Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

SUI TREMUOTI DELLA BASILICATA NEL DICEMBRE 1857

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SUI TREMUOTI DELLA BASILICATA NEL DICEMBRE 1857

MEMORIA DI GIACOMO RACIOPPI

NAPOLI

STABILIMENTO TIPOGRAFICO DELLA GAZZETTA DEI TRIBUNALI

Largo S. Giovanni Maggiore N.° 11.

1858

SUI TREMUOTI DELLA BASILICATA NEL 1857

I tremuoti del 1857 avranno nell’avvenire minor spavento di fama che non i tristissimi del 1783; ma come fiera complemento di quei di Melfi saranno anch’essi tristamente famosi per ispecial nota di celebrità,   qual sarà, agli occhi della scienza, questo lento proseguir» di un fenomeno, che si svolge a periodi o interstizi di lustri. Sei anni trascorsi in ingannevole quiete dopo Melfi distrutta nel 1851, sono essi un momento di riposo all’immane mostro, che scuote dai suoi cardini la terra; o il riapparir del fenomeno non à attenenza di sorta coi moti passati, né è legge di continuità tra le due epoche? — Ancora ignote leggi sommettono la cieca forza: Fumana mente godrà nell’avvenire di averle indagate; a noi di presente non resta che il maggior terrore che dà l’ignoto; il quale, come le tenebre, toglie i limiti, confonde le cose, perturba l’intelletto, ed al caos si avvicina ed al nulla.

Alla Basilicata novellamente sconvolta ai 16 dicembre del 1857 non fu il Vulture e il Melfese centro o causa probabile degli orribili moti, come ai subitanei spaventi la mente nostra immaginò, che anzi la commozione del 16 fu fieramente sì, ma senza notevoli guasti avvertita nelle regioni del Vulture. 1 feroci e ornai inauditi danni di paesi atterrati, di popoli distrutti, di regioni desolate, or son tocchi al Vallo di Marsico e dell’Agri, ed in una semicircolar linea di un trenta miglia all’incirca verso a borea e a ponente di Marsico stesso.


II

l’appennino, che divide questa Italia, si aggroppa in uno dei suol nodi precipui intorno al Potentino, donde può dirsi diramantesi quel braccio che s’immette in Calabria. Al versante orientale di questa diramazione digrada per 60 miglia infino al Jonio la montuosa Basilicata: e a un punto dei più prossimi ad esso nodo, a piè dell’appenninica catena, onde dilagano le precipiti fiumane scaricantisi nel Jonio, si slarga a bacino il Vallo di Marsico. Il quale è una pittoresca e amenissima valle, cui il flessuoso Agri interseca poco giù dalle sue origini per dieci miglia di liete selve e di pingui novali fin là dove i gioghi si stringono, ed ei precipita per entro un foro di due macigni, naturale arco ma impervio, a solcare altre valli, a irrigare altre pianure. In esso tra minori influenti immette il Maglie, che cinge il Vallo a figura di un triangolo: il quale della base si addossa agli appennini» dell” orientai lato all’ampia curva del maestoso Raparo, e a borea, come a braccio spiccato agli appennini stessi, si sgroppa una giogaia in cupe forre, in alti vertici, e nel cono ove il famoso santuario di nostra Donna rende Viggiano annuo convegno a pio pellegrinaggio di numerose genti, per usanze per favella e per origini, diverse. Dai fianchi di quei gioghi,, in quel di Marsico e Calvello, vengon fuori sorgenti solforose e minerali, cui l’analisi tentò di ricerca (); e in quel di Marsicovetere altre né spicciano da un monte, che tra più alti della Lucania è detto il Vulturino. Terra questa ancor vergine ai passi della scienza, non è ancora esplorazione mineralogica, che argomenti a vetusta storia vulcanica di questo monte: ma le polle sulfuree, 1’indizio del nome (se gli è il vero che mai nome fu imposto a caso) e i ripetuti commovimenti di questa valle dell’Agri, vorranno esser prese in esame dalla scienza; quando ella, ignote terre cercando, giungerà all’orlo di questa ultima Tuie per chiedere al suolo il segreto dei suoi tesori e de’ suoi misteri m.

