Alta Terra di Lavoro

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STUDJ SOPRA LA QUESTIONE ITALIANA DI CARLO CATINELLI

Posted by on Gen 5, 2021

STUDJ SOPRA LA QUESTIONE ITALIANA DI CARLO CATINELLI

La Questione Italiana, ancorché un argomento che interessa immensamente non solo l’Italia, e l’Austria e gli Stati limitrofi, ma tutta l’Europa, anzi in più di un riguardo tutto il mondo civilizzato, e, dal 1848 in poi, tutto il mondo cattolico, non è mai finora stata, che io sappia, come sembra che lo richieda la somma sua gravita, istudiata a dovere; cioè tanto nei suoi principj, che nelle sue conseguenze, ragioni, relazioni, e dipendenze; né mai depurata dalle tante illusioni, fantasmagorie e falsità, che vi ottenebrano il vero, e ne rendono il riconoscimento, se non impossibile, difficilissimo.

Vi hanno bensì degli scritti, e nel grande numero anche di lodevolissimi, che trattano questa o quella dette molte questioni, nelle quali la questione suddetta si dirama; ma in nessuno di essi la si considera da ogni suo punto di vista, in nessuno si sottopone ad un rigoroso, esauriente, analitico—sintetico esame.

Egli è in conseguenza di questa disgraziatissima trascuranza, che si è prodotta guerra fiera agitazione, avente per iscopo la realizzazione dette pretensioni comprese net la questione italiana, la quale per corso ormai di quaranta quattro anni, non senza essere nell’istesso tempo un fomite di rivoluzioni e di guerre, e non solo uno scandalo, ma anche un’onta per l’Europa, inquieta, tormenta e funesta senza posa l’Italia. Chi non vede essere assolutamente impossibile, che giammai si arrivi a conoscere il modo, ed i mezzi di rimediare tanto male, se prima non se ne istudiano, come si suol dire a fondo le cause, e non si giunge a conoscerle?

Questi miei studj non saprebbero riempire questo vuoto. Nondimeno, lusingandomi che bastino a dimostrare l’urgente necessita di riempirlo, e che, offrendo net loro complesso un programma del da farsi per riuscire nell’intenta, possano provocarne l’attuazione, e coi materiali che porgono, facilitarla, mi fo un dovere di pubblicarli; e cosi, succederà ciò che patrie, li pubblico.

Il mio nome suona italiano; sono pero per nascita, e per sentimento il Lettore non tarderà ad accorgersene — austriaco. Questa circostanza, congiunta con l’altra, che di tutte le pretensioni, che costituiscono la questione italiana, quella, che dalla suindicata agitazione si considera come la principale e più importante è lo strappamento del regno Lombardo—Veneto dall’Austria, potrebbe facilmente farmi supporre passionatamente contro l’Italia preoccupato.

Questa supposizione sarebbe falsissima. Ma ove essa non avesse altro seguito, che d’indurre il Lettore a prescindere dalle mie conclusioni o a rifare del tutto il mio lavoro, lungi dall’esserne dispiacente, ne sarei anzi contentissimo. Sia egli vero con sé stesso non si voglia ingannare; non respinga il disinganno per acerbo e molesto, che esso a prima vista gli appaja; fatto ch’egli avrà; confronti i due scritti. Vi avranno delle differenze; ma quanto ai punti essenziali, appena ne posso dubitare, ci troveremo abbastanza d’accordo.

Gorizia al 1. di Dicembre 1857

L’Autore.

STUDJ SOPRA LA QUESTIONE ITALIANA

INTRODUZIONE

La Questione Italiana comprende nell’attuale sua fase, i seguenti concerti: Avervi negl’Italiani il forte, unanime, ardente volere di riunirsi tutti in un solo ed unico stato e quanto prima fia possibile in uno stato repubblicano democratico. Il confine di questo stato dalla parte del continente dover essere la gran catena centrale delle Alpi: averlo segnato e fissato la stessa natura; vedervisi chiaramente il dito di Dio; appartenere perciò all’Italia senza alcun scemamento, tutto il paese, che si estende dalle cime dei detti monti, sino allo Stretto~di~Messina, e appartenervi egualmente senza eccezione tutte le aggiacenti isole, che sono, ommesse le piccole: la Sicilia, la Sardegna, la Corsica e Malta. Avere l’Italia ad essere in ogni sua parte libera e indipendente da qualunque dominio forastiero. Il volere forte, unanime, ardente di un gran popolo qual è il popolo italiano, giustificarsi e legittimarsi da sé. Reclamare quindi gl’Italiani, e averne il pien diritto: dall’Austria, il regno Lombardo—Veneto, il Tirolo meridionale, e l’Illirio occidentale; dalla Svizzera, il Canton Ticino; dalla Francia, la Corsica; e dall’Inghilterra, Malta. Il presente ordinamento dell’Italia essersi dettato dal congresso di Vienna del 1814 e 1815 senza il consenso dei di lei abitatori; anzi in opposizione ai loro voti, ai loro bisogni, e alle loro convenienze; e in contraddizione alle promesse solennissime che le potenze alleate, le quali abbatterono Napoleone nel 1814, hanno dato a tutti i popoli d’Europa, e quindi anche agi’ Italiani, di rispettarne e proteggerne l’indipendenza. Non essere stato quel dettato, se non un barbare sopruso della forza brutale. E finalmente, che essendosi nel 1848 dimostrata l’assoluta incompatibilità dei governo clericale pontificio, e della presenza del Papa a Roma, con l’unità e colla libertà dell’Italia agognata da ogni vero Italiano, renderai necessario, che il mondo cattolico pensi ad assegnare, ed assegni al santo Padre suo Capo, un altro paese ove trasportarvi e piantarvi la sua Sede.

Tale è la questione italiana, detta anche la santa causa d’Italia, ridotta ai suoi minimi termini. Essa ha Paria, ne convegno, di una amara ironia. Ma formulati senza ambagi, e senza reticenze, questo è il suo vero aspetto; né vi ha il modo di cambiarvi checchessia, senza dipartirsi dal vero. Le pretensioni, che vi si mettono in campo, sono talmente in disaccordo col jure pubblico da secoli in corso nel nostro mondo politico du crederle calate sul nostro, chi sa da qual altro pianeta.

Le conclusioni risultanti dagli studj, che qui mette alla disposizione del pubblico, sono: che le potenze alleate, le quali hanno posto un fine al dominio di Napoleone Bonaparte, erano tante più in pien diritto di riordinare l’Italia, e di riordinarla subordinandone il riordinamento agli interessi generali dell’Europa, ché gli Italiani avevano, sino alla caduta di quel terribile uomo, coadjuvato in ogni modo alla sua esorbitante prepotenza, presa la difesa della sua esecrabile causa, e combattuta la causa dell’indipendenza Europea. Che ciò nonostante, il detto riordinamento dell’Italia ha avuto luogo, con appena qualche eccezione, nel più perfetto accordo con i voli della rispettive popolazioni, e con ogni possibile riguardo ai loro bisogni e alla loro convenienze. che il ricordare, che fanno gli agitatori Italiani, i proclami e manifesti che all’Italia indirizzarono gli Austriaci nel 1809, e nella guerra d’indipendenza in generale le potenze alleate, per indurla ad abbandonare la causa di Napoleone, e abbracciare quelle dell’Europa, è un vero insulto al buon senso. Che l’agitazione contro il suddetto riordinamento è stata prodotta e alimentata da un branco di settari coi mezzi i più riprovevoli. Che l’Austria nella sua attuale posizione, estensione, composizione e possanza, è per l’Europa in generale, e per l’Italia in particolare una vera e assoluta necessità; e che qualora essa un di venisse a mancarvi, vi si riprodurrebbero per l’Italia i tempi infelicissimi, che corsero dal secolo sesto all’undecimo. Che lasciando fare un Italia coi principj e nel senso degli agitatori Italiani, converrebbe disporsi a lasciar mettere a soqquadro e disfare tutta l’Europa. Che il pronunciato giobertiano: essere gli Stati, qualora si compongono di più schiatte, anomalie contro natura, e di una durata effimera, trovasi contradetto da tutta la storia. Che l’asserzione proveniente dalla stessa scuola, essersi l’impresa dell’indipendenza italiana proseguita sempre per tredici secoli senza interrompimento, è parimente priva di ogni fondamento. Che la catena centrale delle Alpi non è mai stata il confine politico dell’Italia; che le Alpi sono in quasi tutta la loro estensione conformate dalla natura in modo a presentare un vallo, non contro la Germania, ma contro l’Italia: e che perciò, quel Ben provvide nature al nostro Stato.

Quando dell’AIpi schermo

Pose fra noi, e la Tedesca rabbia.

se anche sta in poesia, non sta minimamente in verità. Che segnatamente le Alpi—Giulie, le Alpi—Carniche, e le Alpi—Retiche non sono monti italiani, ma rispettivamente, monti illirici, carinziani e tirolesi e, detto in una parola, monti austriaci; che codeste Alpi sono Acropoli con guarnigioni austriache, a cavaliere del paese sottoposto, rinchiuso fra l’Adriatico, il Pò, e il Ticino, vale a dire, del regno Lombardo—Veneto; e quindi. avervi bensì il dito di Dio, ma indicar esso tutto l’opposto di ciò che vi vogliono vedere gli agitatori italiani. Che le specificate Alpi non si sono mai difese contro le genti o gli eserciti, che provenienti dal Nord o dall’Est invasero l’Italia, che i Romani non le difesero in nessun tempo, che non le difesero neppur nelle guerre civili sotto gl’Imperatori; doversi dire lo stesso degl’Italiani, che mai le difesero contro gl’Imperatori di Germania. —Che il vero popolo italiano non ha mai riconosciuta la cosi detta causa d’Italia per sua; che esso non ha mai voluto saperne; che quel nome Causa d’Italia è un nome usurpato. — Che se mai il vero popolo, ossia le masse in Italia si alzassero, si alzerebbero per una causa lor propria, diversa affatto dalla cosi detta causa d’Italia. — Che dato il caso che gl’Italiani un giorno riuscissero a unirsi in un solo stato, vi vorrebbe niente meno che mano ma di ferro qual era quella di Napoleone Bonaparte per ritenerveli uniti. — E finalmente che l’Italia qual ë, è l’opera di cause provvidenziali, le quali se Iddio non le cangia, continueranno a determinante i destini anche per l’avvenire, e non altrimenti che li hanno determinali finora.

CAPITOLO I

Sul contegno degli Italiani dal 1808 al 1814 rimpetto alle imprese d’indipendenza Europea contro Napoleone Bonaparte.

La condizione degl’Italiani durante la dominazione di Napoleone Bonaparte, oltre all’essere oltre ogni segno dolorosa (1), era in quanto anche sommamente degradante, ché gl’immensi sagrifizj, che esso loro imponeva, non servivano che ad alimentare la sua estrema ambizione, da lui portata ad un eccesso, al quale non la portà mai uomo al mondo, e a tormentare e a mettere in ceppi i popoli, che avevano la disgrazia di esser accessibili alla sua esorbitante prepotenza. Gl’Italiani sentivano profondamente il loro avvilimento, e ne fremevano; non pertanto gli obbedivano, e continuarono a lasciarsi da lui adoperare come istrumenti del suo volere sino alla sua caduta, e a profondere il loro sangue a le loro sostanze nelle guerre che egli, col calpestare i diritti degli altri e col rendersi di giorno in giorno più minaccevole all’indipendenza Europea, provocava. – I nostri «dice un rinomato scrittore, che sarò sovente nell’esercitare, non campeggiavano che sotto marescialli forestieri; e i loro nomi figuravano sempre in seconda fila; oltre che riportavano le imprecazioni dei popoli cui andavano a porre il giogo. È necessario armarsi per divenire nazione; qual vanto il partecipare ai vanti di un genio immortale, cosi ci ripetevano: ma per quanto sia comune l’entusiasmo per quel macello, che s’intitola gloria militare, archi e trofei mal coprivano i tanti sepolcri; l’esercito non guardavasi più con maraviglia, ma con compassione, dacché pareva certa morte il marciar là donde si pochi ritornavano; e il buon senso avvertiva, che i nostri giovani rapiti in sempre più giovane età, e in maggior numero, non militavano pel bene della patria, ma per ambizioni estranee ad essa (2)».

Eppure non mancavano agl’Italiani le occasioni le più favorevoli di emanciparsi. Ma ancorché le fossero occasioni non già momentanee e sfuggevoli, ma tali da potersi cogliere e da servirsene con maturato consiglio e che tutta l’Europa non soggetta a Napoleone li confortasse colle parole e coll’esempio a profittarne, e loro si offrissero, qualora si alzassero, ajuti e soccorsi; essi giammai si mossero, e continuarono a cooperare all’aumento della di lui esorbitante possanza, e a far sotto le di lui bandiere la guerra all’indipendenza europea, e ad opporsi al ripristinamento di quella solidaria garanzia del concerto Europeo denominata equilibrio politico. Napoleone era già stato stanciato dal suo carro trionfale, ché essi, non altrimenti, che se vi fossero ritenuti da catene fatale, abbenché l’odiassero a morte, e oltremodo se ne vergognassero, vi tiravano ancora.

Questo acquietarsi degl’Italieni in una si penosa, pungente e abbietta servitù, nonostante che vi avessero da nna parte i più incalzanti motivi, e dall’altra le più incoraggianti occasioni di liberarsene, vuolsi da taluni attribuire alla speranza, con la quale Napoleone li lusingava, che un di farebbe coll’Italia, ciò che i Romani dopo la prima guerra di Macedonia avevano fatto colla Grecia, e che riunitala tutta, la dichiarerebbe libera e indipendente, e la rilascierebbe a sé stessa. Avendo Napoleone effettivamente riunita in un corpo politico la maggior parte dell’Italia settentrionale, cui aveva dato il nome improprio, ma assai significative di regno d’Italia, gl’Italiani vi videro il divisamento di aggiungervi, a misura che gli avvenimenti gliene offrirebbero i mezzi, il rimanente del continente italico e tutta la penisola. E che esso abbia lasciato di tratto in tratto cadere delle parole in questo senso a Lione, durante la consulta italiana, che vi si tenne nel 1802, e nei suoi viaggi d’Italia, e anche dettato dei discorsi nell’isola di S. Elena può essere, ed è vero (3).

Senonché in opposizione a queste prove in parole e in discorsi, vi banno dei fatti, che le annullano intentamente.

Questi fatti sono 1.° la fusione del Piemonte, del Genovesato, dei Ducati di Farina e di Piacenza, della Toscana e di quelle provincie pontificie, che la pace di Tolentino aveva lasciate al Papa, in dipartimenti francesi, incorporando quei paesi italianissimi alla Francia; dichiarandoli per sempre parti integranti dell’Impero francese, e volendo che i Piemontesi, i Genovesi, i Parmigiani, i Piacentini, i Toscani ed i Romani cessassero di essere italiani, e divenissero e si dicessero francesi; e dichiarando Roma la seconda città di Francia. 2.° Che l’erede presuntivo della corona di Francia ebbe a intitolarsi re di Roma (4).

3.° Che Napoleone intraprese grandiosi lavori per rendere sempre più l’Italia accessibile alle armate francesi, aumentando il numero delle strade carreggiabili attraverso le Alpi, ampliandole e riducendole permeabili anche d’inverno ciò che prima non erano; e inoltre, con lo scopo di togliere ogni ostacolo militare, che si potesse opporre alle sue trappe, quando dirette per l’Italia, smantellando tutte le piazze forti del Piemonte colla sola eccezione delle cittadelle di Torino e di Alessandria, e 4.° che esso fece fortificare con grande dispendio. e studio, a modo di campo trincerato, Alessandria qual base della potenza militare francese in Italia (5)

e destinandola in caso che questa dovesse lasciarsi in balia di sé stessa, o abbandonarsi ad un’armata nemica della Francia, a offrire ai Francesi che vi si ripiegassero in aspettazione di soccorsi, e per riprendere a suo tempo l’offensiva e riconquistare il paese, una piazza ove riparare con sicurezza. La fusione con la Francia di una si considerevole parte d’Italia, che poco men che uguagliava in estensione e popolazione il regno italico doveva bastare a convincere ogni intelletto sano, che Napoleone, anzicché essere disposto a emancipare l’Italia, pensava a stringerla sempre più con nodi indissolubili alla Francia, e a subordinare intieramente e per sempre gl’interessi a quelli di questa. E da ciò segue, che per l’Italia, volendo farsi stato libero indipendente, si rendeva innanzi a tutto necessario e indispensabile, alla prima favorevole congiuntura, come, per esempio, che gli eserciti francesi si trovassero impacciati in guerre lontane d’insorgere contro il suo oppressore, di dichiararsi indipendente, e d’ingiungere alle truppe italiane, di staccarsi dall’armata francese nelle cui file combattessero, e di passare nelle file delle armate degli Alleati, che combattessero per l’affrancazione dell’Europa.

