47

Veg. Le Traité de Paris du 30 mars u. s. Question Italienne. P. 281 et annexes p. 515 et 531.

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Veg. relativamente ai rifuggiti che ripararono in Turchia l’opuscolo del conte di Fiquelmont. «Di religiose Seite der orientalischen Frage II. p. 116. (il lato religioso della questione orientale.)».

Sul modo, come a Costantinopoli è stata decisa la questione della guerra malgrado i consigli e in contraddizione ai desiderj e al volere della Francia, dell’Inghilterra, dell’Austria e della Prussia, per impulso dell’ambasciatore inglese presso la Porta, Lord Redcliffe, si legge nello scritto, che in allora si attirò l’attenzione di tutta l’Europa:

«La guerre d’Orient, ses causes e ses conséquences, par un habitant de l’Europa continentale: Ch. II p. 73.» quanto segue: «Le refus de la Turquie d’accéder aux propositions de Vienne avait été assuré d’avance par les soins de Lord Redclife. Dés le mois de juillet l’ambassadeur anglais inspirait au ministère ottoman l’idée de convoquer qu conseil extraordinaire de soixante dignitaires, pour lui soumettre les propositions de la Russie, en lui posant la question dans ces termes: Ces propositions sont elles compatibles avec les intérêts et l’honneur de la Turquie? La réponse devait être négative sous l’influence de l’homme tout—puissant à cette époque dans l’administration de Stamboul, du fanatique Méhémét—Ali, beau—frère du Sultan qui menaçait ouvertement de couper les têtes et fasait trembler, on le sait, le Sultan lui même, en évoquant le fantôme de la religion et le poignard des softas. Cette réponse négative a donc été formulée par un acte public revêtu de la signature de tous les hautes dignitaires de l’empire, en activité de service ou en retraite de tous les pruniers secrétaires des ministères et des chefs, du corps des ulémas; en un mot, des tous les individues dont aurait pu se composer un ministère quelconque. L’ambassadeur anglais avait suggéré cette idée aux Turcs en les assurant que rien ne saurait mieux relever aux veux de populations de l’empire, et surtout y aux veux de l’Europe, la noble et indépendante attitude de la Turquie, et lui attirer sympathie et assistance dans ses demelées avec la Russie. Cet acte a été imprimé avec les signatures des dignitaires susmentionnés et il a été distribué avec profusion dans toute l’étendue de l’empire».

Uno del tutto simile ragguaglio sul modo come si riuscì a far prender alla Porta l’iniziativa di una guerra che poteva, senza il soccorso delle potenze occidentali di venir per essa l’ultima, si legge anche nell’opera recentissima intitolata, «Die Reformen des Osmanischen Reiches mit besonderer Berücksichtigung des Verhaltnisses der Christen des Orients zur tûrkischen Herrschaft von F. Eichmann» il di cui autore pare, in riguardo al soggetto che tratta informatissimo. (Veg. il cap. che Wiener Note. p. 195.)49

La moderazione con la quale il Maresciallo conte Radetzky usò delle sue vittorie nel 1848, e 1849 è unica nel suo genere. La battaglia di Novara, senza di essa avrebbe costato al Piemonte tutta la sua armata, con tutto il di lei materiale. Essa si diede e si sostenne offensive pei corso di cinque ore da soli quindici mila Austriaci contro cinquantamila Piemontesi, finché rinforzati da altri quindici mila misero in completa rota il nemico che si affollò in Novara ove l’infanteria maledicendo gli autori di quella guerra, scioltasi da ogni disciplina, negando a’ suoi uffiziali ogni obbedienza, si abbandonò ai maggiori orrori della guerra. Frattanto sopravenuti anche i due corpi, che non avevano ancora combattuto e i granatieri che erano nell’istesso caso, e ai quali il Maresciallo aveva pochi giorni prima promesso che fornirebbe loro l’occasione di far mostra di quanto valessero, i vincitori disponevansi a slanciarsi contro Novara. Duecento bocche da fuoco già in batteria dovevano coadjuvare a portare quell’ultimo colpo. Ma essendosi fatta durante quei preparativi notte, l’umanissimo Generale, pensando all’ardore delle trappe, comprese che invece di una guerra vi avrebbe avuto luogo un macello, e contramandò l’attacco. L’armata piemontese non aveva altra strada per ritirarsi che quella che conduce al Sempione.