Già nel novembre del 1807 la superior valle dell’Agir fu scossa da violenta commozione, non però fiera che di gravi lesioni ai caseggiati, e di danni a’  coverticci de’  paesi del Vallo, e più, tra questi, a Tramutola e Saponara; il cui monastero delle Cisterciesi soffrì per modo, che le votate vergini ruppero i claustri a scampo della vita in altri alberghi. Il tremuoto di febbraio 1826, grave a Tito e a’  paesi d’intorno, non fu a questo Vallo di trista ricordanza, che per guasti arrecati a Montemurro, a Tramutola, a Marsico, e al prossimo Calvello. Nel 1837, fu sensibile anche qui, però senza danni, quella scossa che guastò fieramente Lagonegro e le Calabrie. Dopo cinquantanni, e dopo altre in altre epoche innocue ondulazioni della terra, il mostruoso disastro infuriò in sì grandi proporzioni, che si allogherà ornai nella storia generale del Reame, come quelli di miseranda ricordanza alle Calabrie nel 1783, e nel 180$ a quel di Molise. Qui alle due epoche gli stessi fenomeni a un dipresso àn preceduto lo scoppio: dal novembre al dicembre del 1807 durò, non sempre uguale però tal temperatura anormale, che nuova vegetazione di fiori e di foglie rinverdì la natura; e fruttificarono anzi meli,. mandorli  ciliegi (). Oggi dopo una state scalorata e piovosa e dopo un tristo Autunno, rotto pioggie assidue e temporalesche () una mite e serena temperie di cielo sorvenne per quaranta dì negl’inizii invernali: e i già turgidi genicoli ai rami degli arbusti, e le umili piante degli orti mostrarono quasi prossimo a schiudere alle aure primaverili il grembo fecondo.

IV

Fenomeni prenunzii del gran disastro non apparvero agli abitanti del Vallo, o l’umano intelletto non li comprese che ad evento compiuto. —Alcune delle superstiti monache della Saponara accertano aver già da un mese, pria della orribile notte, avvertiti a quando a quando dei lievi sussulti della terra: ma i più, non avvisato il fenomeno, il negano. Presso Salandra che è da questo Vallo un trenta miglia discosta, giù verso il Jonio, fu già da un mese visto in sul mattino sprigionarsi a colonna un gas tiepido da entrò un fossatello di suolo cretoso, che quindi sparve a 22 di dicembre (). A Potenza ed altrove i pozzi dell’acqua, a comodo delle cittadine abitazioni, o scemarono del solito volume o esiccarono del tutto nel mese di novembre, benché fu l’ottobre scompigliato da soperchianti e furiose pioggie (). — E se mai l’adulta scienza potrà quandochessia trovare attenenza di sorta tra fenomeni per tempo non prossimi, io ricorderò che un mese prima dì per dì dell’orrendo fenomeno, cioè il 16 novembre, noi abitatori del Vallo udimmo cupe e prolungate detonazioni nel lontano aere sereno, che avvisammo tranquilli all’eco ripercossa dell’eruttante Vesevo. Tali in altri dì furon poi udite da altri: e tali le udimmo tutti pien di spavento reiterarsi nei giorni consecutivi alla terribile notte, accompagnate soventi, non però sempre, da moti e sussulti della terra.

Nella giornata del 16 un mugnaio del Moliternese avvisò lievemente torbide le pure linfe di una sorgente, che dà vita alle sue macchine; e salito alle scaturigini avvertì rigonfie e cresciute le polle sprigionantisi. Io stesso alquanti dì prima del miserabile caso, mi dolevo dell’acqua, che torbidiccia presentavamisi a mensa: ma poiché ella era attinta alla ricca e limpidissima vena, che è pubblica fonte al paese, io né accagionava, per due volte e per due dì, cause estrinseche del recipiente che contenevate. Tutti, dopo te gran commozione, avvertirono cresciute le acque delle fonti e de’ fiumi; per tre giorni le fiumane del Vallo travolsero torbide e lutulente () le acque; e al 17 tale, che guadava l’Agri, vedeva di minuto in minuto sensibilmente crescere frementi le fosche e minacciose sue onde.