Or ecco ciò che l’Italia, ancorché da Napoleone orribilmente malmenata, e ancorché in un estremo avvilimento, e che, come tosto si vedrà, le occasioni di emanciparsi non le mancassero, non ha mai voluto o mai saputo fare. La guerra nella quale Napoleone, spintovi dall’insana e feroce smania di creare dei reami pei suoi fratelli, e per le sue sorelle, s’inviluppò nel 1808 con la Spagna, gli toglieva ed occupava oltre a duecento mila uomini. Egli dovette portarvisi in persona e sarebbe, per quanto gl’Inglesi la soccorressero con genti, armi e con munizioni di guerra, pervenuto a soggiogarla, se l’Austria non avesse fatto mostra di alzarsi a di lei salvamento, e non si fosse anche nella susseguente primavera alzata, e fatto avvanzare un esercito che contava duecento sessantacinque mila soldati, presenti sollo le armi. E che soldati quelli si fossero l’hanno sufficientemente dato a divedere le battaglie campali di Aspern e di Wagram, delle quali vinsero la prima (20 e 21 maggio 1809) abbenché preceduta da una serie di disgrazie, che sarebbero state più che sufficienti a disorgannizzare, dissolvere, e disperdere ogni altra armata. Egli è vero che ne perdettero la seconda, ma oltre che ciò non fu se non a cagione della loro grande numerica inferiorità in ogni arma e particolarmente in artiglieria, è cosa notoria, avervi essi tolti al nemico più cannoni che non gliene rilasciarono, e che questo non ebbe a vantare altri prigionieri, che i feriti rimasti sul luogo ove combatterono (6).

L’Austria aveva inoltre a quell’epoca nella sua Landyvehr composta in gran parte di veterani, e in altra gente armata e organizzata e da potersi immediatamente impiegare alla difesa delle sue frontiere, una riserva di niente meno che duecentomila uomini.

L’Arciduca Giovanni, che nel 180comandava l’armata austriaca in Italia vi fece diramare, nell’entrarvi, un proclama che cosi incominciava: «– Italiani! ascoltate la voce della verità e della ragione. La prima vi dice, che voi siete schiavi della Francia, che consumate solo per lei sostanze e vita. E co sa di fatto che il presente regno d’Italia non è se non un sogno; un nome vano senza realtà. Ma le leve d’uomini, le imposte, le angherie sono cose vere e reali. – L’altra vi dice, che in questo stato di avvilimento voi non potete né essere stimati, né aver pace, né essere Italiani. Volete voi esserlo? Aggiungetevi con pronto animo al possente esercito, che l’imperatore d’Austria generosa mente invia alla volta d’Italia. E sappiate che non è già per ispirito di conquista, che il fa procèdere oltre, ma per difendere sé stesso, e per l’indipendenza d’Europa, minacciata, come lo dimostrano tanti fatti irrepugnabili, di inevitabile servitù. Se Iddio sostiene le virtuose imprese dell’imperator Francesco, e quella dei suoi possenti alleati, l’Italia sarà felice e rispettata in Europa. Il Capo della Chiesa avrà la sua libertà e gli stati suoi; ed una Costituzione fondala sopra la natura delle cose, ed nna vera politica, fa ranno prosperare il suolo italiano, e renderanno inaccessibili le sue frontiere ad ogni straniera signoria. Egli è l’imperatore Francesco il quale vi fa certi d’uno stato si avventuroso ed onorevole. Ben sa l’Europa che la parola di questo principe non è vana, e che è cosi immutabile come essa è pura… Italiani! la verità e la ragione vi dicono che mai non avrete una più favorevole opportunità per trar l’Italia dal giogo che la grava (7)».

Un tal linguaggio doveva togliere agli Italiani ogni dubbio che, alzandosi, ciò che farebbero, lo farebbero per sé, e che una volta sortiti dai ceppi francesi sarebbero liberi e indipendenti, e nel caso di darsi quella forma di governo, che loro fosse più convenuta e più piaciuta. Dall’altro canto per poco che avessero esaminata la situazione di Napoleone e considerate le forze che gli rimanevano dedotte quelle che avevano a combattere in Ispagna e nella Germania, si sarebbero convinti, che vi aveva una decisa preponderanza dalla parte dei suoi avversarj, e che esso non aveva i mezzi di comprimere una insurrezione italiana subito che la si fosse estesa a intiere provincie; e che il felice esito di una tal impresa era immancabile, e ciò a tal segno che su di essa anche una sconfitta che toccasse all’Austria non avrebbe esercitata nessuna sinistra influenza. Il che è tanto vero che, quantunque la guerra in discorso prendesse, dopo essere stata iniziata in Italia con una decisiva vittoria, e nel Tirolo con l’insurrezione dell’intiera sua popolazione montanara, non escluse le donne, la piega più disastrosa, ciononostante lo scopo di essa, cioè il salvamento della Spagna, e la dimostrazione, che l’Europa avea i mezzi ed il modo di resistere a Napoleone, e che il ripristinamento dell’equilibrio politico stava in di lei potere, fu completamente ottenuto. Napoleone dovette abbandonare la guerra di Spagna ai suoi generali, che non seppero condurla, per mettersi alla testa dell’armata destinati ad opporsi ai centosettantacinque mila Austriaci, che condotti dall’Arciduca Carlo eran entrati in Baviera. Le trappe, che gli rimanevano, dedotte quelle che guerreggiavano in Ispagna ammontavano appena a centomila Francesi, e a quarantamila Te des ch i attinenti alla confederazione renana. La sua situazione era quanto mai si può dire critica (8) e non se ne sarebbe cavato, per poco che gli Austriaci avessero evitati gli scontri fortuiti e precipitosi, e accettate sottanto delle battaglie regolari, come furono appunto le battaglie di Aspern e di Wagram, la prima delle quali lo fermò sul Danubio a tal segno, che per riprendere l’offensiva gli convenne prepararvisi sei intiere settimane, e si trovò nella necessita di sguarnire affatto la Dalmazia, e tutta l’Italia sino al Tronto e a Terracina, e in Germania la Sassonia.

Bastava che l’Italia lo volesse, per riuscire a disfarsi del suo oppressore. Gli Inglesi percorrevano da padroni tanto l’Adriatico, che il Mediterraneo, pronti a soccorrere nell’istesso modo, come avevano soccorso la Spagna, ogni paese italiano che avesse inalberata la bandiera d’indipendenza. Nel regno di Napoli stavasi Gioacchino Murat con venti in venticinquemila Napoletani, ma i quali appena bastavano per difendere quel regno contro gli Anglo—Siciliani che per mare lo minacciavano in tutta l’estensione delle sue mille miglia italiane di coste. Il Vice—re con l’armata italo—francese trovavasi in allora sulla riva sinistra del Danubio a più di trenta giornate di marcia dall’Isonzo. Una insurrezione che si fosse prodotta nel Piemonte e nei paesi aggiacenti, o negli Apennini avrebbe avuto due mesi di tempo per ordinarsi, estendersi e consolidarsi. In Mantova, in Peschiera, in Venezia, in Palmanova i presidj erano debolissimi e componevansi in gran parte di riconvalescenti e invalidi. Napoleone non aveva nell’Italia settentrionale tremila uomini di truppe disponibili. Questo è un fatto superiore ad ogni eccezione, comprovato dalché l’insurrezione della Valtellina che pur montava, allorché scoppiò, a otto in novemila uomini, non potè combattersi che con mille duecento uomini di nuova leva, e colla guardia nazionale di Delchio. di Morbegno e di Chiavenna, e che non si potè mai finirla che a pace fatta (9).

L’Italia non si mosse. Gl’Italiani continuarono a far la guerra alla Spagna, e a immolare i loro figli e le loro sostanze al Moloch che dicevasi loro re e imperatore. Dei trentasettemila uomini che forni il regno d’Italia nel 1809 all’armata del Vice—re per la guerra coll’Austria, si perdettero diciassettemila, dei trentamiladuecento Italiani del regno, e dei diecimila Napoletani partiti per la Spagna soli novemila dei primi, e milleottocento dei secondi rividero la loro bella patria (10).

Qual perdita facessero in quella guerra i dipartimenti italo—francesi non so dire, ma non fa certamente minore di quella che toccò ai due regni.

Napoleone fece con l’Austria una pace, che le lasciò la facoltà di rimettersi in forza. Vi hanno che pensano, aver esso allora potuto finirla con l’Austria, e ciò con un semplice «la maison d’Autriche a cessé de régner». Quei signori s’ingannano. Napoleone ha fatto quella pace, perché aveva bisogno di farla, e di farla subito, per la ragione, che l’orizzonte politico per lui di giorno in giorno più si oscurava. I Russi suoi alleati si erano mostrati nella guerra contro l’Austria al massimo segno ritrosi a favorire i suoi piani, e vi avevano in Polonia più nociuto che giovato; egli aveva potuto studiare durante il suo soggiorno nell’Austria lo spirito delle di lei popolazioni, e il loro inalterabile attaccamento alla casa regnante, e aveva compreso che qualunque provincia strappata a quella monarchia doverebbe alla prima guerra con essa un Tirolo; e vi aveano inoltre in tutti i paesi a lui soggetti, nell’Olanda, net Belgio, in Francia, e sino nel suo esercito delle tremende cospirazioni. In Italia l’esasperazione degli animi era giunta al colmo, e non si mancava di dipingerla a Napoleone coi colori i più neri. Ma sopratutto gli dava molto da pensare la Germania, che era un vulcano sul punto di erompere. come l’ho già detto, ma che qui giova ripeterlo, la guerra colla Spagna, coll’Inghilterra, e coll’Austria assorbiva tutte le sue forze, cosicché una insurrezione sia della Germania, sia dell’Italia lo avrebbe trovato intieramente sfornito di truppe per combatterla. La pace coll’Austria rimetteva la preponderanza della sua parte «– Grazie alla pace, scriveva egli a Miollis a Roma, mandandogli nove o dieci mila uomini di rinforzo, ho tempo e trappe disponibili». Se crediamo al signor Thiers, Napoleone nutriva allora il pensiero, che gli animi in Europa avevano sommo bisogno di calma, e che il soddisfarvi rendevasi di giorno in giorno più necessario e più urgente. Pur troppo però fu questo suo pensamento, se pur lo ebbe, di corta durala. Non passarono due anni e mezzo, che esso già metteva il suo mondo in movimento per una guerra colla Russia (11).

Questa guerra si fece, e costò, in poco più di sei mesi nel 1812,1a vita a mezzo milione di soldati, fra quali, senza contare i Napoletani e gl’Italiani dei dipartimenti italo—francesi, ventiseimila del regno d’Italia. Il bollettino il quale annunziava alla Francia, all’Italia e all’Europa questa orrenda catastrofe, unica per la sua enormità nella storia, finirà cosi: — La salute di Sua Maestà non è mai stata migliore. E anche il linguaggio tenuto in quell’incontro dal Vice—re all’Italia fu quanto mai si può dire spietato. — Egli scriveva, dice il signor Cantù al ministro di guerra, si facesse coscrizione per surrogare i morti; «né una parola lasciava cadere su questi; né una 0 ragione o un pretesto adduceva per indurre a nuovi sagrifizj un regno che pur doveva figurare come indipendente. Poi da Napoleone fu spedito a Milano perché tutto riducesse ad armi ed allestisse ottantamila uomini si del regno si dei 0 dipartimenti italo—francesi (12)».

Codesta guerra che era stata nel suo incominciamento una furiosa corrente di popoli, che scaricavasi con una forza irresistibile dall’Occidente sull’Oriente, si trasformò nell’anno susseguente 1813 in una corrente simile e maggiore, e non meno irresistibile, che si scaricò dall’Oriente sull’Occidente. In vano l’Austria fece ogni sforzo per indurre Napoleone a fare all’Europa patti ragionevoli, e ad ammettere e riconoscere l’indipendenza della Germania, se anche non sino al sue antico confine, almeno sino al Reno; e ad ammettere e riconoscere l’indipendenza dell’Olanda, della Spagna e dell’Italia. Non riuscendo nell’intento, entrò essa nella coalizione con duecentomila uomini. La di lei accessione lu la cagione, che gli stati e i popoli da lui dipendenti non dubitarono più del riscatto dell’Europa e non esitarono, a misura che gli alleati avanzavano, di pensare ai propri casi e di congiungersi con essi, e di rinforzarli con i loro soldati, che sino allora avevano combattuto per Napoleone. Cosi fece la Baviera, e per farlo non aspettà neppur l’esito della battaglia di Lipsia, cosi il Wurtemberg, cosi tutta la Confederazione—renana, cosi l’Olanda, cosi il Belgio. La sola Italia, che pur voleva figurare come indipendente non si mosse; essa sola.

La neghittosa, non escì dal fango: non perché non potesse, o non vi fossero i più forti motivi e incentivi di escirne, ma perché non si curò di farlo.

Le ostilità Ira l’armata italo—francese e l’armata austriaca cominciarono il giorno 1agosto contemporaneamente nel Tirolo, sulla Drava e sulla Sava. Il generale Barone Hitler, che comandava gli Austriaci, indirizzò anch’egli agl’Italiani, come aveva fatto nel 180l’arciduca Giovanni, un proclama, col quale, dopo avervi parlato delle generosi intenzioni dei Sovrani alleati in riguardo all’avvenire del loro paese, premesso un quadro delle forze della coalizione, li chiamava ad alzarsi contro Napoleone, — a generale liberazione dell’Europa, e a «cooperazione cogli eserciti, che in loro ajuto accorrevano da ogni banda (13)».

Ecco una guerra che di nuovo presentava, e più che mai, all’Italia l’occasione favorevole, certa e immancabile di farsi stato libero, autonomo, indipendente. Non si può parlar più francamente, di quello che gli Alleati parlarono, in tutto il tempo che essa durò, per mezzo dei loro generali agli Italiani in riguardo ai futuri destini della loro patria; lo che è da dirsi anche delle loro parlate a Napoleone mediante i loro diplomatici sul ripristinamento. dell’equilibrio politico. Le loro intenzioni per rapporto all’Italia erano le più pure, e più disinteressate. Ciò che essi volevano dall’Italia in particolare, era, ripetiamolo, che la si staccasse da Napoleone, e cooperasse all’impresa dell’indipendenza Europea, con che avrebbe cooperato anche alla sua. L’Austria non pensava più, che le altre potenze alleate, ad occuparne qual parte che sia.

Si, cos’è. Gli Alleati, disponendosi a passare il Reno, e ad entrare in Francia, penetrati dal pericolo che presentava una guerre con Napoleone e colla Francia in Francia, desiderando di assicurarne il più che fosse possibile il buon esito, e anche di possibilmente accelerarne infine, ansiosi perciò d’indurre l’Italia ad abbandonare la causa di Napoleone, ed a sposare quella dell’Europa, non ebbero ribrezzo d’indirizzarsi a Gioachino Murat, re di Napoli, e ad Eugenio Beauharnais Vice—re del regno d’Italia e di offrir loro, pel caso che volessero unirsi ad essi contro Napoleone, e ciò non per altro, che per forzarlo ad una pace ragionevole e rassicurante, di riconoscerli ambidue per re dei detti regni, vale a dire, il primo qual re del regno di Napoli, e il secondo qual re del regno d’Italia. E Murat accettò le offerte, e promise con un trattato firmato coll’Austria il giorno 11 gennajo 1814 l’addimandata accessione alla coalizione, il secondo invece vi si rifiuta. Or egli è innegabile che le trattative col Vice—re riferivansi a tutto il presente regno Lombardo—Veneto, ed essere stata l’Austria la potenza alleata, che le ha iniziate e incamminate. Il che è provato dal fatto, che fu indossando un’uniforme austriaca fornitagli dal generale Hiller, che il principe Thuru—Taxis,

Colonnello bavarese, si presentò nella seconda metà di novembre 1813 al Vice—re presso Verona, per fargli conoscere i desiderj e le offerte degli Alleati, e che fu il Principe Metternich, che dettò le relative istruzioni. Di più egli è ormai provato, che di già in ottobre di quell’anno il sunnominato generale Hiller da una parte, e il re di Baviera dall’altra, fecero intendere al detto Vice—re, che non dipendeva che da lui di essere riconosciuto re d’Italia (14).

Si finisca dunque una volta di ricordare i proclami degli Alleati all’Italia in prova della loro mala fede contro di essa. Che valore hanno e possono avere delle proposte, delle offerte, o delle promesse alle quali non si diede ascolto, o delle quali non compieronsi le condizioni? Se esse ricordano alcunché, ricordano l’estrema servilità ed inettezza del Senato, dei Ministri e dei Generali del regno d’Italia, i quali nulla fecero per tirare il loro paese da una situazione non meno assurda, che dolorosa e umiliante, e lo lasciarono impegnarsi e struggersi per l’ostinazione di Napoleone, di non riconoscere l’indipendenza della Spagna, della Germania, dell’Olanda e dell’Italia in una lotta terribile con tutto il rimanente dell’Europa, che pur voleva con l’indipendenza della Spagna, della Germania e dell’Olanda anche l’indipendenza dell’Italia; Il ricordare quei proclami, e più che altro un insulto alla logica del buon senso.