La battaglia di Novara è una di quelle, che per un uomo di guerra parlano e si raccontano da sé. Non fu che uno dei quattro corpi nei quali l’armata austriaca era divisa, il secondo, condotto dell’eccellente ma troppo ardimentoso Generale d’Aspre, che la diede, come già dissi, con quindici mila uomini; e di fatti tutta la perdita che vi si fece, la fece il detto secondo corpo; mentre il terzo che si spartì e mise in linea sulle due ale, e fini la battaglia in meno di un’ora, non perdette se non qualche centinajo di uomini, il quarto ancora meno, e la riserva nulla affatto. Gli istorici Piemontesi esaltano molto, e hanno ragione, il coraggio dei cinquantamila dei loro che non si sono lasciati battere da quindicimila Austriaci e che hanno resistito un’ora intiera a trentamila di questi, e non dicono nulla del coraggio del loro nemico. L’ho già detto una volta, ma qui devo ripeterlo; a me pare questo silenzio sul conto del valore dell’avversario, in ispezialità quando si ha la peggio, una grande incongruenza. — lo sono più volte stato testimonio di fatti d’armi nei quali combatterono dei Piemontesi, e ho trovato che certamente il soldato piemontese sa esser valoroso, e l’Uffiziale anche valorosissimo. Tuttavia trattandosi di una impresa come è quella di Cacciare gli Austriaci oltre le Alpi alla quale l’armata piemontese si accinse già due volte e sempre con pessimo successo, non esito a dire che l’armata piemontese non vi basta.

Per accingersi ad una tal impresa vi vogliono, oltre il coraggio, anche altre qualità, che l’armata austriaca possiede in sommo grado, che mancano affatto all’armata piemontese. Per una tal impresa non basta il coraggio di affrontar dei pericoli, vi vuole anche la perseveranza, la sofferenza nei disagi e nelle disgrazie; vi vuole che il soldato conosca e sente il bisogno della disciplina, dell’obbedienza, e dell’ordine. la tutto ciò l’armata austriaca non è seconda a nessun’altra armata del mondo. Il giorno dopo le disastrose battaglie che si diedero nel 1809 nei contorni di Ratisbona, l’armata austriaca aveva appena varcato il Danubio, che la era un’armata bensì mono numerosa, ma niente meno atta alla guerra, che il giorno nel quale cominciarono le ostilità. Un’armata nella quale si producono momenti di prostrazione come quella che il Generale Piemontese Bava ci descrive nella sua relazione delle operazioni militari da lui dirette, non è fatta per una impresa che per finirla si richiede una guerra guerreggiata con i tanti di lei accidenti di almeno tre in quattro anni. «Quale cangiamento improvviso?» dice il detto Generale «Questi soldati. pochi giorni prima cosi coraggiosi, erano divenuti pusillanimi, temevano persino l’ombra del pericolo, né più si riputavano in sicurtà se non allorquando trovavansi riuniti insieme in grandi masse, (cap. VIII pag. 131 e a pag. 133.) Nella mia carriera militare non mi venne mai veduta una tale prostrazione, erano taluni rassegnati a soffrire ogni danno fosse anche la morte senza dolersi, senza far motto, pur che non si trattasse di combattere». — Ma sentasi anche l’autore della «Storia della campagna di Novara nel 1849» sulle scene più che tragiche, che ebbero luogo dopo la battaglia che decise quella guerra nella detta campagna; «Durante quella trista notte (23 al 24 marzo) Novara fu teatro dei più atroci disordini. Già dal giorno 20 e nei seguenti, un numero di soldati, furibondi d’esser condotti alla guerra, eransi resi colpevoli di grandi violenze contro i loro concittadini: e sotto il pretesto che si lasciavano mancare loro i viveri, minacciavano il saccheggio. Durante la battaglia, e soprattutto dopo la sconfitta, la loro esasperazione venne al colmo, e non contenti di rubare, minacciavano di ardere la città e di mettere tutto a ferro e a sangue; tanto era il loro risentimento contro la parte delle popolazioni, ch’eglino accusavano d’aver voluto la guerra, non v’ha dubbio ch’eglino avrebbero dato corpo ai loro sinistri disegni, se invece d’essere a Novara si fossero trovati a Milano. Si durò la più grande fatica a metter fine a quegli abominevoli eccessi; bisogno caricare i saccheggiatori colla cavalleria che molti ne uccise. Le scene medesime si rinnovarono per ire o quattro giorni sul passaggio dell’esercito; e iti particolar modo nei luoghi in cui trovavansi alcuni gruppi di soldati dispersi, contro cui gli abitanti furono costretti a fare giustizia da sé (pag. 113.)».50