V

Il giorno del 16 dicembre 1857 fu, quali i suoi precedenti dello stesso mese, sereno e tiepidissimo. A mezzo il corso del dì il cielo si velò di quei sparsi bioccoli di nuvole, che paiono ordinate serie di vellosi tosoni, promettitrici di pioggia al cultore dei campi; ma il sole sereno si volse all’occaso, e una tiepida notte sorvenne. E già eran tutti a giacere, secondo il costume della provincia, quando poco oltre a 5 ore della notte () una prima e violenta scossa ci sbalza esterrefatti dal Ietto; e nel cieco spavento dei brancolanti nel buio a covrirsi di un cencio, ad accenderò un lume, una seconda, feroce, fischiante e prolungata per 30 secondi, accese il cielo a sanguigne fiamme, commosse a sbalzo la terra, agitò l’aere a fremito. La terra convulsa si dibatte; e le mura si schiantano, i tetti si sfondano, i palchi ruinano, le imposte si convellono! precipitano le mura e si projettano d’impeto lontano: spavento! ululato, orrore, cui il bujo della notte accresce e il rombo dell’aere e il fremito della terra rispondono. Fuggono nude e lacere le genti; altri chiama a soccorso, altri a raccolta, si urtano nel buio, e nuove ruine precipitanti all’assiduo scrollar della terra ricoprono in un cupo fragore grida, gemiti e vite. La potenza di un’arcana forza slancia ad incredibile distanza le mura spezzate; un edifizio si compenetra nell’altro; imposte, usciali, battenti si spalancano di forza, o strappate dai cardini e slanciate come schegge volano di via in via, di ca’ mera in camera. Così uomini e cadaveri, animali e suppellettili, ingenti sassi e gravi mobiglie spinte a ignoto segno da arcano impeto; quindi rinvenuti vivi, o sfracellati, o malconci, o scomposti tra le macerie di lontani edifizii i sopravviventi al feral gioco non sanno ridire nel loro smarrimento in che guisa balzarono portati a sì grande distanza: alcuno paragonò lo scroscio degli edifizii proiettati lontano al fremente strepito di dieci locomotive sfrenate; altri al rombo dell’uragano, che assorda, accieca, annichila; tutti àn sì poca chiarezza di quel che avvenne nel supremo istante della cosmica crise, che non è dato ridire quel che provarono e sentirono.

Intanto allo scroscio delle fabbriche minanti è successo un ululato di spavento e di preghiera. Gli avanzi di tanto naufragio riparano nel loro smarrimento alle ampie piazze, o all’orlo estremo delle estreme ruine: si accendono fuochi; ed altri fuochi rispondenti all’estremo orizzonte, là dove il sole oriente saluta al dì ville e paesi, annunziano che l’ira divina ci lampeggia d’intorno e da lungi. Cori di preghiera e grida di angoscia, devote salmodie, ed urli di terrore echeggiano di late in lato e si confondono in un gemito supremo: eh dimanda un soccorso che nessuno può dargli; altri invoca Dio e la gran Vergine; e si riannodano a coro preghiere, che a un tratto il cupo fremito della terra interrompe e me» scola a grida di spavento e a un furioso picchiar di petti. — Così, e tra ineffabili ambasce, passa la feral notte del 16, limpidissima, mite, anzi tepidissima; senza un lieve altare di vento; giocondamente adorna, quasi scherzò intempestivo, di filanti stelle a centinaia (); —e cui solo rendea ferale il rombo, che di tratto in tratto rompea l’aere in alto, e il fremito della terra scotentesi di sotto ai piedi. Venti e più volte fu avvertito il fero commovimento fino all’alba del 17.