La guerra che aveva, come si è detto incominciato ai 1di agosto nel Tirolo, sulla Drava e sulla Sava dopo varj scontri e combattimenti sui detti fiumi, nelle Alpi—Giulie e nell’Istria, che per lo più riuscirono sfavorevoli all’armala del Vice—re, videsi trasportata il giorno 6 di ottobre sull’Isonzo, ed in capo ad un mese (8 novembre) sull’Alpon, a mezza strada fra Vicenza e Verona, e sull’Adige, e mediante lo sbarco di un distaccamento sotto gli ordini del generale conte Nugent (15 novembre) alle bocche del Po anche nel Ferrarese. Allo sgombro per parte del Vice—re dell’Illirio e della Croazia contribui non poco, che migliaja di soldati appartenenti alle dette due provincie notoriamente fino al 180austriache e nel detto anno con la pace di Vienna divenute francesi, appena che loro si mostrarono le insegne dell’Austria, corsero a combattere sotto di esse. In gennajo del 1814 giunse nelle Legazioni Gioacchino Murat, con circa ventimila Napoletani, il quale dopo alcune tergiversazioni,convenne col maresciallo conte Bellegarde, stato frattanto surrogato nel comando dell’armata austriaca al barone Hiller, di avvanzare di concerto col generale Nugent, il di cui distaccamento era stato rinforzalo e portalo a una intiera divisione di ottomila uomini, sulla riva destra del Po verso Piacenza, ciò che doveva obbligare il Vice—re, minacciandone il fianco destro e le spalle a stoggiare dall’Adige, e dal Mincio e ad abbandonare la Lombardia come aveva abbandonate successivamente, minacciato di fianco dal Tirolo, le provincie venete. In marzo sbarcò a Livorno il comandante in capo delle forze britanniche nel Mediterraneo e in Sicilia, Lord William Bentinck, con quindicimila uomini parte Inglesi e parte Siciliani e parte Italiani, questi altrimenti ad una legione italiana al servizio inglese, della quale vi avevano due reggimenti in Ispagna (15).

Esso doveva operare nel Genovesato, ove effettivamente opere e, presi d’assalto i forti Richelieu e S. Tecla che coprono Genova a Levante, entrò il giorno 20 aprile nella detta città. Tanto il conte Nugent che il re di Napoli ed il maresciallo conte Bellegarde, e cosi anche Lord William Bentinck indirizzarono, ciascuno per sé, all’Italia dei manifesti, chiamandola a. cooperare alla propria liberazione; però tutti senza alcun rimarchevole successo.

Una riscossa a quell’epoca nel Piemonte, o nel Genovesato, o in Toscana o nelle Legazioni avrebbe immediatamente terminata la guerra d’Italia (16).

Senonché stava scritto che si avesse a poter dire all’Italia con tutta verità, voi non avete fatto nulla per la vostra liberazione. Lo straniero vi ha dovuto far tutto: e non solo che non lo avete ajutato a liberarvi; esso vi è stato assai assurdamente durante tutta quella impresa avversato e combattuto. Vi dovevano cooperare i Napoletani; il loro re vi si era solennemente con un trattato obbligalo. Ma ha poi esso agite da leale e fedele alleato? Non ha egli invece quanto più ha potuto inceppate, e contrarietà le operazioni degli Austriaci con una perfidia senza esempio? (17).

L’arrivo di ventimila Napoletani sulla riva destra del Po come nemici rendevano la situazione dell’armata franco—italiana a lai segno pericolosa, che Napoleone non esitò al primo sentore che ebbe dell’accessione di Gioacchino alla coalizione, credendola sincera, di ordinare al Vice—re di presidiare con i soldati del regno le piazze forti, e col rimanente della sua armata di raggiungerlo in Francia (18).

L’ordine era preciso, ed esso aveva già abbandonata Verona e l’Adige, e disponevasi ad abbandonare anche il Mincio e successivamente tutta l’Alta—Italia, quando Murat gli fece sapere, che i suoi Napoletani non gli farebbero verun male, é che qualora gli si presentasse l’occasione di cacciar gli Austriaci da Verona, e oltre l’Adige, lo facesse, poiché egli non intendeva in verun modo d’impedirglielo. Questo messaggio faceva cessare i motivi dell’ordine che aveva il Vice—re, e questo perciò si credette nel caso non solo di non aver ad eseguirlo, ma di dover prendere l’offensiva e di assalire gli Austriaci, il che esso anche fece con la battaglia sul Mincio (8 febbrajo) ma che egli perdette, e che riusci gloriosissima per l’armata austriaca (19).

E fu in conseguenza di altri simili messaggi, che il Vice—re potè guerreggiare sul Mincio, e nei Ducati di Parma e Piacenza sino ai giorno 16 aprile, nel quale una specie di sommossa prodottassi nel suo campo il giorno prima, lo sforzo a conchiudere coi conte di Bellegarde un armi9lizio, i di cui articoli costituiscono la convenzione, detta dal luogo ove fu firmata di Schiarino—Rizzino.

Questa convenzione come anche quella dei 23 dello stesso mese detta la convenzione di Mantova, che ne fu il complemento, vogliono essere ben chiarite e attentamente considerate, se pur si voglia comprendere e spiegare gli ultimi giorni del regno d’Italia. Il vero è che Eugenio Beauharnais aveva presso gli Alleati in Francia nel re di Baviera suo suocero un possente protettore, e nella ex—imperatrice Giuseppina sua madre in Parigi una possente protettrice. Su di essi fondò egli la speranza, che gli Alleati disporrebbero in suo favore se anche non di una maggiore, almeno di quella parte del regno d’Italia, che è posta fra il Mincio e il Ticino, e nella quale gli Austriaci non erano ancora penetrati; e che per determinarveli basterebbe che a Milano avesse luogo una dimostrazione, la quale facesse supporre che i Lombardi lo bramavano a loro re. Ciò bastò per continuare la guerra con lo scopo di trattenere gli Austriaci sul Mincio sino a che la dimostrazione che stavasi incamminando fosse maturata, e che da Parigi venisse nel merito una decisione. Si sapeva che gli Alleati erano già entrati a Parigi il giorno 31 marzo, che li 3 aprile il senato aveva dichiarato Napoleone decaduto dal trono, che il giorno 4 uno dei corpi della sua armata non gli obbediva più, non pertanto nessuno nel regno pensava a patti, a trattati, ad una capitolazione, e a por fine a quel scialacquo di sangue; ogni giorno si combatteva, cosi al Nure il giorno 13, innanzi Piacenza il giorno 15 di aprile; e si avrebbe continualo a combattere a sostegno di un meschinissimo intrigo, se non si divulgava la notizia dell’abdicazione di Napoleone tanto alla corona di Francia che a quella’ d’Italia firmata il giorno 11 aprile, in seguito alla quale generali, uffiziali e soldati della truppa francese, e italo—francese, che era col Vice—re, unanimi dichiararono che la loro missione presso l’armata del regno d’Italia era finita, che essi nulla più vi avevano da fare, e che volevano partire, e andare a casa loro. Erano venticinque mila uomini, che cosi parlavano, e che parlavano. in un modo a non poter sperare di acquietarli. Non vi fu rimedio; convenne disporsi e lasciarli partire. Ma allora come impedire al maresciallo Bellegarde di passare il Mincio? L’armata del Vice—re contava con i presidj di Mantova, di Peschiera e di Piacenza appena quarantaduemila uomini; partiti che fossero i Francesi, e gli italo—francesi, rimanevano al più sedicimila, e togliendone ottomila per presidiare con essi le piazze, restavano disponibili, per opporsi al passaggio del Mincio da parte del maresciallo che ne aveva per forzarlo più di trenta, tutto al più ottomila.

In questo frangente non rimase al Vice—re altro espediente, che di offrire al maresciallo, pel caso che volesse pel momento sospendere ogni movimento, ed accettare un armistizio, Venezia, Legnago, Palma—nova ed Osoppo, che erano bensì bloccate dagli Austriaci, ma ancora nelle sue mani. Il maresciallo ai quale l’offerta non pote va non riuscire per più d’una ragione gratissima, accettò, e così venne a capo la summenzionata convenzione, nella quale non era neppur detto, che trappe austriache non passassero il Mincio, purché si astenessero di marciare sulla capitale e non facessero uso di altre strade che di quelle di Cremona, e di Brescia (art. 7.°) Tentossi frattanto pel Vice—re la desiderata dimostrazione che non riuscì Vi avevano a Milano tre partiti: 

uno composto «dei nobili, dei preti e del grosso della popolazione, che propendeano per l’Austria»,(20).

un secondo che addimandava per la Lombardia l’indipendenza come la desideravano «Germania e Spagna»,(21).

il quale però doveva esser assai poco numeroso, poiché la petizione contenente questa domanda che fu presentato a Parigi agli Alleati non era firmata che da circa centosettanta individui — Un terzo più debole ancora che s’interessava pel Vice—re. — I partiti, ancorché assai ineguali, si attraversarono e s’imbrogliarono e la dimostrazione si converti in un furioso tumulto popolare nel quale la feccia del popolo prese il dissopra, espose Milano ai più gravi pericoli, e si macchiò di un’atrocità uccidendo Prina ministro di finanza del regno.

Il Vice—re, perduta la speranza di una dimostrazione che lo acclamasse re di Lombardia, passò col maresciallo Bellegarde ad una seconda convenzione colla data di Mantova 23 aprile, ratificata il giorno 24 che, come dissi, divenne il complemento di quelle di Schiarino—Rizzino, la quale rimetteva immediatamente al maresciallo conte Bellegarde Mantova, Peschiera e Piacenza, lo autorizzava a prender possesso a nome degli Alleati mediante un suo plenipotenziario di Milano e della parte del regno nella quale gli Austriaci non erano ancora entrati, e lui a passare il Mincio con l’armata quando volesse, e che gli consegnava l’armata che, partiti i Francesi e gl’Italo—francesi, rimaneva (22).

Il regno d’Italia trovatosi cosi senza un’armata disponibile e sufficiente a difenderlo, e senza patti di alcuna sorta, si diede assieme con tutta l’Alta e la Media—Italia agli Alleati a discrezione. Vi avevano dei patti con Gioacchino Murat, ma divenuti nulli per cagione della sua stealissima condotta. Gli Alleati aveano quindi il diritto di considerare e trattare l’Italia come un paese da essi conquistato con torrenti di sangue nelle battaglie di Dresda, di Kulin, del Katzboch, di Lipzia, di Brienne, di Fère—Champenoise, di Parigi di Talavera, di Vittoria, del Mincio, e di riordinarla a loro talento, subordinandone gl’interessi agli interessi generali d’Europa. Anche la guerra ha i suoi diritti, e guai al mondo, qualora non si volesse annetterli e riconoscerli. Le guerre diverrebbero guerre sterminatrici. Una pace durevole non sarebbe più possibile (23).

Noi esamineremo nel prossimo capitolo, se gli Alleati nel riordinare l’Italia si sono comportati da conquistatori, come erano in diritto di farlo, o come liberatori.

CAPITOLO II

Sopra i principj che guidarono gli Alleati del 1814 e 1815, e il Congresso di Vienna dei detti anni nel riordinamento dell’Italia; e sopra l’opposizione insorta contro di caso.

Quel vicendevole accordo o concerto Europeo, in seguito al quale nessuno degli Stati che lo compongono può permettersi una lesione dell’indipendenza o di alcun essenziale diritto di qualunque di essi, senza incontrare in qualche parte, o da qualche lato una efficace e reale opposizione e resistenza, e attirarsi una reazione, quindi non senza pericolo e danno per sé stesso, denominato, equilibrio politico: (24)è un bene di un ordine affatto superiore non solo per gli stati di minor rango, ma anche per le grandi potenze, ed in ispezialità per quelle, nelle quali trovasi una riguardevole preponderanza militare. Egli è difficile che questa non induca lo stato che la possiede ad abusarne. Se dessa è tale, che ogni singolo stato per sé tema coll’avversarla di compromettersi, di non esser soccorso dagli altri Stati, e di trovarsi solo implicato in una lotta ineguale nella quale è certo di soccombere, allora accadere che nessuno gli si opporrà (25).

E allora lo stato prepotente si troverà nel caso del quale parla il Montaigne quando dice: — « Concevez l’homme accompagné d’omnipotence, vous l’abysmez; il faut qu’il vous demande par au moine de l’empeshement, et de la resistence (26).

». Chi ha considerato la storia di quel tremendo, che ho dovuto si sovente nominare nel precedente capitolo, e che dovrò nominare più volte anche in questo, si sarà convinto, che la di lui caduta può spiegarsi con le seguenti pochissime parole: gli ha mancato l’empeshement. Fortunato lui, e fortunata la Francia, se l’Europa unanime avesse opposto ai suoi immani disegni la resistenza che loro ha opposta come potenza essenzialmente marittima l’Inghilterra, e come potenza essenzialmente continentale l’Austria. Felice la Russia se i suoi Imperatori incontreranno sempre l’empeshement che ha incontrato nel 1853 l’Imperatore Nicolò, e se prevedendolo, si asterranno dal volerlo rimuovere, e dal combatterlo. Un effettivo equilibrio politico è perciò una delle principali condizioni della prosperità e del vero progresso in Europa.

Gli Alleati che nel 1813 e 1814 facevano la guerra all’esorbitante preponderanza di Napoleone onde ridurla a dei termini convenevoli, cioè, che cessasse di minacciare l’indipendenza e la quiete Europea, comprendevano, che anche qualora fossero riusciti nel loro divisamento, come poi vi riuscirono, la loro opera sarebbe rimasta imperfetta ed essi si sarebbero esposti ed essere tacciati d’imprevidenti ed improvidi, se non prendevano delle misure per impedire il ritorno di tempi cosi sciagurati, come quelli ai quali volevano porte un fine, e che queste misure non potevano consistere in altro se non nell’istabilire in Europa su basi solide, un vivo, spontaneo, operativo equilibrio politico. Essi in tutto l’anno 1813 e nell’anno susseguente ripetutamente dichiararono, che la loro guerra non aveva altro scopo, che il ristabilimento di quella solidaria garanzia dell’indipendenza Europea detta equilibrio politico. Il loro linguaggio è stato sempre lo stesso tanto innanzi, che dopo le battaglie di Llutzen e di Bautzen, e come nelle trattative che s’incamminarono a Praga innanzi l’accessione dell’Austria alla coalizione, e innanzi che la sorte di quella guerra si decidesse nella battaglia di Lipsia, come a Francfort, quando essa era già decisa, e che non vi aveva più in Francese sulla riva destra del Reno, né sulla riva sinistra dell’Adige, se non nelle piazze forti; e come a Châtillon, quando il teatro della guerra si forniva dalla Francia stessa, e si combatteva fra la Senna e la Marna. « Les puissances alliées dicevan essi nella famosa dichiarazione di Francfort del 1.° di dicembre 1813,— ne font point la guerre à la France, mais à celte prépondérance qui, pour le malheur de l’Europe, et de la France, l’empereur Napoléon a trop longtems exercée hors des limites de son empire Elles veulent un état de paix qui par une sage répartition des forces, par un juste équilibré préserve désormais les peuples des calamités sans nombre, qui depuis vingt ans ont pesé sur l’Europe».

Senonché l’equilibrio politico, se ha ad essere, non una pura ombra, ma una realità, esige che vi abbia una potenza sufficientemente per la sua forza e attitudine guerriera imponente, che per la sua posizione e composizione si senta chiamata, e in dovere, ogni qual volta si renda necessario un intervento, di farsi base e centra del movimento, di darne il segnale e prendervi l’iniziativa, e che lo faccia col sentimento e nella persuasione di non far altro che il suo dovere e di adempiere, ciò facendo, una missione provvidenziale.

Questa potenza vi ha; essa esiste nell’Austria. Questa si è messa in ogni occorrenza alla testa della resistenza che ha salvata la Cristianità dalla preponderanza e dal furore dei Sultani di Costantinopoli, che si sono spezzati due volle, innanzi alle mura di Vienna. Ed è dessa, che due volle nel primo decennio di questo secolo, ancorché abbandonala dagli altri stati, o non soccorsa convenevolmente ed a tempo, ha attraversato dei disegni di Napoleone, che guai all’Europa, se egli tosse riuscilo ad attuarli; cioè la sua impresa contro l’Inghilterra nel 1805 (27); e quella contro la Spagna nel 1808 e 1809; ed è dessa che nel 1813 ha impedito Napoleone [(28)] di cogliere il frutto delle battaglie da lui viole di Lillzen e di Baulzen di sopra menzionate, ha rinforzala la coalizione, che gli faceva la guerra, e l’ha messa in istato di continuarla con forze decisamente superiori e sempre crescenti, e finalmente di atterrarlo.

Era mai possibile che gli Alleati non riconoscessero nella storia dell’Austria [(29)].

e nelle or accennate di lei prestazioni pel corso di secoli, e in ispecialità in quelle dei primi tre lustri del secolo presente, la di lei qualificazione a servir all’equilibrio politico di centro e di base, e di potenza antesignana, e non pensassero a reintegrarla e a ripararla dalle perdite in territorio e in popolazione, che aveva sofferte nelle sue guerre per l’indipendenza d’Europa; e che appena seppero che il principe Eugenio Beauharnais Vice—re considerava il regno d’Italia, non come uno stato per sé e con interessi proprj, ma come una dipendenza della Francia, a reintegrarla col presente regno Lombardo—Veneto? Ciò era impossibile, e di fatti furono essi unanimi in questo riguardo già al congresso di Châtillon, ove fu deciso in generale il riordinamento di tutta l’alta, e di tutta la media Italia, dimanieraché il congresso di Vienna non ebbe ad occuparsi di altro paese italiano, che del regno di Napoli. Se alcunché restava in riguardo all’Italia a definirsi al congresso, ciò era in riguardo al detto regno. Gli Alleati avevano deciso già a Parigi anche tutto ciò che risguardava la ricostruzione del regno Sardo, la quale per altro andò soggetta a non poche difficoltà, e collisioni d’interessi, mentre non vi fu nessuna nella reintegrazione dell’Austria mediante il regno Lombardo—Veneto, e che essa si potè fare col suffragio delle popolazioni tanto venete che lombarde, e in riguardo a queste ultime col suffragio anche della popolazione milanese, verità di fatto, che ora mi fo a chiarire e a dimostrare.