La caduta di Costantinopoli nel 1453, con la quale la penisola greca è stata per cosi dire staccata dall’Europa, e allacciata all’Asia, fu uno dei più terribili colpi che mai si portassero all’umanità, tanto perché essa iniziò secoli d’incursioni, devastazioni, e rapimenti terribili a danno della Cristianità, quanto perché condannò alla barbarie nei Slavi, dei popoli nuovi, che divenuti cristiani possedevano nella vivacità, freschezza e fertilità del loro ingegno non solo il germe, ma anche gli elementi di una civilizzazione, che avrebbe fatto i più rapidi progressi, e si sarebbe diffusa in tutto l’Oriente e internata nell’Asia. Le popolazioni slave possedevano già allora una lingua ricca, precisa, pieghevole, modellata sulla lingua greca; e già allora una letteratura e in ispezialità una poesia che sembrava l’aurora di giorni lucidissimi. Soggiogate dai Turchi, ridotte a non aver se non i due pensieri di rimaner cristiani, e di vivere, dovevano per riuscir nel loro proponimento per cosi dire, annichilarsi innanzi ai loro tiranni, e rendersi loro inosservabili. Quant’anima non doveva avervi in quelle genti per rimaner cristiani a fronte di un incessante martirio, e ad onta che avrebbero potuto, col rinnegare la loro fede, passare all’istante dalla condizione di schiavi, dai Turchi non valutali più del bestiame, a quella di padroni. Vi passò parte della popolazione slava della Bosnia. I figli e i nipoti di quei. rinnegati invasero dai 1470 al 1500 niente meno che cinque volte il Friuli, e lo misero ogni volta a fuoco e a sangue,e vi sarebbero ritornati, se le Alpi—Giulie non fossero divenute austriache. L’Italia non sa ciò che essa deve ai Cristiani sudditi della Porta di razza slavo—serba alla quale appartengono anche i Croati: nome nel dizionario degli Italianissimi per mera crassa ignoranza fatto sinonimo del più rozzo e fiero barbarismo.