VI

La quale, invocata da tante migliaia di anime gementi, si levò purissima, e né rianimò la vita e le forze; poiché il buio come l’ignoto accresce la trepidazione dell’animo, e alla virtù della luce si ravviva così la vita fisica come la morale. Il sole suffuse de’ giocondi suoi raggi queste miserabili terre; e incontanente il basso aere st velò di quei densi e secchi vapori, che annebbiando lo sguardo denominiamo caligine. Non tolse però all’occhio di scorgere allora l’immane grandezza del terribile disastro:—non più case, ma macerie, non edifizii ma mine, non un tetto o un comignolo discerne sull’ampia superficie di un paese; ma una selva di travi e di sfasciumi, un caosse di muricce e di rottami; e inabissati cantoni, e sgominate fabbriche, e muraglie spezzate in due, o capitozze, o sconnesse, o spiombate; e non più traccia di strade, ma turbinato accumulo di ciottoli e calcina che adequa alle squarciate finestre un sentiero ingannevole; o un addensata di palchi e solai e isolate e barcollanti pareti, che in balìa dei proprio peso oscillano e precipitano. E qua nudi cadaveri infranti e semicoverti dall’ammontate mine; là una mano ancora ghermita a mal fido sostegno; quindi un teschio dal suo busto divulso; e carogne d’immondi animali e di ogni genere suppellettili confuse lacere peste; e un fiero gemitìo di feriti e. di morenti, e un affannato o bieco trafugai si di gente tra le ricche ruine. 1 superstiti guardano stupidi di orrore al miserando spettacolo; altri anelante si affanna a scavare disotto alle macerie un diletto capo che geme; altri gitta disperate strida all’imo sfasciume, onde esso gli renda i cari perduti; taluno di sottesso risponde e taluno se né sprigiona nudo e lacero spettro di una notte infernale. Oh! chi può immaginare, chi può descrivere quell’affannarsi di un popolo intorno ai suoi lari scrollati, tratto da amore o da cupidigia; ululanti e disperatisi, feroci belve irto il crine da spavento, e raccapriccio nudi o di un cencio velati appena; altri a terra prostesi colte stanchezza  della morte sul viso e impietrite le lagrime nelle livide occhiaie, altri ricercando nelle acque col marchio della disperazione sulla fronte, col tremito convulso per le membra mal ferme! Sole; inconsci! in pianto lutto svolazzano sull’alto delle squarciate mura stormi di domestici colombi; posano un tratto agii avanzi di note case, quindi friggono un tratto le mura ruinevoli per tornar nuovamente dopo ampio giro ai cari penasti. Così dopo ieri accidenti e tormenti di morte tornerà questo affranto popolo alte patria diletta; né i feri accidenti del suolo ingannevole avranno forza a staccamelo mai!