Si hanno sul tumulto di Milano del giorno 20 aprile 1814 un buon numero di relazioni, delle quali ne ho io tre innanzi a me, che sono l’una del Maroncelli, nelle sue addizioni all’opera:

Le mie prigioni del Pellico; l’ultra del Gualterio, che si legge nel secondo volume delle sue memorie storiche intitolate:

Gli ultimi rivolgimenti italiani, e la terza del sig. Cantù. Della prima vi ha un riassunto dello stesso autore, che dice: «Il conte Ghisleri consigliere aulico di Francesco I era venuto a Milano e si teneva celato presso una illustre famiglia, benaffetta agli Austriaci. Cola ei vedeva gli antichi Fedeloni dell’Alta Casa, e colà fu statuito il massacro di Prina, nel giorno in cui il senato ripulsando il principe Eugenio, avrebbe nominato sovrano se stesso. I congiurati (tutti ricchi proprietarj Lombardi) per ottenere l’intento assunsero di chiamare i contadini delle rispettive loro campagne, i quali sarebbero entrati in città senza armi, e per varie porte come se fossero venuti al mercato, e poscia nel palazzo N. N. si sarebbero muniti di bastoni, sassi e anche di qualche arma. Quando il senato sarebbe stato unito, questa ciurma irromperebbe, e chiederebbe a grandi urla il ministro Prina, onde consacrarlo all’universale vendetta, come autore e consigliere della troppa gravezza delle gabelle.

«Lo scopo dei congiurati era di eccitare una sommossa popolare per impedire l’impaurito Senato di andare a partito; perocché quando non fosse stato nominato Eugenio, quando il Senato stesso non si fosse creato Reggenza indipendente, i Fedeloni dell’Alta Casa avrebbero gridato Francesco! e la conquista lombarda sarebbe stata (se non più facile) almeno più pronta.

«Questa scelleratezza doveva manifestarsi alla luce del giorno pei suoi effetti, ma chi l’aveva macchinata adoperò ogni sforzo perché se ne ignorassero gli autori: ai bisogno se ne sarebbe versata l’imputazione su chi tenea la parte dell’indipendenza italiana. Calunnia atroce, poscia accreditata con si felice ipocrisia, che scrittori anche egregi l’accolsero qual dimostrata verità. Il di venne, le montagne del Comasco, quelle che circondavano il Lago—Maggiore, le pianure della parte opposta, vomitarono a torrenti i littorani e terrieri loro, truci, minacciosi, e forse chiedendosi l’un l’altro: qual è il delitto che si vuol comperare da noi».

Distinguendo in questa tirata ciò che vi ha di chiaro, e di positivo dal rimanente, che è un tessuto di assurdità, che salta all’occhio, esso si riduce ai seguenti fatti: 1.° che l’imputazione di quella scelleratezza erasi versata su chi tenea la parte dell’indipendenza italiana. 2.° Che scrittori anche egregi accolsero la detta imputazione come una verità, anzi come una verità dimostrata. 3.° Che le montagne e le pianure del Comasco, e dei distretti posti al Nord di Milano vomitarono il loro popolo a torrenti su Milano. — Che risulta da questi tre fatti? Risulta che nella giornata del 20 aprile 1814 si volle fare e si fece a Milano in favore dell’Austria una possente dimostrazione; e che di ciò ne conviene anche il Maroncelli scrittore all’Austria ostilissimo; che però questa dimostrazione è stata attraversata e contaminata da un tumulte popolare non scevro da atti abominevoli, e fin atroci; che vi hanno degli scrittori, e anche degli scrittori egregi che di questo tumulte incolpano chi tenea la parte dell’indipendenza italiana, mentre il Maroncelli ne incolpa i Fedeloni dell’Alta Casa. E che risulta da tutta la relazione? Risulta che Milano alla caduta del regno d’Italia era ben contenta di non essere più francese, che non voleva saperne d’indipendenza, e voleva divenir austriaca. (30).

La relazione del Gualterio è lo scritto di uno che parla

non per ver dire

Ma sol per odio d’altrui, e per disprezzo,

Na sol per odio d’altrui, e per disprezzo è un tessuto di vero e di falso, un continuo travaglio di oscurar il primo, e d’indur il lettore a far buon viso al secondo. Egli si dà l’aria di voler spiegare la caduta del regno d’Italia; ma s’inganna già ed è intieramente fuori di strada in riguardo al punto, che più importa di ben conoscere per comprenderla, cioè suite stato dell’esercito, che egli suppone ancora il giorno 20 aprile un esercito da far paura agli Alleati, e a indurli se non volevan esser scacciati da Parigi a fare a modo del conte Confalonieri; quando esso esercito dopo partiti i Francesi e gl’Italo—Francesi, compresi i presidj di Mantova, di Peschiera e di Piacenza; non ammontava che a sedici, e anzi stando alle cifre del Vice—re nella sua lettera a Napoleone del giorno 18 febbrajo, che a dodicimila, e dedotti, i presidj, nel primo caso non era se non un esercito di soli otto, e nel secondo di soli quattromila uomini di trappa disponibile. L’autore è affatto all’oscuro dell’imperché delle convenzioni di Schiarino—Rizzino e di Mantova; esso non sa che il Vice—re, importandogli, che il maresciallo conte di Bellegarde, sapendo che esso Vice—re non aveva più armata da opporgli, non passasse il Mincio, comperò la di lui formata colla rimessa di Venezia, di Legnago, di Palmanova, e di Osoppo; non sa che Murat, sentita l’abdicazione di Napoleone, aveva tutto ed un tratto fatto giudizio, e avrebbe desiderato di aver a vantare una leale, e vigorosa cooperazione con gli Austriaci, e che appena saputala, si dispose a ricondurre i suoi Napoletani nel regno; non sa che la convenzione di Mantova del 23, ratificata il 24 fu fatta 1.° perché Milano voleva essere austriaca, 2.° perché il Vice—re non aveva trappe per correre su Milano e castigarla di non averlo voluto a re; e meno ancora per correre su Milano, e, mentre vi correva, per arrestare il maresciallo sul Mincio, il quale aveva un ponte su quel fiume già il giorno 8 febbrajo. Il buon Signor Gualterio ha bensì sentilo a parlare delle due convenzioni del 16 e del 23, non come egli dice del 26 aprile, ma tutto induce a credere che non le ha mai lette; di fatti esse, che pur sono la chiave dell’avvenimento eminentemente storico, ch’egli vuol spiegare, mancano affatto nella raccolta dei suoi documenti, mentre ve ne hanno tanti, che a onore dell’Italia dovevansi condannare a un eterno oblio.

Or che dice la relazione Gualterio [(31)] in riguardo a ciò che era avvenuto a Milano il giorno 20 aprile 1814? Seconde quella relazione, Milano era a tal segno austriaco, che per guarirnelo, per farlo rinsavire e ridivenire italiano, si avrebbe dovuto marciarvi coll’esercito, poiché forse, la cittadinanza, che pagava o schiamazzava non sarebbe stata del pari pronta a combattere. Senonché l’esercito del regno d’Italia il giorno 26 aprile nel quale esso voleva marciar su Milano per cavarvi il ruzzo austriaco dalle teste milanesi, non esisteva più, se non nelle guarnigioni di Mantova, di Peschiera e di Piacenza; esso era allora un esercito di soli dodici in sedicimila uomini, fra quali vi avevano parecchie migliaja di Modenesi, Bolognesi e Romagnoli che vi tenevano, appresso a poco, lo stesso linguaggio, che vi avevano tenuto otto giorni prima i venticinque mila tra Francesi, e Italo—Francesi, che già avevano abbandonato il Vice—re per ritornarsene in Francia, o nei dipartimenti italo—francesi, ed erano già arrivati in Piemonte, meno la metà circa, che cammin facendo si era sbandata. Ma se è vero che l’esercito sdegnato voleva marciar su Milano, non prova anche questo che nella detta città, non già soltanto un partito, ma una grande maggioranza della popolazione, cioè la cittadinanza milanese erasi dichiarata per l’Austria? Concludiamo adunque che ambidue le completate relazioni, una come l’altra, ci dicono lo stesso in riguardo alla questione che qui ci occupa, cioè che la dimostrazione di Milano del giorno 20 aprile 1814 è stata una dimostrazione in favore dell’Austria.

E che dice nel proposito la terza relazione, quella del signor Cantù? L’insigne storico parla e ragiona cosi: «Per verità, il Vice—re appoggiato dal re di Baviera suo suocero, e dall’imperatrice Giuseppina sua madre aveva molto fondamento di speranze, e brogliava per ottenere indirizzi dai reggimenti italiani, e perché il Senato italico lo cercasse re Quest’idea sorrideva a molti perché la sospirata indipendenza otterrebbesi senza mutar che il capo, senza quei cambiamenti, che tornano sempre di noja, di spesa di titubanza. Ma troppe avversioni ave va eccitate Napoleone, troppe Eugenio stesso colle maniere soldatesche, con conculcare le piccole ambizioni e i sentimenti, col condiscendere a indegni favoriti. Fin nell’esercito, unica rappresentanza della nazione, unico fondamento ragionevole delle speranze, Eugenio era contrariata da molti ufiziali, fra’ quali e fra cospiratori otteneva preferenza Murat… Nobili, preti, e il grosso della popolazione propendevano per l’Austria, rimpiangendola come sempre si suole i governi caduti; sicché anche allora ai partiti mancava quel segno supremo d’intelletto politico, il saper sottomettere gl’interessi, le idee, le passioni particolari a quelle che sono comuni a tutti; non badar a ciò che ciascuno preferirebbe, ma a ciò che vogliono tutti; anzi l’uno tacciava l’altro di vile, di traditore, di venduto allo straniero; intitolavasi aristocrazia il richiamare gli Austriaci, servilità il favorire ad Eugenio. Ma quel ch’è degno di riflessione, in uno stato di cose che tutto—di ci vien ancora citato con ammirazione, nessuno si trovò, che si chiarisse pronto a sostenerlo; e quelle migliaja d’impiegati senza convinzioni, plaudenti fin ché trattavasi di ciancie, e di feste, s’acquetavano nella persuasione, che anche sotto nuovi padroni sarebbero cancellieri, secretarj, consiglieri (32)».

In questo discorso, che avrebbe anch’esso, come il discorso Gualterio, a spiegare la caduta del regno d’Italia, ma che non la spiega, dovendosi essa, non a quelle meschinità nelle quali essi si perdono, ma alla grande circostanza, che il regno non ha saputo o on ha voluto svellersi da Napoleone, non ha in nulla cooperato alla liberazione dell’Europa, e l’ha invece, sino alla di lui caduta, combattuta, cosicché era ben giusto che ne dividesse la sorte; in questo discorso dico, l’autore ci fa sapere che: nobili preti e il grosso della popolazione propendeano per l’Austria. Questo fatto del quale il Lettore è già stato, e con le medesime parole da me avvertito, non ha nulla di congetturare; esso è un fatto, una cosa reale.

L’aggiunt a che l’autore vi fa, cioè, che l’Austria rimpiangevasi, come sempre si suole rimpiangere i governi caduti, non toglie nulla al valore e alla forza della testimonianza; il fatto resta fatto; tutt’all’oposto, essa la corrobora assai, col non lasciar alcun dubbio, che se lo scrittore avesse potato dire con verità: nobili, preti, e il grosso della popolazione erano all’Austria in sonno grado aversi, l’avrebbe dette, e ciò probabilmente senza aggiunta alcuna, o con una, che ne dinotasse la ragionevolezza. Ma i nobili, i preti e il grosso detta popolazione di Milano, e detta Lombardie sono Milano e la Lombardie. Egli è quindi cosa di fatto, confermata anche dal signor Cantù, anch’egli autore all’Austria ostilissimo, che il giorno 20 aprile 1814 Milano voleva divenir austriaco. E cosi credo di aver annunciato un fatto vero, comprovato mediante provo superiori ad ogni eccezione, dicendo, che la reintegrazione dell’Austria mediante il regno Lombardo—Veneto non andò soggetta a veruna difficoltà, non diede luogo a veruna collisione d’interessi, e potè farsi non solo senza far violenta ai desiderj, e ai sentimenti detta rispettive popolazioni, ma che anzi si fece col suffragio di esse, non eccettuato quella detta popolazione milanese.

Del resto egli è certo, che gli alleati al congresso di Vienna avrebbero reintegrata l’Austria col regno Lombardo—Veneto nel caso nel quale erano di dover subordinare e fin sacrificare gli interessi particolari dei paesi liberati dal giogo di Napoleone, se non si poteva tare a meno e altrimenti, agli interessi generali dell’Europa, anche qualora essi nelle rispettive popolazioni avessero ravvisata quella stragrande avversione contro la detta potenza, che si pronunciò nei Genovesi contro il Piemonte. Essi già allora prevedevano, e ne avevano i più chiari indizj, che l’Italia diverrebbe il zimbello delle selle rivoluzionarie fattesi arditissime in vista della mitezza dei sovrani subentrati in Italia a Napoleone, e ai di lui vice—gerenti. Essi comprendevano la necessità di mettere a guardia di quel paese, nel quale per lo più i buoni ed i savj si ritirano dagli affari, e la ispezialità dagli affari politici, e lasciano che i ribaldi e gli insensati se ne impadroniscano, una grande potenza qual è l’Austria. E che di tali riflessi si facessero al congresso di Vienna in riguardo all’Italia, lo dice neo un Austriaco, ma un Diplomatico prussiano, il Signor Schòll, scrittore meritamente per la sua esattezza e imparzialità celebrato, che cosi paria nella sua Histoire abrégée des Traités de paix da me già un’altra volta, cioè nel precedente capitolo, citata; «Dopo la Germania, cosi egli, meritava sopratutto l’Italia di fissare al congresso l’attenzione dei Sovrani. Questo bel paese era stato devastato e sconvolto in più di una maniera. Una frazione tanto più da temersi, che si nascondeva sotte l’ombra del mistero, non aveva perduta la speranza di far trionfare quelle massime antisociali, le quali proclamate in nome della libertà, e della eguaglianza, formavano un tempo la dottrina degl’iniziati, della quale non si lasciava travedere ai profani se non quella parte per la quale si era fabbricata la parola: liberalismo. Niente scoraggiava più i progetti del dette partito quanta il riporvi stabilmente la Casa d’Austria.» (Tomo XI. p. 7.) Non mancavano al congresso degli uomini di Stato, che già allora vedevano ridestarsi nella diplomazia piemontese quella irrequieta fame di paesi, che l’ha tormentata in ogni tempo. E si conoscevano benissimo già allora le trame e le mene di Gioacchino Murat, e quelle di alcuni signori Lombardi che andavano a Napoli a offerirgli reggimenti intieri di veterani Italiani disposti e pronti a conquistargli l’Italia.

Nell’istesso modo e senza veruna collisione d’interesse e col suffragio delle rispettive popolazioni, nel quale passò il regno Lombardo—Veneto al ramo maggiore della Casa d’Austria, passò Toscana al secondo, al quale apparteneva sino al 1798, e Modena al terzo, qual erede della Casa d’Este. I Ducati di Parma e di Piacenza si ebbe, in conseguenza dal secondo articolo dell’abdicazione di Napoleone, Maria Luigia, non senza le più energiche, però infruttuose proteste per parte della Spagna, in favore di Carlo Luigi, del terzo ramo dei suoi Borboni, al quale coll’aspettativa dei suddetti ducati fu data Lucca; disposizioni delle quali le rispettive popolazioni mostraronsi pienamente soddisfatte.

Mi resta a parlare della ricostruzione del regno delle due Sicilie, e del regno Sardo. Il regno al di qua del Faro, il regno di Napoli, con l’aggiunta di. un territorio da togliersi allo Stato del Papa, sarebbe rimasto, in seguilo al trattato degli 11 gennajo 1814 firmato, però in nome degli Alleati, dall’Austria, a Gioacchino Mural, per poco ch’egli avesse corrisposto a’ suoi obblighi e doveri come Alleato nella guerra contra Napoleone. Essendosi, mediante le più imparziali indagini incamminate dagli Alleati e segnatamente dall’Inghilterra, reso chiaro e manifeste, avervi egli invece, con la più sleale perfidia, e riprovevole condotta in ogni modo mancato (33): gli Alleati intendevano di spogliarnelo, ed è certo che tardi o a buon’ora ne lo avrebbero spogliato. Tutti sanno com’egli, nella speranza d’una cooperazione per parte degl’Italiani accelerasse l’evento con la guerra da esso mossa in marzo ed aprile 1815 all’Austria; e com’egli dopo la battaglia di Tolentjno vi perdesse tutto il suo esercito, e si trovasse nella necessità di abbandonare il regno ai Borboni, che vi erano desideratissimi, e che non tardarono ad arrivarvi, e prenderne possesso, e che vi furono accolti con grande e sincera gioja.