Vi ha nella nota sardo—piemontese dei 16 aprile, (v. le note del precedente capitalo a p. 98) il seguente passo: «Sicuri del concorso dei nostri Alleati ci ripugnava di credere che alcuna delle altre potenze dopo aver manifestato un si vivo e si generoso interesse per la sorte dei Cristiani d’Oriente spettante alle razza slava e greca rifiuterebbesi di occuparsi dei popoli di razza latina ancora più infelici, perché, in ragione del grado di civilizzazione avanzata da essi raggiunta, sentano più vivamente le conseguenze di un cattivo governo». — Questo confronta non regge minimamente; il caso non presenta veruna analogie, e ogni induzione che ne ne dedurrebbe, seppure non la si invertirebbe, sarebbe uno sproposito in tagica. Cominciamo per dire, che nella questione d’Oriente si trattava, senza contare i Rumeni i Serviani, che non sono sudditi immediati della Porta e non aono da confondersi con questi di cinquemilioni di Cristani infelicissimi, cui la vita era nel fisico e nel morale un continuo tormento. Un cristiano non solo non vi era padrone della sua roba, ma neppur dei suoi figli e delle sue figlie, che gli si strappavano per fame non di rado l’uso più nefando. Violentati incessantemente nel sentimento morale e religioso, il grado dei suoi patimenti non dipendeva minimamente dal grado della sua civilizzazione, esso dipendeva dal grado della sua religiosità, della quale si sa che la era come la è ancora di una grande intensità, e vivissima; vi si trattava dunque, ripetiamolo, di cinquemilioni di Cristiani realmente e decisamente infelicissimi. — Di che ai tratta invece nella questione Italiana? Si tratta di neppure tante migliaja quanto nell’altra di milioni, e ai tratta non d’infelici ma di malcontenti, che purché non disturbassero la pace pubblica potrebbero fare quello che vogliono; si tratta di gente,

«c he mangia e beve e dorme e veste panni»

a piacere, che ha teatri, caffè, e nei caffè camere di riserva ove se si vuole può fin bestemmiare contro il suo governo per mite e paterno che esso sia; che ha università, licei, accademie, biblioteche, pinacoteche e che so io; che può far stampare ciò che le vien in testa, perché non predichi l’irreligione, la rebilione e l’assassinio; che può esser cristiano ma anche se cosi gli piace turco, o anche peggio; — ma gente la quale vuol assolutamente un altro governo. — E perciò l’unico modo per formulare in riguardo alle due questioni una induzione che non faccia ai pugni col senno comune è il seguente: Se voi, alte Potenze cristiane, non avete provato verun ribrezzo, trattandosi dell’equilibrio politico e della pace d’Europa, per salvar l’Impero turco, di sacrificar cinquemilioni di martiri cristiani; come potete esitare trattandosi egualmente di una questione d’equilibrio politico, della pace d’Europa, e dell’integrità di uno Stato qual è l’Austria che vi è ben altrimenti necessario che l’Impero turco, a render sia in un modo o in un altro in cui alcune migliaja d’individui i quali in gran parte agitano e cospirano per aver qualche cosa da fare.

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J. F. Martens. Précis du Droit des Gens. Liv. VII. c. IV. $ 274.52

Der Krieg gegen Russtand 1853—1856. Militérische Studien von J. M. R. A… k. k. Offizier. (La guerra contro la Russia dal 1853—1856. Studj militari di un i. r. Uffiziale.) L’autore che ha voluto celar il suo nome, ancorché il suo lavoro aia comendevolissimo, è il solo scrittore, per quanto a me consta, che trattandosi della guerra d’Oriente abbia parlato delle misure prese dall’Austria relativamente ai Serbi e ai Montenegrini, per indurli, e in caso di bisogno per costringerli a star quieti. Ma neppur esso si è occupato della portata, e dell’importanza di quelle misure, e dei servigj dall’Austria resi in quell’incontro alla causa Europea.53

La convenzione fra l’Austria e la Porta relativamente ai Principal danubiani dei 14 giugno 1854 si trova nelle: Verhandlungen und Beschlüsse der deutschen Bundesversammlung in der orientalischen Angelegenheit p. 91—96 in francese e in tedesco.54

Der Krieg gegen Russiand, c. s. p. 201.55

Über den Ablauf der orientalischen Angelegenheit un die Mitte des neunzehntea Jabrundertes. Leipzig 1857 p. 32. L’operetta offre degli interessanti materiali sulla questione d( 5) Oriente, e mila di lei soluzione. È anonima.56

Sull’impegno preso dallImperatore Napoleone III che la pace d’Italia non si turbase drante la guerra d’Oriente vi ha anche nella Storia degli Italiani del Signor Can il seguente passo:

«Poiché le longhe guerre nessun sa dove riescano, i popoli si ridestarono alle speranze; intanto conosceano rotta l’alleanza nordica, ch’era sempre stata lo spauracchio degli ammodernamenti; Francia e Inghilterra, unità temporariamente, non tarderebbero a guastarsi, come nemiche naturali che sono; la conflagrazione di venuta universale, metterebbe di nuovo in problema le sorte del mondo, e batterebbe l’ora dei popoli, che erasi voluto accelerare invano colle congiure e colle rivoluzioni.»