VII

Tale è (se una scolorata parola può dipingere una troppo fiera realtà) tale è io stato di tre paesi nella Valle dell’Agri, Montemurro, Saponara e Viggiano, già di vivaci industrie e di numeroso popolò fiorenti, e 6 civili od agiati edifizii abbelliti.  Sulla sinistra dell’Agri è Montemurro. Posto sul declinar della pendice che digrada alta fiumana, assiso ad un buon miglio da questa su banchi di plastica argilla, che covre strati di pietra arenari, era stretto ai due fianchi da due torrenti,; che per lenta guerra ài sudo cretoso scavarono a sé altissime ripe, e assottigliarono di anno in anno il fit d’infermo  tèrra, su cui sedera il caseggiato. Questi torrenti, che il corrodevano alla base; erari causa di sfranamento al terreno circostante, quando alle acque invernali l’argilla si venia riammollendo: sicché al mancar della batte la schiena tra due fossati si ricalcava, e crepacci e screpolature e strapiombi apparivano alle fabbriche del mai fondato paese. Già uno dei gli ultimi tremuoti area scrollato gran parte della Chiesa di esso; poi lo sfranamento del terreno, avvallandosi come dt taglio, avea restato a nudo, ludibrio del vento e detta pioggia, le ammassate reliquie dei cadaveri quivi deposti. Di più antichi e di simiglianti accidenti del terreno in simil guisa minarono un gran palazzo del Vescovo di Tricarico. Questo al paese mal fermo suolo di creta in balia de’ torrenti che poco a poco sel portavano via, il disacconcio materiale, onde erano murati gli edilizii, e il campare di quest’essi nell’alto su d’instabili basi, poiché non era dato distendersi di fianco ad abitarvi il popolo crescente, spiegano in parte come totalmente andò subissato dal recente tremuoto. Il quale dire che tutto abbia adequato al suolo è dir tutto; se gli è poco alla fantasia di chi mai non ebbe a spettacolo di simili scene. — Un subbisso di ciottoli e calcina, un caosse d’impalcati e macerie, un commisto d’informi rottami, uno sfasciume confuso e indistinto, e frantumi di squarciate muraglie, e ciottoli di smosse fondamenta, e una selva di travi con volto il vertice al cielo, e un petraio che un’infernal furia smosse e commescolò per tutta l’area di un grande paese; e non più traccia di vie, non segno di spiazzo) perduto ogni limite, ogni sembianza di antica proprietà, né ii superstite padrone può limitare gli antichi penati. Gli edilizi) l’un sull’altro piombarono per l’estrema angustia delle strade; e nelle strade e nelle corti schiacciarono intere famiglie, numerosi parentati, interi rioni; che a gruppi a gruppi, stretti in un fascio all’estremo amplesso, si trovano morti e sepolti, e irreconoscibili e infranti, miseranda vista 1 Le mal cementate fabbriche tutte tutte si disfecero all’urto scambievole; non una delle vecchie impalcature sostenne il peso de’ minanti tetti e degli alti solai; e cadendo arrovesciava le muraglie di fianco, e sgominava i cantoni. — Ma a che ammassar parole impotenti a dipingere? Tre soli edifizii rimangono in piedi, ma laceri e sconnessi, sull’alto del già raffittito paese, là dove strati di pietra arenaria dànno più salda base alle fondamenta: — e de’  settemila abitanti, già popolo sottilmente industrioso e trafficante, or non avanza che qualche gramo migliaio, sottratto lacero e pesto alle miserande ruine! Tra’  quali oh! quanti egregii giovani ed onorati uomini va cercando commosso il mio cuore che sanguina, e te, Leonardo mio, () sì ricco di cuor generoso, di nobili sensi, di. amore operoso» sì. degno di una vita, cui solo uno scopo e difficile nobilita, e tu il proseguivi insistente! — Dal luogo, ove scrivo, vedevo già Montemurro degradare alla pendice in una lunga striscia di fabbriche nericce e di. tetti rossastri, cui l’onda del fumo vespertino incoronava di un nugolo dj. bigi vapori: or raccapriccia l’andar ricercando coll’occhio smarrito la campagna ove esso già fu; che l’occhio nulla discerne, oltre a un solo edifizio imbiancato, quasi segnacolo ai lontani di tenta ruina e di sì poca salvezza! Non è sì fero spettacolo, a chi guarda da lungi, la vista di Viggiano; ché ivi discernerà ancora e tetti ed edifizii, e quel tanto di ordinato e àf intero, che può di lontano indicare un paese abitato. Ma a chi da piè vi si appressi, non parrà che di ben poco minore la ruina di oltre a mezzo il caseggiato. Men tòcco dell’infernal furia è il culmine del paese posto ad occidente; ma all’orientai lato non ietto o impalcatura rimase illesa al ruinar delle mura maestre volgenti a meriggio, o degli inabissati cantoni. Alla più fera e miserevole ruina aggiunse causa la speciale postura dell’abitato, che assiso ad anfiteatro su’ clivi di un gemino colle l’uno edilizio minò sul sottostante, e questo piegandosi d’innanzi o dal lato sfracellò e divulse dall’imo quanto ebbe d’incontro. Così intere famiglie perirono nel domestico lare schiacciate dall’altrui mine; altre in gran numero, fuggendo i primi scotimenti, nell’angustia delle vie dalle precipitanti muraglie ebbero inaspettata morte, già stimandosi salve. Così, tra tanti, il degno Arciprete Vietri, e una sua nipote fior di bellezza e di grazia: così di numerose famiglie distrutte affatto. E intorno a un migliaio di vittime sarà a Viggiano il tristo ricordo mortuario della infernal notte: eppure men di Montemurro e di Saponara; poiché era stagione che un popolo di musicanti vagava migrato per lontane contrade; e il, molto popolo di agricoli sole», a governo della terra, albergare nei campi; ove tutti si sfasciarono, è vero, i rusticani abitacoli, ma più facile era lo scampo, né prossime fabbriche schiacciavano i fuggenti.