Di tutti gli anzidetti Stati o paesi non ve ne ha uno, al quale si abbia fatto nel riordinamento dell’Italia qual si sia anche minima violenza; esso si è ovunque effettuato col completo consenso delle popolazioni. Non temo di essere ragionevolmente contraddetto se dico, che qualora, sia nel regno di Napoli, o negli Stati del Papa, o io Toscana, o nel Modenese o nel Parmigiano si fosse dimandato al popolo se voleva o non voleva riavere il suo antico principe, e nelle provincie già venete, ma dal 1798 sino al 1800 e nelle provincie Lombarde dal 1706 sino al 1796 austriache, se voleva o non voleva ritornare sotto l’Austria, e si fossero aperti dei libri da inscrivervi il si o il no; i libri del si, sarebbersi riempiti di firme, mentre quelli del no sarebbero rimasti poco men che vuoti. I paesi repubblicani avevano governi aristocratici che nessuno ridimandava. Io mi sono trovato nei mesi di febbrajo e marzo 1814 ripetutamente a Napoli, a Roma, a Firenze, a Bologna, a Verona, a Modena, a Livorno; aveva l’ordine, ovunque arrivava, d’informarmi dei desiderj delle popolazioni in riguardo al loro politico riordinamento; ordine al quale mi era facile dl obbedire, perché indossava un’uniforme inglese, e che ovunque smontava una folla di curiosi, fra i quali vi avevano sempre anche delle persone colte che dimandavano di parlarmi, mi si avvicinava. A Napoli si voleva i Borboni, a Roma, a Spoleto, a Foligno, a Perugia, a Bologna, il Papa; a Firenze l’Arciduca—Granduca Ferdinando; a Modena l’Arciduca Francesco, l’erede della Casa d’Esto; a Verona l’Imperatore Francesco.

Il giorno dopo la più volte da ne menzionata sommossa di Milano, cioè il 21 aprile 1814 mi trovava a Novi sulla strada da Genova a Milano; ivi fui nel caso di passare più di un’ora con un barone Trecchi milanese che veniva da Milano, e andava come deputato del partito Confalonieri a Genova, per vedere d’indurre Lord William Bentinck ad occupare coi suoi Inglesi Milano, neutre la convenzione di Schiarino—Rissino fermava gli Austriaci sul Mincio. Il suo discorso era un continuo lamento intersperso di tratto in tratto di epiteti i più ingiuriosi contro i suoi concittadini, e contro i Lombardi in generale, ch’ei diceva tutti, per pregiudizi retrogradi, ciecamente e stolidamente austriacanti. — Vi ebbero al congresso di Vienna lunghi contrasti e dibattimenti per la Valtellina, però non già fra l’Austria e la Svizzera, né fra l’Austria e la Valtellina, ma fra la Valtellina e i Grigioni, che non vollero riceverla nella loro lega ai patti che essa loro chiedeva (34).

Si vorrebbe far creder che la detta provincia mostrasse una grande ritrosia a divenir austriaca. Ciò è fatto. — E cosi credo di aver reso chiaro e manifeste, essorai l’Italia, eccettuato il regno Sardo, del quale tosto si parlerà, riordinata col pieno consenso delle sue popolazioni, e ciò, ancorché esse non avessero altri riguardi a reclamare, che quelli ohe impose ai vincitore cristiano la cristiana civiltà.

Gli Alleati conoscendo i voti della grande maggioranza del vero popolo italiano, su di che non vi avea e non vi poteva avere il minimo dubbio, e volendo essere conseguenti, e umani, ohe avevano essi, da fare trattandosi di riordinare l’Italia? Avevan essi a chiamar assieme i Savj d’Italia, o a dir loro, venite qui, fate l’Italia? Napoleone chiedeva venti anni per ristabilirla. Quanti ne avrebbero voluto a una Costituente italiana per mettersi d’accordo sui principj, sulle massime, sulle ferme del nuovo Stato? Che avrebbe essa fatto? Quanti Italiani sarebbero stati del di tal operato contenti? E quarto avrebbe durato la sua opera? l’Europa aveva bisogno di pace e di una pace pronta. Se mai fu il caso di dire, «vox populi, vox Dei», ciò fu ad frangente, nel quale trovavansi gli Alleati in riguardo all’Italia. Qui l’opera doveva essere istantanea, qui conveniva improvvisare, e improvvisare l’ordine, la tranquillità, e la pace, cioè il «bonum potissimum», come la chiama Dante (35).

Il partito da prendersi doveva essere sopratutto pratico. Essi diedero ascolto a quella voce, e vi obbedirono. Essi restituirono all’Italia i suoi antichi principi, e vi misero a guardia della pace e dell’ordine l’Austria. Il riordinamento si trovò fatto: e cosa fatta, quando fatta sotto tali auspiqj, capo ha. Tutti quei principi, tutti i loro governi, e segnatamente il governo austriaco erano pieni di ottima volontà, circospetti, e cauti, operosi, o zelantissimi. Fortunata l’Italia se i buoni vi avessero messo tanto fervore nell’ajutarla, quanto i malvagi ne misero nel frastornarla, e por loro, con la più esecrabile malvagità, ogni sorta d’inciampi. Essi ne avrebbero sanate le piaghe, e l’avrebbero portata al colmo della prosperità; e non vi ha strada di vero progresso che non sarebbesi battuta e percorsa.

So bene, dirsi che, anche ammettendo, che il riordinamento dell’Italia a riguardo ai governi nazionali indigeni fosse, se non l’ottimo assoluto, pure il meglio che si poteva fore, rimane sempre vero, che lo staccare dell’Italia il regno Lombardo—Veneto, per aggrandirne uno stato forastiero è stato un crudele smembramento di essa, ed essere tutt’altro che un atto conveniente a chi si diceva liberatore, e proclamava la guerra che faceva a Napoleone, qual guerra d’indipendenza europea. E so che si dice, che l’essere austriaco è pel detto regno una sostanziale grande disgrazia; e che «essendogli tolto quello fra gli ordini politici che anche solo procura tutti gli altri buoni necessari, e quello senza cui tutti gli altri buoni sono nulli, e si perdono (36) vale a dire, senza un governo indigeno, esso non saprebbe essere felice e prosperoso.

Dedicherò in seguito un intero capitolo all’esame di questo «pronunciato assiomatico» della Scuola politica piemontese; per ora devo limitarmi a dirlo un concetto contradetto dalla storia di tutti i tempi, e falso sotto ogni aspetto, e contentarmi di osservare che se mai un scrittore tedesco, si avvisasse di dire che l’Alsazia, provincia non meno tedesca che la Sassonia, debba, perché sotto un governo non tedesco o per essa forastiero, essere necessariamente infelice, e dovervisi rendete ogni buono impossibile, non solo ogni Francese ma anche ogni Tedesco, e in particolare ogni Tedesco dell’Alsazia si metterebbe a ridere. 2.° Non poter essere una disgrazia l’appartenere ad uno stato qual è l’Austria, ove la religione, la morale, la giustizia; la civiltà cristiana, l’industria, le arti e le scienze in ogni modo e con incessante cura e studio si coltivano, e proteggono; ed il quale, ciò che è un soggetto della massima considerazione, occupa nel Concerto Europeo il posto più eminente, e ha la sublime provvidenziale missione di essere il principal sostegno e garante dell’equilibrio politico Europeo, e quello cui incombe in principalità il mantenimento della pace fra le maggiori potenze, e l’impedire, assieme con te Confederazione Germanica e 1a Prussia, che l’Oriente non si rovesci addosso all’Occidente, e viceversa. L’appartenere ad un tale Stato non può mai essere una disgrazia, anzi non saprebbe non essere un sommo onore, dirò sino una vera gloria, e tale da andarne superbe.

La ricostruzione del regno Sardo è la sola parte del riordinamento politico dell’Italia dettato dagli Alleati col rispettivo atto del congresso di Vienna, che abbia dato luogo a lamenti e proteste. Gli Alleati volevano, che le Alpi divenissero una barriera intransitabile alla Francia. Essi avevano per l’Alta—Italia, e per l’Italia in generale, quella stessa benevole intenzione di risparmiarle l’avere a servire di campo di battaglia a delle guerre forastiere, che l’Europa aveva dato a divedere per essa anche altre volte, già nei trattati di pace di Torino (1696), e di Utrecht (1713). Essi pensavano, che la difesa della detta barriera sarebbe meglio assicurata confidandola non ai soli Piemontesi, ma ai Piemontesi e ai Genovesi. Genova per sé stessa non può esercitare veruna influenza sulla difesa delle Alpi, ma ba per il Piemonte un grande valore in quanto che essa nel caso che ai Francesi riesca di valicare le Alpi con grandi forze, fornisce all’esercito piemontese, e al re di Sardegna una specie di tête—de—pont sul Mediterraneo ; e quello per l’Europa di estendere in ogni caso l’equilibrio politico delle potenze continentali, sino al dette mare, e quello delle potenze marittime sino al Po e sino alle Alpi. Gl’lnglesi nel 1815 vedevano in essa, in caso di bisogno, le linee di Torres—Vedras; e credo che Genova le valga, perché presentano un vaste campo trincerato, fortissimo, abbastanza esteso per contenere qualunque più grossa armata, mentre può difendersi con poche migliaja di uomini.

Ma i Genovesi mostravano contro l’aggregazione della loro città e del loro paese al Piemonte, una indicibile ripugnanza, che aveva per fondamento un odio inveterato, rinforzato da una certa mortificazione di aver a cessare di essere Stato, per divenir l’appendice di un altre, che non avea che una storia, comparativamente alla sua, assai recente, e anche quella, più che 8 di fatti e di gesta, di raggiri e di doppiezze politiche. Essi rammentavano i loro possedimenti sul mar Nero e quello della Corsica, e le loro guerre con Venezia, e il loro Cristoforo Colombo. L’intensità del loro odio pel Piemonte, che io son ben lontano dal credere giustificato, era tale, che rendeva problematico, se la riunione di Genova col regno Sardo agirebbe come un elemento di forza o di debolezza. Le loro querimonie e proteste furono abbastanza clamorose per farsi udire in tutta l’Europa. Essi portarono la loro causa innanzi al congresso di Vienna, e la difesero col più grande ardore; e trovarono anche il modo di portarla innanzi alla camera dei Comuni d’Inghilterra, però senza veruna notevole conseguenza né in quello né in questa. Il ministro degli affari esteri Lord Castlereagh interpellato nella tornata dei 20 marzo 1815 sulla questione genovese, nella quale sembrava compromesso l’onore nazionale, per essersi da Lord William Bentinck concesso a Genova di ordinarsi sino ad una decisione degli Alleati in forma di repubblica, diede la seguente risposta:

«L ‘ intento nostro disse egli, è stato di stabilire un sistema sotto al quale i popoli potessero vivere in pace tra loro; però non resuscitare i periti, il cui ristabilimento ponesse in nuovi pericoli l’Europa. L’Italia che fece ella per iscuotere il giogo francese? perciò non poteva essere considerata, che come paese conquistato; bisognò cederla all’Austria, affinché questa rimanesse strettamente unita a noi. — La riunione di Genova al Piemonte vuol essere considerata innanzi a tutto dal punto di vista della sicurezza militare dell’Italia. Partendo del detto punto fu adottato il principio, che tutta la frontiera occidentale dell’Italia, dalla Svizzera al mare, fosse rimessa nelle mani di un solo principe… Gli Alleati hanno fatto, la guerra non per preservare un stato solo, ma per guarentire l’Europa intiera dal servaggio, e per proteggerla contro il ritorno di nuovi pericoli. Egli è perciò che non si poteva aver verun riguardo per le antipatie dei Genovesi. I pregiudizi dei popoli non meritano riflesso, che nel caso che non si oppongono ad un caso prestabilito. Gli Alleati si erano col trattato di Parigi obbligati a consolidare la sicurezza dell’Europa: questa sicurezza generale ci imponeva il dovere di far violenza ai sentimenti dei Genovesi. Genova per la sua situazione è uno dei punti più importanti dell’Italia settentrionale. Sarebbe stato impolitico di confidarne la difesa a uno stato commerziante, che da gran tempo aveva perduta la sua indipendenza. Egli era necessario d’innalzare una forte barriera tra la Francia e l’Italia coll’ingrandimento del Piemonte (37)».

Questo discorso fece gran senso su tutto quell’illustre consesso, e su tutta l’Inghilterra. lo mi vi trovava in quel tempo, e me ne ricordo benissimo. Esso mise un fine agli inconsiderati giudizj, che anche ivi portavansi senza cognizione di causa sul riordinamento dell’Italia. La domanda da Lord Castlereagh slanciata: che cosa facesse, e avesse fatto l’Italia per riscuotere il giogo francese? fu riconosciuta generalmente come assai stringente; e siccome non vi aveva altra. risposta qualora rimanevasi entro i limiti del vero, se non che essa, non solo non vi aveva fatto nulla, ma che si era lasciata adoperare sino alla caduta del suo oppressore, ancorché le fossero state aperte più vie e ripetutamente, per sottrarglisi, a combattere l’impresa della indipendenza Europea, ed anzi sino allo scioglimento dell’esercito italico, e con ciò a ribadirsi le proprie catene: cosi trovavasi la conclusione, essere dessa perciò caduta nella categoria di un paese conquistato, e che gli Alleati erano nel pien diritto di considerarla, e di trattarla come tale, giusta e incontestabile. Lord Castlereagh disse anche, in quell’occasione, menzionando l’Austria, che si dovette darle l’Italia, affinché rimanesse strettamente unita alla coalizione. Il nobile Lord usò la parola Italia, in luogo di regno Lombardo—Veneto. Quanto all’aver dovuto darle quel regno per tenerla strettamente unita alla coalizione, egli è un fatto, del quale ho già avuto occasione di parlare, ma che qui giova ricordarlo di nuovo, che l’Austria ancora in novembre 1813, dopo che Napoleone era rientrato in Francia, avrebbe ben volontieri veduto Eugenio Beauharnais cingersi la corona ferrea, e sarebbe stata la prima potenza della coalizione a salutarlo re italico. L’Austria ha mostrato, dal principio alla fine della coalizione, la più grande moderazione e sommo disinteresse, suddicché il più volte già da me citato imparzialissimo istorico del congresso di Vienna, il prussiano Signor Schoell le spende non piccola lode.

I Genovesi, veduta la loro causa perduta, e persuasi che acquistavano nel re Vittorio Emmanuele un ottimo Sovrano, che li tratterebbe come figli, si rassegnarono. Tutta l’alta e la media Italia davano ovunque i più chiari e manifesti segni di sentirsi sollevati da una crudele e abbietta schiavitù. I Principi vi furono dappertutto ricevuti con le più affettuose dimostrazioni. Il regno di Napoli al quale non era rimasta nascosta la sleale e riprovevole condotta del suo re Gioacchino Murat si trovava in una situazione precaria, che non mancava d’inspirarvi i più serj timori, desiderava di sortirne, e dica pure il generale Colletta ciò che vuole, sospirava, ho avuto più volte l’occasione di convincermene, il ritorno dei Borboni dalla Sicilia. E quando nell’anno susseguente con la caduta di Gioacchino essi vi ritornarono, Napoli se ne mostrò oltre ogni modo ed oltre ogni dire contenta. L’Italia nel 1815 era ridivenuta, quanto alla tranquillità, la pace, l’amor del lavoro, la giocondità, ciò che essa era innanzi la venuta dei Francesi. Il riordinamento vi si presentava come un risorgimento. Tutti i governi erano pieni di buona volontà, e facevano a gara tutto ciò che le circostanze loro permettevano per rimediare ai mali esistenti, e per incamminare il miglior avvenire possibile.

In tutto ciò il governo austriaco nel regno Lombardo—Veneto, ancorché forastiero, non si rimaneva indietro di verun governo indigeno nò in riguardo al buon volere, né in riguardo all’esecuzione e al saper fare. Ecco come ne parla un esimio giureconsulto e uomo di Stato Piemontese, il conte Ferdinando Dal Pozzo : « Francesco I riassumendo dopo la caduta di Napoleone il governo delle provincie italiane non si condusse né da conquistatore, né da scimunito, despota, ma da savio Sovrano… Il governo austriaco nel regno Lombardo—Veneto rispettava fino, allo scrupolo ogni maniera di diritti acquistati sotte il governo allora cessato».

E egli cosi descrive vivere a Milano durante i primi anni dopo il 1815. «Prima del 1820 mi sovviene di avere di quando in quando visitato Milano, e l’impressione che me ne restò si fu che praticamente si godeva di molta libertà; e l’azione della polizia appena si sentiva. I forastieri andavano e venivano senza essere assoggettati a tanti scrutinj ed esami; i Milanesi si riunivano, come e quando volevano, in varj casini, in varie camere riservate, nei caffè; insomma la vita vi era gioconda e libera quanto mai dir si possa; quando mi era forza ritornare alla trista e formalissima Torino, io traeva un lungo sospiro, né mai restava di ripensare a Milano. La stampa per certo non era libera in Lombardia; ma non vi poteva essere una più indulgente censura. lo stesso ne provai ben ripetutamente gli effetti (38)».