«Queste le illusioni: i fatti erano che l’Imperatore de’ Francesi bandiva l’Austria come necessaria, le garantirà l’invio1abilità de’ suoi possessi cisalpini in secreto, e a gran voce dichiarava che, dovunque si elevasse la bandiera popolare, fosse all’AIpi o al Tauro, egli e i suoi Alleati l’avrebbero abbattuta; e il fecero col reprimere i Greci, i quali nell’abbassamento della Turchia aveano confidato d’alzarsi. Le speranze illanguidirono allorché invece di strepitar nel cuor dell’Europa, la guerra si confinò nella penisola di Crimea.

«Prevedendo lunga e momentosa la guerra, Francia e Inghilterra cercavano alleati tra i piccoli… aderì con esse il Piemonte obbligandosi di mantenere ventimila uomini in Levante… la spedizione avea trovato contradditori nel Parlamento sardo… Mai più vedeanvi un’opportunità di riparare in Crimea le rotte di Lombardia, di collocare il regno fra le maggiori potenze, d’addestrare sulla Cernaja i soldati che potrebbero poi adoperarsi sul Po: Francia e Inghilterra nojate d’oscillare dell’Austria, contro questa favoriranno il loro alleato, e giacché altrove divise con loro gli stenti e le imprese, nella pace gli concederanno l’ambita Lombardia. «Cosi lusingavansi gli speculativi quando, morto Nicolò, suo figlio Alessandro II affrettò una pace ove nulla egli perdea… Dei vantaggi sperati dal Piemonte non fu nulla, e nonché rimpastare i territorj, si saldarono di nuovo i trattati del 1815.

«Indicibile la scontentezza in Piemonte. I liberali ripeteano: — Nol dicevamo noi che ci esponevamo a pure perdite, per mero vantaggio d’altre potenze? I conservatori numeravano quattromila uomini perduti, e prodi uffiziali, e sessanta milioni in denaro, e tante ansietà e sofferenze, per null’altro se non perché un ministro sardo apponesse la firma ad un trattato Europeo. (Vol. VI. Lib. c. XCIII)57

Durante la guerra d’Oriente comparvero s di essa due memorie anonime che si atirarono in sommo grado l’attenzione del pubblico, intiolate; De la conduite de la Guerre d’Orient expdition de Crime; mmoire adress au gouvernement de S. M. l’Empereur Napolon III par un Officier gral. Bruxelles. Fvrier 1855. La seconda fu pubblicta in maggio non pi a Bruxelles ma a Ginevra. Ambidue le dette memorie sono evidentemente inspirazioni piemontesi dettate sotto le sconsolanti impressioni che fceva sugli agiatori italiani nel Piemonte. Le triomphe d la politique autrichienne negli affari d’Oriente. Esse sono intese a dimostrare che l’Austria nella soluzione della questione, e nella guerra d’Oriente non stata se non, per dir con una parola ci che l’autore di esse vi dice con mille, una pastoja che l’Imperatore Napoleone III spensieratamente fia messo alla Francia el|gli Alleati nella guerra contro la Russia in generale. Nella seconda delle note sardoPimontesi rimesse del conte Cavor, e dal marchee Villamarina durante il Congresso di Parigi al conte Walewski, e al conte di Clarendon (v. in questi studj la pag. 101) si legge; Et l’Autriche aprs avoir obtenu sans qu il lui cot le moindre sacrifice l’immense bienfait de la libert de la navigation du Danube, et de la neutralisation de la mer Noire, acquerrait une influence sur l’Occident. La medesima osservazione, solamente picircostanziata si trova anche nella seconda delle suddette memorie: Chose trange! Les quatre grandes puissances belligrantes ont toutes galement perdu dans la guerre d’Orient; l’Angleterre est sans soldats, la France est douloureusement prouve, la Russie est fortement menace sur ses frontires mridionales, la Turquie est puis d’hommes et d’argent, l’Autriche seule a gagn cette guerra: elle n’a risqu jusqu’ ce jour ni un homme ni an ecu; elle n’a pas fait un sacrifice. (IV. Triomphe de la politique autrichienne p. 24