VIII

Alla destra dell’Agri è Saponara. Vista dalle prossime campagne a piè del colle, ove era già sita, rende curiosa sembianza di vetusta città dissepolta; e corre la mente tantosto all’antica Grumento, che coi ruderi di rovine reticolate giace sparsa nei sottostanti vigneti, spettacolo di antica grandezza e di presente ruina. Così gli estremi si toccano. Ma a chi l’animo è forte da penetrar entro a quell’immane subbissa, a chi osi di aprirsi una via frammezzo ad irti monti e precipiti vallate di ammucchiarti macigni e dà dolosa calcine, sfidar l’ira dette squarciate muraglie, che pendono a prossima ruina bilicate nell’aere, eh quanta angustia di orrore stringerà il cuore sgomento! Ove son dunque le strade, gli spiazzi, i limiti, le vecchie sembianze delle cose? ove i vestigii di umani abitacoli? ove posare un piè che sia fermo? Una striscia di muraglie laterali capitozze e sfracellate, una; sequela di squarciate finestre e di pensili imposte divulse, di tratto in tratto un segmento di arco, che già recingea il vano di una porta, sono miserandi indizi! che era questa una strada or levata a livello de’ superiori ripiani. Procedete oltre, se vi basta il coraggio sotto questa quasi merlata gigantesca di sgominate muraglie, se vi basta la lena tra questo caosse di sassi d frantumi; equilibratevi su queste travi rovesce, rotolate a fascio come paglia dal vento, bilicatevi della persona su questo sfasciume indistinto, che ad ogni passo dà un crollo e tentenna, e perverrete, se Dio vel concede, allo spiazzetto, ove minori ruine àn serbato intero l’antico arco, che già a seggio del comunal consiglio e a memoria di nobiltà vecchie famiglie nel XVI secolo innalzarono. Qui respirate, e il cuore vi si apre a sollievo: — ma procedete ancor oltre? Non più orma di via, non segno di muro, non vista di fabbrica: un mare di. smosse pietre, come or ora deposte dalle onde furiose, una schiuma di sbriciolata calcina, un ammasso di tavoli e di travi qua e là sbattuti dalla tempesta, e valli e montagne e dirupamenti e voragini d’informi materie — altro non può scorgere l’occhio d’intorno. Quindi levàti in piè sull’orrenda scena, quasi viventi banditori dell’ira divina, qualche simulacro di sacra immagine, e frammenti di spezzate campane, e avanzi di lavorati marmi indicano solamente che ivi presso era l’edilizio di una Chiesa, arrovesciata dalle fondamenta sulle case d’intorno. Quivi è maggior ruina; quivi declinando il paese un edilizio piombò sull’altro e travolse tutto, e distrusse e commescolò limiti, proprietà, sembianze, palagi e tugurii, chiese e conventi, torri e campanili stritolati, dispersi, sbriciolati; staccata la calce dalla nuda pietra; le ime fondamenta rimaste al sole; enormi catolli lanciati a ruina d’attorno; subbisso come il furor di cento mine non potrebbero tanto. Dall’alto di questo colle gittate l’occhio alla duplice china: ancor muraglie solitarie bilicate nell’aere; ancora un mare di sassi bianchicci; e a fasci a fasci, come alga che il mare tempesti, ancor travi e affumicate assicelle; e quasi lava schiumeggiante di ciottoli e calcina; e un informe sfasciume, e un caosse di frantumi, e un rovinìo infernale. — Sostate l’occhio smarrito: ecco di trattò in tratto confusa gente, che l’urgente bisogno rese impavida alla rana soprastante,. affaticarsi a sgombrare il caosse; e non mesti ma stupiti, non stanchi ma smemorati sedere altri Sugli avanzi dei miseri penali, ricercando col guardo i torniti antichi, e coll’ansia mente le antiche dolcezze e le care memorie! Oh quanto dolore ricordarsi del tempo felice nella miseria!

Paese di quattro mila abitatori e più, men della metà trovò uno scampo; e men chi fuggì, che chi rimase, a ventura o consiglio, in qualche vano d’interna parete, sotto alle impalcature ruinate a sghembo. Ma men caso, che miracolo: poiché nulla resisté saldo alla furia dell’urto che ivi in tatti i sensi squassò la terra, e ondulatorio e vorticoso ed a sbalzo. Non vecchie o recenti volte, non sode impalcature, non fresche pareti, non uno de’  molti edifizii sagri rimase in piè; né la grande e salda nude dell’antico castello, già sede lustrata dei Bisignano, ed or di te e de’  tuoi miserabile tomba, o Giulio Gioberti;. cui le grandi ricchezze non tolsero nella breve vita al culto difficile degli alti sentimenti e delle civili virtù. — Pochi dei molti e onorati gentiluomini scamparono la vita; il Regio Giudice travolto coi suoi sotto alle mine, pur dissepolto primo, ma solo, alla dimane; delle monache Cisterciesi sole 12, avanzo delle trenta, emersero alla prima alba, e per propria opera, dalle macerie de’  chiostri inabissati; e dopo sette dì trassero viva, ma pesta e sitibonda un’altra infelicissima, che altri otto ne visse, quindi si spense: dei Cappuccini tutti salvi, ma orbi di tutto.

Di fieri e miserabili accidenti occorsi ai superstiti non è dato di fare che un cenno fugace. Fu chi stretto a morte tra le soffocatrici tanaglie di due travi, fu da uno sbalzo di terremoto sciolto e spinto in su; altri fattosi ad una finestra. per gittarsi dall’alto, poiché tutto era ruina dintorno, a un urto subitaneo la muraglia si arrovescia, ed ei con essa che si sfascia vien giù salvo e sanissimo. Ad altri il tetto si avvalla a ruina, si sfondano all’urto i soppalchi, ed egli illeso è a brancicare sui tetti, né ricorda in che guisa. Poi intere famiglie una al povero giaciglio balzate lungi in altrui edifizii; un’infelicissima madre con tre fantolini stretti a se sotto l’arco della persona impotente a salvarli: altri dopo tre A trovati assisi e come in placido riposo, ma il riposo della morte; ed altri in ginocchio e colle palme conserte all’estrema preghiera. E possa quest’ultima voce dell’anima averli salvi dalle ultime angosce della carne, e dalle eterne dello spirito!