Ma sentiamo sullo stesso argomento anche un Bresciano, che assolutamente non vuol saperne dell’Austria, che l’abborisce con tutto il suo cuore, e con tutta la sua anima, ma il quale se gli si dimanda lo imperché, di questo suo essere tanto astioso contro quella potenza, confessa, che avrebbe anzi ogni ragione di encomiarla, e che la encomierà se la ripassa le Alpi, ma che al di qua non può fare a meno di odiarla a morte. «— Noi cosi il nostro Autore, si lodiamo il suo magistrato integerrimo nella giustizia, la sua organizzazione colossale, la sua milizia disciplinata, l’uffizialità istrutta, gl’impiegati manierosi, e affabili: ma non sono della nostra famiglia… Diciamo anche che, trattandosi di confronti, noi preferiamo il governo Austriaco al governo Francese; perchè più leale, più costante, più fermo nelle sue ordinazioni: ma non è governo nostro… Diciamo ancora, che negli Italiani dominati dall’Austria, gli studj sono più promossi, e più universalizzati, che in qualunque altro Stato della nostra penisola; ma non sono gli studj della nostra famiglia… ma adopera tutte le arti per attrarsi gli affetti e le simpatie dell’Italia, mostrandosi miglior governo, di quanti altri ne avesse, e più naturali, e più patriotici (39)». 

— E ben conviene, che già nei primordj l’organizzazione del regno Lombardo—Veneto il governo austriaco vi fosse realmente eccellente e appropriato al paese e al popolo, se un giudice a tal segno competente come lo era il prefato conte. Dal Pozzo cosi ne parla. «Io credo di essere fondatissimo nello conchiudere, che il Piemonte non debba essere ingojato dall’austriaca monarchie, sebbene questa, a mio giudizio, è in oggi per molti rispetti si saviamente retta, che non posso a meno di desiderare che, anche per l’interna amministrazione del Piemonte, gli esempj e i consigli dell’Austria abbiano una salutifera influenza. Fosse essa staia veramente esercitata nel 1814, e il cambiamento di governo in Piemonte si fosse operato in quel modo che nella Lombardia venne ordinato ed eseguito! (40)».

Farci certamente torto alla perspicacia del mio Lettore, se volessi rilevare la forza di queste testimonianze. Osserverò invece in generale, che le popolazioni tanto lombarde che venete, rendevano piena giustizia al governo di Francesco. Il popolo disponevasi a godere in pace r doni dei quali la provvidenza gli fu si generosa, e!i avrebbe goduti, se non fosse che basta un sol nomo per turbare la pace di migliaja, e che basta una sola idea falsa per mettere sotto—sopra qualunque anche vastissimo paese. I settari che sotto Napoleone non avrebbero osato aprir bocca senza incontrare, chi loro la chiudesse per sempre, vedendo subentrato al regno dell’abominevole, feroce, pagano «oderint dum metuant» un regno mitissimo e paterno, sortirono dai loro covi e calcolando sull’impunità, si fecero sfacciatamente arditi, insolenti e sprezzanti, e si diedero a fare opposizione e poi a cospirare contro l’Austria; e a tal uopo a collegarsi con i settari del rimanente dell’alta Italia, e con quelli degli Stati del Papa e della Toscana. Essi sostenevano, che ogni dominio forastiero, qualunque ne fosse la provenienza e la tendenza, era «eo ipso», perché forastiero illegittimo; e che ogni guerra, che gli si farebbe, sarebbe una guerra giusta e santa; e che lo stesso era il caso, anche di ogni dominio e governo indigeno e nazionale, che non ammettesse quegli ordini liberali che si denominano costituzioni.

La setta lombarda, che così parlava, era quella stessa congrega, che nel mese di aprile 1814 aveva inviato a Parigi il conte Confalonieri a dimandare agli Alleati, per la Lombardia, indipendenza come Spagna e Germania. Essa non contava che qualche centinajo di individui, non era quindi che un partito, e un partito debolissimo, non aveva nessun mandate, era un puro fantasma, che sé stessa diceva la Lombardia, il regno Lombardo—Venete, anzi tutta l’alta Italia; e che davasi l’aria di essere una specie di potenza, che disponeva di migliaja di soldati del fu esercito italico. Essendo generalmente noto, quanto Gioacchino Murat avesse a temere dal congresso di Vienna, correvano i di lei corrifei a Napoli per indurlo ad inalberare la bandiera dell’indipendenza italiana, a sortire dal regno e ad assalire gli Austriaci promettendogli monti e mari. Chi gli diceva d’aver assoldati due, chi fin dodici reggimenti per la libertà italiana; chi, che la già armata del regno italico sarebbe venuta tutta incontro ai di lui Napoletani, appena le ostilità contro l’Austria fossero incominciate (41).

Frattanto ecco Napoleone partirai dall’isola d’Elba sbarcare il 1.° di marzo con appena mille uomini suite coste di Provenza, internerai nella Francia, ingrossarsi cammin facendo con tutte le trappe che spedivansi per combatterlo, e il giorno 20 del dette mese entrare trionfante in Parigi. Gioacchino informato del splendido successo dell’impresa di Napoleone non dubita più del successo di quella, alla quale secondo lui, e secondo quanto gli dicevano i Lombardi, che gli si mandavano, chiamavalo il bel paese; entra in campagna verso la metà del mese di marzo, incontra gli Austriaci il giorno 30 dello stesso mese presso Cesena, e le ostilità incominciano. Egli progredisce sino a Modena, ma poi avendo veduto, che nessuna delle promesse che gli si eran fatte compivansi, prese le mosse per ritornare nel regno. Assale a Tolentino una delle colonne con le quali gli Austriaci lo inseguivano. Ma è respinto con grave perdita. Il suo esercito si disordina, e in gran parte si sbanda. Esso abbandona il 20 maggio il reame. La guerra era in meno di due mesi terminata.

Gioacchino è stato per quella impresa tacciato di s0mma leggerezza. Ma il vero è, che volendo restare ciò che era, non gli rimaneva altro partito, che d’indurre il più d’Italiani, che gli fosse possibile, a sposare la sua causa, mentre egli sposerebbe la loro. Or siccome degl’Italiani, che dicevansi il fu regno italico, e l’Alta—Italia, ai quali egli credeva di dover prestar fede, venivano da sé ad offrirsegli, l’accettare la loro offerta e il tentare la sorte era cosa tanto più naturale, che aveva ogni motivo di aspettarsi che Napoleone darebbe solo abbastanza che fare agli Alleati, e non poco anche all’Austria. Gioacchino Murat è perciò scusabile. Diremo noi lo stesso anche di quegl’Italiani che a forza di menzognere lusinghe lo spinsero al partito che prese? No certamente. Essi non potevano non prevedere che qualunque passo contro il riordinamento dell’Italia provocherebbe una guerra Europea. La Santa Alleanza, se anche non esisteva di nome, di fatti esisteva già allora. Ciò essendo, come potevan essi esporre il loro paese, la loro patria, a sostegno d’idee e di pretensioni né ammesse, né ammissibili nel giure pubblico Europeo, a nuovi dolori, tormenti e strazj.

Esaminerò nel capitolo che segue come, e con quali mezzi l’opposizione contro il riordinamento dettato dal Congresso di Vienna è stata convertita in una permanente agitazione rivoluzionaria, e come, e con quai mezzi si continua ad alimentarla. Ma prima mi sia permesso di riepilogare le conclusioni risultanti dagli esami e studj finora fatti.

Nel primo capitolo si è veduta l’Italia nella tristissima situazione di rimettersi colle convenzioni di Schiarino—Rizzino e di Mantova, senza patti di alcuna sorta, alla discrezione degli Alleati allora a Parigi, i quali l’ebbero nella loro guerre per l’indipendenza europea, abbenché le avessero ripetutamente offerto l’occasione di emanciparsi, sino allora nelle file del loro a vv ersario. In questo si è dimostrato, che gli Alleati, la guerre dei quali ebbe il doppio scopo di liberare l’Europa dal servaggio nel quale era caduta, e d’impedire, che tempi cosi infelici come i passati si rinnovassero, usarono bensì nel riordinamento dell’Italia del diritto, che loro dava la guerra, di subordinarla agli interessi Europei, e che in vista della necessità di ristabilire in Europa un equilibrio politico e di rassicurarne gli effetti, rimisero all’Austria il presente regno Lombardo—Veneto, sul quale essa aveva anche dei diritti particolari, e al Piemonte Genova colle sue due riviere: ma che il detto riordinamento ebbe luogo in generale e segnatamente per rapporte al detto regno col pien suffragio delle rispettive popolazioni. — Che però ciononostante una minime frazione, non la millesima parte degli Italiani protestà in nome di tutta l’Italia contro di esso, volendo illegittimo ogni dominio forestiero, illegittimo tutto il riordinamento.

continua…..


1

Per farsi un’idea approssimativa dei patimenti, e dello squallore dell’Italia sotto Napoleone Bonaparte, basta pensare agli immensi mali, che vi dovevano produrre le incessanti terribili sue guerre; all’orribile consumo di uomini e di sostanze; all’estrema miseria nei distretti marittimi e nei porti di mare per la totale mancanza di commercio; all’insufficienza della mano d’opera in ogni genere d’industria e in ispezialità nell’agricoltura; e ciò non solo per le continue leve di soldati, ma anche pel gran numero di coscritti—refrattarj, che nascondevansi nelle lagune, e maremme, nei boschi e nei monti; alla nessuna sicurezza delle strade e dei luoghi appartati, esposti alle aggressioni di quegl’infelici, che la fame convertiva in bestie feroci. — E per farsi un’idea di qual tempra d’animo si fosse il padrone, che gli Italiani servivano, basterà leggere i seguenti brani di lettere confidenziali a Giuseppe Bonaparte suo fratello:

«— Avrei gusto che la canaglia di Napoli a’ ammutinasse: in ogni popolo conquistato un’insurrezione i necessaria. Non sento, abbiate fatto saltar le cervelle a un solo lazzarone, eppure essi adoperano lo stilo:… Ho udito con piacere la fucilazione del marchese di Rodio… Mi fa gusto il sapere, che fa incendialo un villaggio, insorto: m’immagino l’avran lasciato saccheggiare dai soldati… Gl’Italiani, e in generale i popoli, se non s’accorgono del padrone, propendono alla rivolta. La giustizia e la forza sono la bontà dei re, che non bisogna confondere colla bontà d’uom privato. Aspetto d’udire quanti beni avete confiscati in Calabria, quanti insorgenti giustiziati. Niente perdono; tale passar per le armi al meno seicento rivoltosi, bruciar le case de’ trenta principali d’ogni villaggio, e distribuire i loro averi all’esercito. Mettete a sacco due o tre delle borgate, che si condussero peggio; servirà d’esempio, e restituirà ai soldati l’allegria e la voglia d’agitare». (Ved. Cesare Cantù. Storia degl’Italiani, Vol. VI. Lib. XVI. c. ISO.)2

Ces. Cantù lib. XVI. c. 182.3

Melzi proponeva, cosi Cesare Balbi nel suo libro delle Speranze d’Italia cap. 6., — che l’Italia settentrionale fosse riunita «sotto una sola dizione, ed assentendo fin lì pur Napoleone, proseguì il Melzi a cercare qual casa di principi si potesse chiamare a si bello Stato, e nominò casa Savoia. Sorrise allora malcontento Napoleone. Ed insistendo Melzi a mostrare come ciò converrebbe insieme all’equilibrio d’Italia, ed a quello d’Europa. Ma chi vi parla di equilibrio, riprese vivamente Napoleone. — E Melzi stato alquanto sopra sé: — Or intendo, m’ingannai. Io dove va parlare di preponderante. — Cosi è, or v’apponete, riprese Napoleone».

Nell’opera: Mémoires pour servir à l’histoire de France sous le régné de Napoléon écrits à S( lr) Hélène sous sa dictée, si legge:

«Mais quoique le sud de l’Italie soit par sa situation, séparé du nord, l’Italie est une seule nation; l’unité des mœurs, de lento gage, de littérature doit, dans un avenir plus ou moins éloigné, réunir enfin ses habitans sous un seul gouvernement. Pour to exister, la première condition de cette monarchie sera d’être puissance maritime afin de maintenir la suprématie sur ses îles, e de défendre ses côtes». (Tome I. ch. 4. $. 6.) E nelle sue note al libro:

«Les quatre concordats Napoléon voulait recréer la patrie italienne; réunir les Vénitiens, les Milanais, les Piémontais, les Génois, les Toscans, les Parmesans, les Modenais, les Romains, les, Napolitains, les Siciliens, les Sardes, ~ (tace dei Corsi) dans une seule nation indépendante, bornée par les Alpes, les mers Adriatique, d’Jonie, et Méditerranée; c’était le trophée immortel qu’il élevait ù sa gloire… Mais Napoléon avait bien des obstacles à vaincre! Il avait dit i la consulte de Lyon: Il me faut vingt ans pour rétablir la nation italienne… L’empereur attendait avec impatience la naissance de son second fils, pour le mener à Rome, le couronner roi d’Italie et proclamer l’indépendance de la belle pennisule, sous la régence du prince Eugène…» (Tome IV. p. 215 et 217.)4

Senatus—consulte du 17 février 1810. — Titre I. «De la réunion des états de Rome à l’empire. 1.° L’état de Rome est réuni à l’empire traçais, et en fait partie intégrante. 2.° Il formera deux départements, le département de Rome, et le dé parlement du Trasimène… 6.° La ville de Rome est la seconde ville de l’empire. 7.° Le prince impérial porte le titre, et reçoit les honneurs de Roi de Rome… 10.° Après avoir été couronnés dans l’église dé Notre—Dame à Paris, les empereurs seront couronnés dans l’église de Saint Pierre de Rome,, avant la dixième année de leur règne. (Mem. ut s. Tome IV, P. 210)».5

— Enfin Alexandrie, base essentielle de la puissance française en Italie. (M. A. Thiers. Histoire du Cons. et de l’Emp. Tome VII. liv. XXV, p. 25.6

Mémoires du Maréchal Marmont Duc de Raguse. Tome III. Année 1809. Bataille do Wagram.7

Veg. Gli ultimi rivolgimenti italiani. Memorie storiche di F. A. Gualtiero con documenti inediti. Vol. 1. p. 221.8

Gli stessi suoi generali lo giudicavano tale. «— Je me souviens en effet, Sir» — scriveva un dì il maresciallo Davouat a Napoleone, qu’en 180sans les miracles de Votre Majestà h, Ratisbonne notre situation en Allemagne eût été difficile. (Thiers u. s. Tom. XII. liv. XLI1I. p. 407)».9

Das Heer von Inner—Ôsterreich unter dem E. H. Johann im Kriege von 1809, in Italien, Tvrol, and Ungarn. 6. Kap. p. 299.10

Ces. Cantù c. s, lib. XVI. r, 182.11

«Napoléon avait certainement l’esprit beaucoup trop, ouvert, pour ne pas discerner cet état de choses, mais loin de conclure, qu’il fallait se garder de l’agraver par une nouvelle guerre, loin de raisonner comme il avait fait au retour de la campagne de Wagram, alors qu’il avait un moment songé à calmer l’Europe lui donnant la paix, il en conclut que la guerre de Russie était urgente à comprimer bien vite en 1812, comme en 170les soulèvements prêts à éclater. (Thiers ut. a. Tome XIII. liv. XLIII)»12

C. Cantù lib. XVI. c. 182.13

Continuerions degli Annali d’Italia di L. A. Muratori. Anno 1813.14

Veg. nelle memorie del maresciallo Marmont la «Relation de la mission du Prince de la Tour et Taxis, envoyé par les souverains alliés auprès du Prince Eugène, en novembre 1813, faite à Münich le 15 novembre 1836, et adressée à son A. R. Madame la Buchesse de Leuchleoberg, veuve du Prince Eugène». E la: lettre du Roi de Bavière Maximilien—Joseph au Prince Eugène. Nymphenbourg le 8 octobre 1813. —E anche nella Storia degl’Italiani del signor Cantù lib. XVI. c. 182, la lettere di Eugenio Beauharnais a sua sorella Ortensia che conforma questo fatto, e che cosi incomincia:

«Ma bonne soeur… Un parlamentarie autrichien (era come ho detto nel testo un Colonnello bavarese, il Principe Thurn—Taxis, ma in uniforme austriaca) a demandé avec instance à me parler. Il était chargé—de la part du roi de Bavière de me faire les plus belles propositions pour moi—et pour ma famille, et assurait d’avance que les souverains alliés approuvaient que je m’entendisse avec le roi pour m’assurer la couronne d’Italie. La lettera è scritta il 2novembre 1813. L’esimio Storico aggiunge: Nei patti, che proposero a Na poleone gli Alleati a Chatillon v’era, che l’Italia restasse indipendente e data ad Eugenio con le isole Jonie». —Scusi il Signor Cantù, ma è la verità, che niente di tale sta nelle proposte che furono fatte in quel congresso, a Napoleone. Nel «Projet d’un traitè préliminaire entre les hautes jouissances alliées et la France» è detto: «Art. 2. S. M. l’empereur des Français rénonce pour lui et ses succeseurs, à la totalitè des acquisitions, réunions, ed incorporétions de territoire faites par la France depuis le commencement de la guerre de 1792… etc.