Nel seguente capitolo è detto: «Le sacrifice que faisait le Piémont était immense. Assurément c’était une touchante preuve de sympatie pour notre cause; c’était en même tems un précieux renfort pour nos armes. L’Empereur ne sut point en tenir compte à cette nation si brave et si dévouée. Il prit ombrage de la nuance de prédilection an profit du gouvernement anglais… et il temoigna an Piémont un mauvais vouloir systématique qui plaça lo ministère Cavour—Rattazzi dans la plus fausse des situations. D’abord l’Empereur refusa d’appuyer à Vienne comme elles devaient l’être les réclamations si légitimés du Piémont au sujet de la séquestration des biens des émigrés lombards, naturalisés sardes; c’était un des premiers avantages qui le cabinet de Turin comptait obtenir on compensation do son sacrifice;… Ce fut pour le Piémont une déception d’autant plus sensible que, simultanément le conflit austro—suisse recevait une solution avantageuse… Le gouvernement piémontais pouvait croire aussi qu’en prenant part à la tutte, il acquérait le droit de débattre a Vienne l’intérêt Européen peur le quel il prenait les armes. Il n’en fut pas même question. — Dans son voyage de Londres, l’Empereur s’expliquant sur le caractère du conflit, applaudissant aux généreux efforts des puissances alliées, n’eut pas un mot d’éloge à l’adresse du Piémont. Ce silence prémédité et systématique eut quelque chose d’humiliant, non pas pour la nation sarde, mais pour les hommes qui l’avaient engagée». (VI. Piémont p. 36—39), e nel VII, «Récapitulation des faits. Si nous récapitulions les fautes qui ont été commisses par l’Empereur, et qu’il aurait pu facilement éviter, nous serions obligés de faire une longue addition, témoignage de l’indécision et de la faiblesse de sa politique. 1.° Préférence générale accordée au système des alliances absolutistes sur le système des alliances avec les nationalité. 2.° Recherche de l’alliance autrichienne, qu’on pourrait intituler: poursuite d’une ombre insaisissable. 3.° Consentement empressé à la conclusion du traité spécial entre l’Autriche et la Turquie. 4.° Abandon du véritable théâtre de la guerre, les principautés danubiennes, point culminant d’où les puissances occidentales devaient diriger la guerre et la diplomatie. 5° Idée de l’expédition de Crimée mise en avant par l’Autriche, et acceptée sans réflexion par les alliés»(p. 39).

Il vero è che Napoleone III non poteva se non a malincuore aderire all’ammissione nell’alleanza contro la Russia di uno Stato, che stante i principj sovversivi che esso professa, non poteva che discreditarla. La Francia avrebbe facilmente potuto fornire quindici mila uomini dippiù, e l’Imperatore li avrebbe volontieri forniti per non trovarsi con un tal alleato. E non fu certamente se non a malincuore che Napoleone III ha ammesso dei Rappresentanti sardo—piemontesi al congresso di Parigi, del che vi ha una prova parlante nel fatto, che il conte Walewski non ha mai, per quanto il Ministero sardo—piemontese ne lo ricercasse; voluto riconoscere formalmente il ricevimento delle due note rimessegli durante il Congresso di Parigi dal conte di Cavour e dal marchese Villamarina, ciò che in Diplomazia equivale ad una assoluta riprovazione del contenuto della nota ricevuta (Veg. « Le Traité de Paris du 30 mars 1856 par le Correspondant diplomatique du Constitutionel chap. XL p. 298».)