IX

Tale è, ad un dipresso, il miserevole stato di Polla, Atena, e Pertosa, là sull’estremo angolo del Vallo di Diano, ove due mila e cinquecento infelici seppellironsi dalle subitanee ruine. Questa parte del Citerior Principato, che stringendosi a bacino vien detto del Vallo, si addossa all’altro di Marsico nella Basilicata, onde il divide la schiena degli appennini, e il Calore interseca allagando per gittarsi nel Sele fin là presso a Polla, ove ei s’immette in una buca, per due miglia si asconde, poi si sprigiona dal cavo di una rupe appo Pertosa, che né ebbe il nome. Inesplicabili leggi seguì anche qui il fenomeno: ché mentre Sala posta a mezza linea tra Atena e Padula e più prossima a Marsico che Polla non è, restò illesa, son guaste o disfatte le circostanti. — Di Padula, grossa terra su’ fianchi degli Appennini, parte dell’abitato fu guasta e rotta o squassata, ma con pochissime vittime; e un altissimo campanile, spiombato così che non è la Garisenda, stiè molti dì sospesa e minacciosa ruina, cui non era modo di accelerare o riparare. — Giace a piè di essa la celebre Certosa di S. Lorenzo, immensa mole e grandiosa se non bella ed elegante, che dieci generazioni di feudatarii e di cenobiti opulenti vennero accrescendo e fortificando. Già l’attiguo rigagnolo, cresciuto a torrente irrefrenabile, vernata da un 20 anni interrando; il recente tremuoto l’à malconcia in parte a non lontana ruina. Al frontespizio di essa (che sculto in bella pietra calcarea eseguì a gusto barocco l’inizio del passato secolo) sono in quattro nicchie quattro colossali statue di santi, che prospettano di fronte allo spettatore. Al vorticoso gioco della terra due di esse si atteggiarono di fianco? ma le prossime due non si smossero dalla salda base.

E non altrimenti nella valle dell’Agri, e nella provincia di Basilicata, ove non legge di contiguità, non ordine di successione àn seguito i miserandi effetti. Quasi a balzi ed a sghembo, come lo scherzo del fulmine, ci à paesi disfatti, e poco o punto tocchi de’ prossimi a due miglia; altri più discosto inabissati, e meno gl’intermedii. Senza poter dunque determinar nettamente la linea di confine al cieco fenomeno, può, chi guardi una mappa topografica, circoscrivere in digrosso la totale azione di esso nell’area del parallelogrammo, che segnano i gradi 13 e 14 di longitudine, 40 e 41 di latitudine. Quasi il mezzo di questa vasta area spartono gli Appennini; e propinqui alle pendici di loro schiena son tutti i più guasti e danneggiati paesi; però ancor meno guasti a gran pezza dello sconvolto e disfatto Vallo di Marsico alle origini dell’Agri. Qui tanto fero subbisso mostra il centro o la sede del mostruoso portento. Il quale, seguendo quasi a diametro di un ideal circolo la linea dell’Agri, riesca alla disfatta Polla; quindi si sprazzi in un fascio di raggi a ponente, a borea ed a levante di esso fiume, salvo restando il lato a libeccio; ove sono illese città, e pure assai più prossime all’Agri che non siano le ruinate d’intorno a Potenza. —Parrebbe (se gli è lecita un’immagine a chi non à autorità di dottrina o di studii in siffatto ordine di conoscenze) che a un furioso sobbollimento di compresse materie di sotto in su alla scorza terrestre, qui verso l’Agri, poiché la volta non si sfesse, all’urto tutta tremò; e i sollevati vapori, come avvien de’ globi d’intenso fumo sotto alla chiusa volta di una stanza, sfioccandosi in tutti i sensi ripiegarono donando per le terrestri cavità.