«Art. 4. S. M. l’empereur des Français reconnaît formellement, la reconstruction suivante des pyvs limitrophes de la France:

1.° L’Allemagne composée d’états indépendants unis par un lien fédératif; 2 L’Italie divisée en états indépendants, placés entre les possessions autrichiennes en Italie, et la France.

Nel contraprogetto del Duca di Vicenza Coutaincourt: «Projet de traitè définitif entre la France et les alliés», si legge: «Art. 4. S. M. l’empereur des Français, comme roi d’Italie ré nonce i le couronne d’Italie en faveur de son héritier désigné, le prince Eugène Napoléon, et de ses descendants à perpétuité.

«L’Adige formera la limite entre le royaume d’Italie et l’empire d’Autriche.

«Art. 13. Les Îles Joniennes appartiendront en toute souverainetà au royaume d’Italie: (Manuscrit de mil huit cent quinte par le Baron Fain.) « Era dunque Napoleone, che assegnava ad Eugenio il regno d’Italia con le isole Jonie, ma senza le provincie venete, le quali sino all’Adige sarebbersi rimesse all’Austria, non gli Alleati. Il progetto degli Alleati fu presentato al congresso il giorno 17. Febbrajo 1814, il controprogetto quasi un mese più tardi, li 15 marzo.15

«Vi aveva nell’autunno del 1815 a Palermo al quartier—generale di Lord William Bentinck un continuo venire e andare d’Italiani, che sollecitavano sbarchi di truppe e di armi, ora su questa ora su quelle Costa. Assicuravano che nella penisola non vi aveva che un pensiero, quello di un riscatto dalla tirannia sotto alla quale non gemevano, ma fremevano; avervi migliaja di coscritti—refratterj, che se avessero armi sortirebbero dai loro nascondigli, e libererebbero da sé soli il passe. Milord Bentinck volendo verificare questi ragguagli pensò di tentare uno sbarco suite coste detta Toscana, e vi destinò circa ottocento uomini della legione italiana, detta quale vi avevano due reggimenti in Ispagna, che vi si conducevano tanto in riguardo a coraggio che a disciplina militare egregiamente. La spedizione fu affidata ad un tenente—colonnello che aveva servito in Austria. L’imbarco si fece a Melazzo. La squadra, che la prese a bordo si componeva di due navi da settantaquattro, due fregate ed alcuni legni minori; la comandava Sir Josias Bowlev uno degli uffiziali più distinti della marina inglese. L’istruzione non diceva altro m non: Lo scopo vi è noto. Verificate i ragguagli che ai hanno nulle disposizioni di quelle popolazioni ove sbarcherete. Il giorno 10 dicembre si prese terra a Viareggio, piccolo porto lucchese. Si avevano dei cannoni, ma non i cavalli per condurli. Il paese li fornì. In due ore ai potè porsi in marcia per Lucca; a mezzanotte, dopo due o tre colpi di cannone tirati contro una delle porte della detta città, vi si entrò. La truppa prese posto sulle mura, occupandovi tre bastioni con le cortine frapposte, e vi restà unita. Fattosi giorno, i Lucchesi le facevano buon viso, la lodavano, ma nient’altro. dopo alcune ore ai produsse un grande concorso di paesani; si credette che fossero insorgenti; erano curiosi. Si avevano diverse casse con bei fucili inglesi che loro si offrivano, ringraziavano con bella maniera, ma si guardavano di toccarli. Si venne presto a comprendere che a quella fiera non si farebbero affari.

Ma già la guarnigione di Livorno ai era messa in marcia in cerca dei briganti, come chiamavansi da essa quegl’Italiani, per farne strage. A tal nuova il comandante ritornò subito a Viareggio per rimbarcarsi e correre per mare sa Livorno, che trovavasi senza presidio, e ove vi aveano migliaja di famiglie, che per la total mancanza di commercio lottavano con la più grande miseria. Si stava preparandovisi, quando si vide arrivare il nemico forte di circa millecinquecento uomini con quattro cannoni. Ma non durò molto, che fu posto in fuga e sbaragliato, e che gli si tolsero i suoi cannoni e presero da duecento prigionieri. Si passò poi al rimbarco, e il giorno seguente quegl’Italiani trovavansi di già padroni dei sobborghi di Livorno. La guarnigione non vi era. Ma vi eran venuti duecento in trecento soldati su due briga francesi da Portoferrajo. Non si potevano trovar scale. Livorno era tranquillissima, e cosi anche i suoi sobborghi. Frattanto ritorna la guarnigione, riordinatasi. alla meglio che potè, e con dei rinforzi avuti da Firenze e da Siena, fra quali uno squadrone di Usseri. Ma é di nuovo posta in fuga, con non indifferente perdita in morti, feriti e prigionieri,nel qual incontro due compagnie di quei legionari quasi tutti romagnoli, diedero a divedere di essere soldati a tutta prova. Però Livorno, e cosi i suoi sobborghi rimangono tranquillissimi. Può essere benissimo che non vi si fosse in verun modo preparati. Il comodoro inglese vi volle vedere una totale indifferenza, e un po’ sdegnato, avvertì ch’egli aveva l’ordine, pel caso che non vi si producesse una cooperazione, di ricondurre quella brava gente a Palermo, e la ricondusse. Il comandante della spedizione riferì a Milord Bentinck che i ragguagli che si avevano non erano veri; che quelle popolazioni che aveva vedute sembravano conte ammortite; che vi regnava una grande esacerbazione contro il loro governo, che il pensiero d’insorgere non vi aveva; che ciò non provava che non la si potesse eccitare; che ciò dovrebbe essere l’opera dei Signori; aver dimostrato quei suoi Italiani tanto a Viareggio, che a Livorno, «Che l’antico valore

Nell’Italici cor non è ancor morto».16

I proclami del Conte Nugent e quello di Lord William Bentinck si trovano nel Vol. I. pag. 223 e 226 degli ultimi rivolgimenti d’Italia del Gualterio; dei manifesti di Gioachino Murat e dei suoi generali vi hanno nella storia degl’Italiani di Cesare Cantù, lib. XVI. c. 182, i seguenti brani: — «Fin quando credei Napoleone combattesse per la pace e felicità della Francia, feci della sua voglia la mia; vistolo in perpetua guerra, per amore de’ miei popoli me ne separo. Due bandiere sventolano in Europa: su l’una è scritto religione, morale, giustizia, moderazione, legge, pace, felicità; su l’altra persecuzione, artifizj, violenza, tirannia, lagrime, costernazione in tutte le famiglie. Scegliete». — E ancora più francamente, osserva il Signor Cantù, arringava il suo generale Carascosa da Modena gli abitanti dell’alta Italia; — dopo secoli di «divisione, di debolezza e d’occulte virtù, spunta per noi il desiderato giorno in cui, combattendo per gli stessi interessi, difendendo la stessa patria, non abbiamo che ad unirci intorno al magnanimo, re, al primo capitano del secolo, per esser sicuri d’arrivare di vittoria in vittoria al placido e tranquillo possesso della uni là e dell’indipendenza. Italiani! confondetevi nelle nostre file, abbandonate quelle dei vostri oppressori, e non date all’Europa lo spettacolo lagrimevole d’Italiani del mezzogiorno combattenti con quelli d’oltre il Po, nel momento in cui un appello magnanimo li chiama ugualmente all’onore, alla gloria, alla felicità».

Ivi si legge anche parte di un proclama del Maresciallo Conte Bellegarde, il di cui principio è: — Italiani di tutte le nazioni che «l’ambizione di Napoleone curvò sotto il suo giogo, voi siete l’ultima per cui suonò l’ora della redenzione…»17

Le seguenti due lettere che si leggono nelle Memorie del Maresciallo Marmont daranno una idea del giuoco al quale Murat giocava come alleato dell’Austria. — Le Prince Eugène à Napoléon. 18 février 1814. «— Le roi s’est toujours refusé à cooperer active ment au mouvement des Autrichiens… J’ai une armée de 36000, hommes dont 24000 Français et 12000 Italiens. Mais de ces 24000 Français plus de la moitié sont nés dans les états de Rome et de Gênes, en Toscane et dans le Piémont, et aucun d’eux, as sûrement n’aurait repassé les Alpes. Les hommes qu’appartiennent aux départements du Léman et du Mont Blanc qui commencent déjà a déserter auraient bientòt suivi cet exemple des Italiens».

«Lettre en chiffres de Napoléon an Prince Eugène. Soissons le 12 mars 1814… Mon fils! je vous envoie copie d’une lettre, fort extraordinaire que je reçois du roi de Naples. Lorsqu’on m’assassine moi et la France, de pareils sentiments sont vraiment une chose inconcevable. Je reçois également la lettre que vous n’écrives avec le projet traité, que le roi vous a envové, Vous sentez, que cette idée est une folie. Cependant envovez un agent auprès de ce traître extraordinaire et faites un traitéavec lui en non non. Né touches au Piémont ni à Gênes, et partagez le reste de l’Italie en deux royaumes. Que ce traitéreste secret, jusqu’à ce qu’on ait chassé les Autrichiens du pyvs, et que vingt quatre heures après sa signature, le roi se déclaré et tombe sur les Autrichiens. Vous pouvez tout faire en ce sens; rien ne doit être épargné dans la situation actuelle pour ajouter à nos efforts les efforts des Napolitains. On fera ensuite ce qu’on voudra, car après une pareille ingratitude, et dans de telles circonstances rien ne lie».

Le Prince Eugène a la Princesse Auguste. Mantoue le 1mars…

«L’Empereur m’envoie en chiffres l’autorisation de m’arranger avec le roi de Naples; cela est trop tard je crois; il y a trois mois que je la demande; mais enfin j’essaverai. Né parlez de cela à personne, car le traité doit être secret».18

Napoléon au Prince Eugène, 17 Janvier 1814…

«Le Duc ‘d’Otranto vous aura mandé que le Roi de Naples se met avec nos ennemis; aussitôt que vous en aurez la nouvelle officielle, il me semble important, que vous gagniez les Alpes avec toute votre armée. Le cas échéant, vous laisserez les Italiens pour la garni son de Mantoue et autres places, avant soin d’amener l’argenterie et les effets précieux de la maison et les caisses».

«Le Duc de Feltre ministre de la guerre au Prince Eugène. Paris Février… L’Empereur me prescrit par une lettre datée de Nugent—sur—Seine le 8 de ce mois, de réitérer à V. A. l’ordre qua sa Majestà lui a donné de se porter sur les Alpes, aussitôt que le roi de Naples aura déclaré la guerre à la France».19

Veg. la: Bataille du Mincio du 8 Fev. 1814; par le Chev. Vacani, Milan 1857.20

Ces. Cantù, c. s. lib. XVI c. 182.21

Ces. Cantù c. s.22

La storia degl’Italiani del Signor Cesare Cantù alla quale si sovente ho in questo capitolo ricorso, ha tutti î titoli per passare alla posterità; e certamente vi passerà. Importa assai poco, se in altre Storie la malignità e l’ignoranza si danno la mano per falsare la Storia degli ultimi giorni del regno d’Italia; importa molto, se nella prefatta Storia in luogo del vero s’incontra il falso; come è il caso, ove si legge «Tre deputazioni in corso; una del senato, una dell’esercito, una dei collegi elettorali convincevano gli Alleati che non avrebbero a lottare con una volontà nazionale risoluta; sicché col pretesto di reprimere il tumulto, passano il Mincio, che era il confine stipulato, e occupano Milano. — Questa imputazione è falsa e calunniosa. Il Signor Cantù sapeva che dopo la convenzione di Schiarino—Riuino dei 16 aprile ha avuto luogo una seconda, firmata a Mantova dal general maggiore conte Fiquelmont e dal generale di divisione barone Zucchi il giorno 23, ratificata dal maresciallo Bellegarde e dal Principe Bngenio il giorno susseguente. Questa convenzione trascrivo qui per intiero dalla: Histoire abrégée des Traités de paix entre les puissances de l’Europa depuis le paix de Westphalie par Koch continuée par Schoell. Tome X. chap. XLI. Traità de 1814 et 1815, pag. 478». perché rarissime, non avendola neppur il Martens, e perché distrugge non solo quella imputatione, ma mette un Sue anche ad altre falsità messe in campo sella occupations di Milano:

«Les soussignés, après avoir échangé les pleins—pouvoirs reçus a de leurs généraux—en—chef respectifs, considérant l’article 1.° du a traité conclu le 11 avril, entre l’empereur Napoléon et les puisa sauces alliées, par le quel il a renoncé, pour lui, ses héritiers et a successeurs, et tous les membres de se famille tout droit de souveraineté et de propriété sur le royaume d’Italie, sont convenus, sauf la ratification des susdits généraux—en—chef, des articles a suivons:

«Art. I Toutes les places de guerre, forteresses et forts du royaume d’Italie qui ne sont pas encore occupées par les troupes a alliées, seront remises aux troupes autrichiennes le jour fixé par a les plénipotentiaires et sous les formes Axées par la convention du 16 avril.

«Art. 2. S. E. le maréchal Bellegarde enverra un plénipotentiaire à Milan, pour prendre possession, au nom des hautes puissances alliées du territoire non occupé du royaume d’Italie. Toua tes les autorités resteront en place et continueront leurs fonctions.

«Art 3. Les troupes autrichiennes passeront le Mincio à moment ou le maréchal de Bellegarde l’ordonnera: elles continueront leur a marche sur Milan, en laissant un intervalle d’une journée de marche a entre elles, et les colonnes de l’armée française rentrante en France.

«Art. 4. Les troupes italiennes resteront dans leur organisation actuelle jusqu’au moment où les hautes puissances alliées auront décidé de leur sort futur. Eu attendant, elles seront sous a les ordres du feld—maréchal comte de Bellegarde, qui prend possessions, au nom des hautes puissances alliées, de la partie non envahie du royaume d’Italie.

«Art. 5. Jusqu’il ce que le sort du pyvs, dont l’armée autrichienne prend possession, soit décidée, les traitements, pensions et solde des troupes italiennes, des autorités et des emplovés civils et militaires, seront pavés sur le même pied et par les mêmes caisses a qu’elles l’ont été jusqu’au jour de la présente convention.

«Art. 6. Il est permis a chaque officier de quitter le service; a mais il devra s’adresser au autorités compétentes pour obtenir un a congé définitif.

«Art. 7. Un officier général de l’année royale italienne aéra envoyé an quartier général du maréchal de Bellegarde, pour con forer de tort ce qui est relatif au detail du service de ces troupes.

«Art. 8. En cas que la présente convention soit ratifiée, les ratifications seront échangées dans le pins bref délai possible.

«En foi de quoi les soussignés l’ont revêtue de leurs signatures. Mantone le 23 avril 1814.

Le général—major comte de Fiquelmont

Le général de division baron Zucchi.