Il Ministero Sardo—Piemontese mette un grande impegno a far credere all’Italia di poter in caso di una guerra coll’Austria conterà su dei soccorsi francesi e inglesi. Se esso lo crede s’inganna. Il caso quanto alla Francia è chiaro. Quanto all’Inghilterra, se il conte di Clarendon fece sua la proposta sardo piemontese di secolarizzare se non tutti gli Stati pontificj almeno le Legazioni, fu questo una « courtoisie diplomatique» con la quale l’Inghilterra pagava il debito contratto con l’accettazione dei 15 mila Piemontesi. l’Inghilterra sapeva benissimo i servigi che l’Austria aveva reso alla causa Europea coll’impedire i Serbi e i Montenegrini dallo slanciarsi sull’Impero Turco nei primi mesi del 1854; e che se essa si fosse allora unita alla Russia per una spartizione dell’Impero turco, la spartizione si sarebbe fatta. (V. nel Blue—book la corrispondenza fra il conte di Westmoreland e il conte di Clarendon.)

Gli avvenimenti del 1848 e del 1849 hanno insegnato che il molto: L’Italia farà da sé è da mettersi fuori di calcolo. L’Europa non può volere l’indebolimento dell’Austria, non lo vorrà e non lo tollererà mai, e l’Inghilterra qualora si vedrebbe all’atto pratico meno di ogni altra potenza Europea. L’Italia non presti fede alle millanterie di soccorsi stranieri — chi si avvisò un giorno di dirlo: «Deh fossi tu men bella, o almen più forte»

le direbbe oggidì, se al fatto della di lei vera situazione e condizione:

Deh fossi tu men pronta a dar ascolto

A chi d’ingannarti agogna.

Rimanga l’Italia ciò che Iddio l’ha fatta. Essa non ba bisogno di esser più forte. Nessuna potenza le farà violenza; l’Austria meno di ogni altra. Un’ombra di sopruso che essa si permettesse, basterebbe acciò se ne dasse dai quattro angoli della terra l’allarme. il caso di Ferrera nel 1847, nel quale può avervi avuto un eccesso nelle forma, ma senza che vi avesse alcun diritto leso, l’ha provato a sufficienza. Che l’Austria ringrazi il Cielo, che ne esaurisce la quotidiana preghiera «e non c’indurre in tentazione». Fortunata quella grande Potenza che non osa aver tentazioni d’ingrandimento: come dall’altro canto infelicissimo quello Stato di terzo o secondo ordine che vi si lascia indurre da illusioni, e vi si abbandona.58

Lo stato normale del battaglione d’infanteria nell’esercito russo è di 800, quello dello squadrone di 100 uomini. L’esperienzia insegna che l’effettivo, cioè gli uomini presenti sotto le armi durante una campagne, differisce dal normale per lo meno del 25 per cento. Il capitano Du Casse nel suo «Precis historique des operations militaires en Orient, du mars 1854, à octobre 1855» Paris 1857, mette in conto, nel determinare la forza dell’armata russa nelle battaglie dell’Alma e d’Inkermann i battaglioni a 800, e gli squadroni a 100. Io li abbasso a 600, e a 80 uomini. Le ciffre pel mese di aprile 1855 in ambidue le armate, sono quelle stesse che servirono in base all’Imperatore Napoleone III nel suo piano per la campagna del 1855 nella Crimea. (Veg. l’Expédition de Crimée par le Baron de Bazancourt. Tome II. liv. U. p. 27.)

fonte

https://www.eleaml.org/ne/stampa-1820/1859-catinelli-studi-sopra-la-questione-italiana-2020.html#CAPITOLO_III

https://www.eleaml.org/ne/stampa-1820/1859-catinelli-studi-sopra-la-questione-italiana-2020.html#CAPITOLO_IV

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