Ratifié le 24 par le maréchal du Bellegarde et par Eugène Beauharnais.23

Chi bramasse forai un’idea del modo col quale i Romani trattavano i popoli che non volevano riconoscere i diritti della guerre, vegga lo scritto del Segretario fiorentino: «Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati».24

Veg. F. v. Gentz. Fragmente vus der neuesten Geschichte des politischen Geichgewichte in Europa. Sluttgard et Leipzig 1838. p. 39, ove si trova anche une lucidissima rettificazione delle false idee in corso in riguardo all’equilibrio politico.25

Niccolò Machiavelli combatte l’opinione di quelli, che partendo della grandezza de’ Romani dicevano, che il non avere mai accozzate due potentissime guerre in un medesimo tempo, fu fortuna e non virtù; e aggiunge: «— Talché chi esaminasse la cagione di tal fortuna, la ritroverebbe facilmente; perché egli è cosa certissima che come un principe o un popolo viene in tanta reputazione, che ciascun principe e popolo vicino abbia di per sé paura ad assaltarlo, e ne tema, sempre interventi che ciascuno di essi mai lo assalterà se non necessitato; in modo che è sarà quasi come nella elezione di quel potente far guerra con quale di quelli suoi vicini gli parrà, e gli altri con la sua industrie quietare. I quali parte rispetto alla potenza sua, parte ingannati da quei modi che egli terrà per addormentargli, si quietano facilmente; e gli altri potenti che sono discosto, e che non hanno commercio seco, curano la cosa come lontana, e che non appartenga loro. Nel qual errore stanno tanto che questo incendio venga loro presso, il qual venuto non h anno rimedio a spegnerlo, se non con le forze proprie, le quali dipoi non bastano, sendo colui divenuto potentissimo». (Discorsi supra la prima Deca di Tito Livio, lib. II. c. I.)26

Essaya. Liv. 111. ch. 7. De l’incommodité de la Grandeur. «C’est pitié, dice quel pensatore, de pouvoir tant, qu’il advienne que toutes choses vous codent».27

Dalla pace di Vestfalia in poi, non vi ebbe uomo di Stato in Inghilterra, nell’Olanda, in Germania, in Ispagna, in Italia, che non considerasse la Monarchie Austriaca come la base, nazi come era a nima dell’equilibrio politico Europeo. E anche in Francia prevaleva la stessa idea, soltanto che la si esprimeva con altre parole; dicendovisi, che senza l’Austria non vi avea coalizione contro di essa fattibile. Ma chi le crederebbe che sino il conte Cesare Balbo nel suo libro: Delle speranze d’Italia , voglia bensì che l’Austria se ne vada oltre le Alpi, e faccia luogo al suo Piemonte di estendersi sino al Brenner e sino alla Rocca di Adelsberg, ma la vuol accresciuta. «Certo, dice egli, è interesse Italiano, ma è pur universale cristiano che s’accresca l’Austria… perché Austria salva—guardia e palladio d’Europa per il presente, sarà tale molto più per l’avvenire.» (Cap. IX, pag. 150 della 2.( da ) edizione.) E anche recentemente il professore torinese Giovanni Interdonato nel lodatissimo suo scritto: Sull’Apertura e Canalizzazione dell’Istmo di Suez non ha esitalo di riconoscere nell’Austria «la potenza continentale posta al nocciuolo d’Europa, qual centre e perno dell’equilibrio politico». (Veg. l’Istmo di Suez e l’Italia, nell’introduzione all’opera del signor Lesseps tradotta da Ugo Catandri. Torino 1856.) S’intende da sè, pur parmi non fuori di proposito di avvertire che col dire l’Austria base e anima di ogni reale e operativo equilibrio politico, non ai vuol dire, aver essa ad esserne l’unico sostegno. La Prussia e la Germania non sono meno chiamate a tutelarlo e guarentirlo che l’Austria. Col loro concorso l’equilibrio si fa da sé, senza di essi il facile si converte in difficilissimo. Giova sperare che le terribili lezioni che ad ambe hanno fatto gli avvenimenti disastrosi ai quali ha dato luogo la pace di Basilea, (5 aprile 1795) non saranno mai dimenticate. La Confederazione—Germanica farebbe bene di aprire coll’offerta di una generosa somma di danaro un concorso, per un gran quadro che rappresentasse la segnatura di quel trattato; e fatto che fosse, lo facesse appendere nella sala a Francfort nella quale siedono i di lei rappresentanti.28

Si è creduto molto tempo che la discesa di Napoleone in Inghilterra fosse una pura minaccia. Oggidì non si dubita più che essa era un disegno ben serio, e che aveva per sé la massima probabile di riuscire. Che la nazione inglese vi avrebbe isviluppato un valore eroico non è da mettersi in dubbio. Ma vi aveva dal canto di Napoleone non solo tutte le qualità di un capitano, secondo a nessun altro e neppure ad un Alessandro, e a un Giulio Cesare, ma anche centocinquantamila soldati, i più agguerriti, i più confidenti in sé e nel loro generale, sono certo di non esagerare, che mai il mondo vedesse. Il passaggio del canale che divide la Gran—Bretagna dal continente andava soggetto a grandi pericoli. Ma vi avevano peraltro parecchie congiunture, che dovevano bensì aspettarsi, ma che rendevano il passaggio sicuro. Il signor Thiers esordisce nella Storia del Consolalo e dell’Impero la sua relazione dei preparativi a quella impresa cosi:

« Il forma le projet de franchir le détroit de Calais avec une armée, et de terminer dans Londres même la rivalité de deux nations. On va le voir pendant trois années consécutives appliquant toutes ses fa cultes à celle prodigieuse entreprise, et demeurant calme, confiant, heureux même, tant il était plein d’espérance, en présence d’une, tentative, qui devait le conduire, ou à être le maître absolu du monde ou a s’engloutir lui, son armée sa gloire au fond de l’Océan». Tome (VI. Liv. XVII. p. 368). E la finisce con queste non meno memorabili parole: « L’entreprise de Napoléon n’était donc pas une chimère; elle était parfaitement réalisable, telle qu’il l’avait pre parée. et peut être, aux veux des bon juges, cette entreprise, qui n’a pas eu de résultat, lui fera—t—elle plus d’honneur, que celles qui ont été couronnées du plus éclatant succès. Elle ne fut pas non plus une feinte, comme l’ont imaginé certaines gens, qui veulent chercher des profondeurs où il n’y en a pas: quelques mille lettres des ministres et de l’Empereur ne laissent à cet égard aucune doute. Ce fut une entreprise serieuse poursuivie pendant plusieurs années avec une passion véritable». (Tome V. liv. XXI. p. 467,) E come è certo che cotesta spedizione doveva eseguirsi, e che i giganteschi preparativi per attuarla cagionavano all’Inghilterra le più serie apprensioni, cosi è innegabile essere stata l’Austria che la fece a Napoleone abbandonare. Fra i torti, che il conte di Champagni ministro degli affari esteri di Napoleone, quando questo nel 1808, in vista dei preparativi di guerra dell’Austria, si vide forzato di abbandonare la guerra di Spagna, rinfacciava con molta asprezza ab conte poi principe Metternich allora ambasciatore austriaco a Parigi, il primo era: «que l’Autriche avait sauvé les Anglais en passant l’Inn en 1805, lorsque Napoléon s’apprêtait à franchir le détroit de Calais» e il seconde: «qu’elle venait de les sauver encore une fois en empêchant, Napoléon de les poursuivre en personne jusqu’à la Corogne; qu’elle avait ainsi à deux reprises empêché le triomphe de la France sur sa rivale». — (Thiers Tome X. liv. XXIV. p. 93.29

Non meno di quanto qui si è prodotto finora a dimostrazione: essere stata l’Austria che ha distolto Napoleone dal tentare la spedizione d’Inghilterra, la quale se gli riusciva lo avrebbe reso «le maître absolu du monde» si potrebbe produrre anche in riguardo alla sua impresa contro la Spagna, e in generale contro la penisola Iberica, da lui effettivamente tentata, e che aborti, perche l’Austria non solo obbligò Napoleone a lasciar gli Inglesi rimbarcarsi, ma anche ad abbandonare la Spagna. Mi limiterò a una sola citazione anch’essa del signor Thiers scrittore certamente tutt’ altro che parziale per l’Austria… « Tels étaient en tout genre les événements, qui s’étaient accomplis pendant cette prompte campagne d’Autriche, (1809) et chacun devine aisément l’effort qu’ils avaient dû produire sur les esprits. L’opinion depuis un an, c’est à dire depuis les affaires d’Espagne, n’avait cessé de s’altérer par la conviction universellement répandue, qu’aprés Tilsit, tout aurait pu finir, et, la paix regner au moins sur le continent sans l’acte imprudent qui avait renversé les Bourbons d’Espagne pour leur substituer les, Bonapartes. La guerre d’Autriche, bien que la cour de Vienne eût pris l’offensive, était rattachée par tout le, monde à celle d’Espagne comme à sa cause certaine et évidente». (Tome XL liv. XXVI. p. 315.) Il che vuol dire, che tutto il mondo riconosceva aver l’Austria intrapresa la guerra nel 180non per sé, ma per salvare la Spagna, ciò che le è anche riuscito.

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Il signor Cantù (Lib. XVI. c. 182) dice parlando dell’assassinio Prina: «Confalonieri ed altri redenti poi dal martirio, certamente comparvero tra le prime file, e poterono scusarsi, non iscolparsi. Altri vollero al solito vedervi l’oro austriaco, e pretesero che un conte Gambarara (uomo né prima né dopo importante) avesse celatamente coi partigiani dell’Austria spinto a quel assassinio». — Questo vedervi al solito l’oro austriaco, meritava di essere qualificato un infame calunnia. — Ecco come il Maroncelli parla di questo solito modo di vedere in tali avvenimenti l’oro austriaco: «Io credo fermamente Casa d’Austria innocente del delitto del Frina, con che Ghisleri per una sua selle omicida, inaugurava gli incunabuli dell’anti—italiano regno Lombardo—Veneto. La credo innocente, perché in generale sceleratezze gratuite e individuali si commettono da odii o da egoismi individuali non da governi; e Prina non aveva promosso l’ira di Casa d’Austria… e perché non premiò Ghisleri di questo né di consimile misfatto».31

Gli ultimi rivolgimenti italiani del Gualterio suppongono un lettore che legge e crede, perché è stampato, e non dimanda mai all’autore donde egli abbia tratto ciò che racconta e pretende. Parlando dell’esercito del Vice—re nel 1813 e 1814 lo dice na esercito… «il quale era anti—austriaco più per l’orgoglio di aver tante volte percosso alle spalle i fuggitivi eserciti austriaci, che per vero sentimento nazionale. Ma se quell’esercito ha tante volle percosso alle spalle i fuggitivi eserciti austriaci, come è accaduto che la guerre incominciata in agosto sulla Drava si trovasse già nella prima metà di novembre trasportela sull’Alpon e sull’Adige? Quale dei due eserciti deve aver mostralo più volle all’altro le spalle, quello che avanzava o quello che si ritirava? Potrei parlare della guerra dell’esercito italiano nell’Istria, ove esso avea in settembre 1813 fin 16 dei suoi battaglioni, e di 800 uomini a cavallo, e che pur non seppe difenderla contro 2 battaglioni austriaci, e uno squadrone di ussari e qualche migliajo d’insorgenti istriani e croati. Parlerò piuttosto della battaglia sul Mincio della quale vi ha una relazione di un eccellente uffiziale dell’esercito Italiano. Il giorno 8 di febbraio 1814 la maggior parte dell’esercito del Vice—re (veg. il precedente capitolo) ripassa il Mincio, vuol ricacciar gli Austriaci oltre l’Adige e riprendere Verona, che esso avea abbandonata pochi giorni prima. S’imbatte in soli quattro battaglioni di granatieri che di poco sorpassavano duemila uomini, e in mille uomini a cavallo, gli quale gli altri con tre o quattro cannoni, la qual truppa per quanto ai volesse forzarla a dar di volta non lo fece, e ansi, appena rinforzate con quattro battaglioni, re s pin s e il Vice—re, e l’obbligò a ripassare il Mincio. (Vacani, Bataille da Mincio.) Gli Austriaci, se mai possono, lodano il nemico col quale hanno combattuto, se anche lo vincono. Cosi fanno gl’Inglesi, cosi i Francesi, cosi i Russi. Vi ha in ciò se non altro della conseguenza. i soli Italiani, e particolarmente i Piemontesi fanno altrimenti.32

Ces. Cantù n. s. Lib. XVI. c. 182.33

Gioachino Murat non taceva nessun segreto della sua slealtà all’esecuzione del suo trattato coll’Austria, e tutto il suo esercito lo conosceva. Lord William Bentinck ritornando nell’ultima settimana di marzo da Verona, ove aveva avuto una conferenza col conto di Bellegarde, ricevette strada facendo direttamente da Mantova l’avviso, che Murat e il Vice—re erano ia trattative per un riparto d’Italia, e che il primo ai obbligava, appena firmato e ratificato il trattato, d’incominciare le ostilità contro gli Austriaci coll’assalire la divisione del conte Nugent, che stava sotto i suoi ordini. Frattanto era giunto Pio VII sul Taro e poi a Modena, ove dovette fermarsi, perché Murat si opponeva al proseguimento del suo viaggio per Bologna e per le Legazioni. Fu in quell’incontro che Lord William Bentinck dichiarò con un’apposita nota in Bologna a Murat che al minimo ostacolo, che esso mettesse al viaggio di Sua Santità, è istessamente qualora continuasse a mancare ai trattato degli il di gennajo, egli rimbarcherebbe le sue trappe, che erano allora alla Spezia, e con esse assalirebbe Napoli. Fu questa franca dichiarazione che fece fore giudizio a quel re. (Veg. anche «l’Aperçu des événements de Naples tiré des discussions de la dernière séance du Parlament, traduit de l’Anglais».Londres 1815, e nella Histoire etc. del Schoell, Tome XL chap. 41 p. 192. Les attires de Naples.)34

Schòll u. s. Attires de la Valtelline, p. 105.35

«Cumque inter alla bona hominis potissimum sit, in pace vivere (ut supra dicebatur) et hoc operetur maximo atque potissimo iustitia, charitas maxime justitiam vigorabit, et potior potius». (Dantis Aligherii: de Monarchia lib. I. pag. 34, dell’ed. Fraticelli) E aveva già detto a pag. 14. «Undo manifestum est quod pax universalis est optimum coram quae ad nostram beatitudinem ordinantur. Hinc est quod pastoribus de sursum sonuit, non divitiae, non voluptates, non honores, nec longitudo vitae, non sanitas, non robur, non pulchritudo, sed pax. Inquit enim celestis militia: Gloria in altissimis Deo, et in terra pax hominibus bonne voluntatis. Hinc et pax vobis Salus hominum salutabat. Decebat enim summum Salvatorem, summum. salutationem exprimere. Quem quidam morem servare voluerant Discipuli ejus, et Paulus in salutationibns suis, ut omnibus manifestum esse poiest». (Ibid. p. 16)36

Delle Speranze d’Italia, o. IX. p. 150, della 2° ed. Lugano 1844.37

Per quanto cercassi di avere il discorso di Lord Castlereagh col quale rispose alle interpellazioni che gli furono fatte la sera, dei 20 marzo 1715 nella camera dei Comuni in Inghilterra sulla questione italiana in generale, e sulla questione genovese in particolare, tutto intiero, ed inglese, non mi fu dato di trovarlo, e di averlo. Ciò che ne ho citato, è tolto in riguardo dall’Italia dalla Storia degli Italiani del sig. Cantù, vol VI pag. 460; ciò che risguarda Genova. dal «Traité de Paris du 30 mars 1856 étudié dans ses causes et ses effects par le correspondant diplomatique du Constitutionel»38

Veg. l’opuscolo: «Della felicità che gli Italiani possono e debbono dal governo austriaco procacciarsi del conte Ferdinando. Dal Pozzo già Referendario nel Consiglio di Stato di Napoleone, e primo presidente della Corte imperiale di Genova, cap. XXII. p. 79. e cap. XXIV. p. 117. Il detto conte Dal Pozzo era un personaggio generalmente e da tutti i partiti sommamente rispettalo. Ecco come ne parte il conte Santarosa, nella sua storia della rivoluzione Piemontese del 1821 nella versione Italiana a pag. 74. «La scella del cav. Dal Pozzo fece nascere di grandi speranze, e n’eran pegno la vastità di sua dottrina, e dell’ingegno non solo, ma la fermezza dell’animo, e l’illibato affetto alla libertà della patria».

E sta inoltre nella nota a piè di pagina quanto segue:

«Ferdinando Dal Pozzo aveva sostenute cospicue cariche sotto il governo imperiale, ma ciò che agli occhi dei Piemontesi lo rendeva maggiormente stimabile era il coraggio con cui aveva alzato sua voce nell’interesse della giustizia e della verità dopo il ritorno del re ne’ suoi Stati. I di lui opuscoli sopra diverse ed importanti questioni di giurisprudenza contribuirono moltissimo allo sviluppo dell’opinione nelle classi della società. Del resto il cav. Dal Pozzo non ebbe parte alcuna alla cospirazione piemontese, ma appena la patria reclamò l’opera sua, lo trovò pronto. Le difficoltà, i pericoli, le angustie di nostra posizione non alterarono la sua condotta, egli rimase fedele al suo dovere sino all’ultimo momento». — Aggiungo che il conte Dal Pozzo accettò all’epoca della rivoluzione piemontese nel 1821 dal principe reggente il posto di Ministro dell’interno; ma fu un sacrifizio ch’ei fece di sé al suo paese per preservarlo dall’anarchia. Per altro io non divido con l’illustre uomo di Stato l’opinione che l’Italia, coll’eccezione del Piemonte, avesse a farsi austriaca. Resti essa indipendente come, dal regno Lombardo—Veneto in fuori, la è, ma cerchi, che l’’Austria ne tenga lontana la guerra e le rivoluzioni, e vi mantenga la pace.39

Carlo Vitalini emigrato Bresciano «L’Ancora d’Italia, ovvero la Verità a tutti». Torino 1851 p. 111.40

Dal Pozzo. della felicità u. s. c. II. p. 11.41

16 Carlo Vitalini emigrato Bresciano «L’Ancora d’Italia, ovvero la Verità a tutti». Torino 1851 p. 111.

18 «Decisa appena la guerra, fu composta l’armata attiva. Il governo voleva dirla assai forte per ispavento al nemico, e fidanza all’Italia che pensava di rivoltare: la volle piccola nel fatto, per lasciar truppe nel regno, onde difenderlo dai temuti attacchi dell’Inghilterra e della Sicilia… La forza dell’armata uscendo in campagna era veramente come appresso: Totale 34260 uomini, 4980 cavalli, 56 bocche da fuoco». (Storia della campagna del 1815, opera postuma di Pietro Colletta, p. 27.)

Ed aveva già detto nella p. 25. «Il C… vantavasi di aver assoldato per la libertà italiana dodici reggimenti e di tener pronti dodicimila fucili. Il C… prometteva due reggimenti; ed altri due il C… Infine N. N. assicurava che la già armata del regno itali co sarebbe venuta incontra ai Napoletani, appena le ostilità fossero aperte».

nota del curatore

Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui – l’ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org – Buona lettura!

fonte

https://www.eleaml.org/ne/stampa-1820/1859-catinelli-studi-sopra-la-questione-italiana-2020.html

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