Cotesto Vallo, solcato dall’Agri e dal Maglio, oltre ai tre nabissati paesi or d’infelice fama illustrati, ha nella pianura e su pei colli d’intorno Moliterno, Tramutola, Marsico-nuovo, e Vetere, Spinoso e Sarconi. —Tramutola, che il nome stesso (terra-mòtola) e qualche indizio indicano come posto su mal fermo terreno, ebbe, dopo i suddetti ‘Più tremenda misura di ruine, cui nessuno edifizio scampo, e 180 morti per le sue vie. A Marsico-Nuovo la Civita, antica e superior parte del paese, è giù al suolo; e in essa Cattedrale, Episcopio, Seminario, e minori chiese; con 220 morti e quivi e a Paterno, suo villaggetto in formazione con rustiche ca’ supole disseminate d’intorno per l’irrigua pianura. A Marsieo-Vetere eguali guasti e un 90 morti; e tra soliti accidenti è singolar vista quella di una casa di campagna, a cui le mura giù si arrovesciarono salde o di un pezzo, come libro squadernato. A Spinoso, sopra strati di pietra arenaria e di rincontro a 2 miglia da Montemurro, di tutti gli edifizii elevati quai disfatti ai cantoni, quai scrollati dall’alto; e così il campanile della pulita Chiesa, con 50 morti per le vie. A Sarconi sulla sponda del Maglio due terzi e più delle 300 casette ruderi e macerie; e macerie l’unica Chiesa, informe mole del secolo 16, con 32 morti, fanciulli per lo più. — né per tutto il Vallo lunghesso l’Agri restò illeso uno de’ mille rustici abituri o civili casini, sparsi a governo della terra o a delizia del proprietario in quell’amena pianura.

Fuori del Vallo, inverso Oriente, maggiore ruina toccò a Guardia e a Castel Saraceno; quella presso il latissimo Sauro con 90 cadaveri sotto al disfatto paese; e questo sotto al meridional fianco del Rapare e già per attiguo torrente franoso; ove 130 infelici schiacciarono, e tanti altri ferirono i sobbalzati edifizii. Poi Roccanova, Aliano, S. Arcangelo, Carbone, Castronuovo, Missanello, Armento, Gallicchio, Corleto, più o meno prossimi all’Agri ed al Sauro, con molto minor numero di morti; ma poco minor furia di guasti. — E da tanto lutto volgendo 1’attristato sguardo, verso Occidente, all’Appennino, non minore tributo né appresterà Calvello e Brienza, i più prossimi a Viggiano e i più fieramente guasti di vite e di case; quindi un mucchio di macerie e S. Angelo le Fratte, e Tito con 260 cadaveri, già scrollato dai terremoti del 1826, e dall’antichissimo nel 1694; che a tutta Basilicata portò poco noti, eppure gravissimi danneggiamenti. Simili dettagli, cui solo la pietà può salvar dal fastidio, a tutti i susseguenti paesi, fin su al Melfese. — E in tutti il miserando subbisso poscia accrebbero a pezza le necessità della sicurezza pubblica; sicché nello spazio di 30 leghe quadrate non vedrà chi viaggia, che accumuli di ruine e povere capanne; scheletri di paesi che furono; embrioni di paesi, che saranno; e miseria, povertà, desolazione presente.

Ottomila vittime e più tocca di piangere, in questa luttuosa statistica, al solo Vallo di Marsico; duemila all’incirca al resto della Provincia; e a tutti 1350 feriti.

X

Dopo il compianto a tanti infelicissimi morti e di chi sa quali angosce e di che strazii di fame pasciuti pria dell’orrenda morte, resta ancora e la pietà e l’orrore per quei che sorvissero. All’universo e sùbito bisogno, che tutte un tratto sorprese le desolate genti, nude, affrante, affamate e senza tetto, non poteano rispondere che poche braccia pronte ai soccorsi. Era un chiedere e un disperarsi a procacciare un aiuto per sottrarre alle ruine diletti capi ancora gementi; per rizzare un cencio o una frasca a riparo delle intemperie; per salvare alcun che da sostentare la vita di un giorno. Uffizii di amicizia, di parentela, o di pietà non mancarono di arrecare incontanente alcun sussidio a tante necessità, troppo lieve conforto a sì sconfinato bisogno. Accorsero man mano da prossimi e men guasti paesi, e da lontani, quasi legioni di ogni sorta operai; e men tratti da pietà che da cupidigia poche vite furono salve per essi, non molto di prezioso all’antico padrone. Le mercedi balzarono a un tratto a ignote ragioni: contro di che voglia e debbe giustamente levar la voce la moral legge, se l’economica nol possa; poiché l’offerta delle braccia era lieve sussidio alla infinita e urgente dimanda, e al rischio grande di un pauroso lavoro sotto ai ruinevoli avanzi degli edifizii ed all’assiduo scrollar della terra. Scavarono poscia a metà profitto col vecchio padrone; e, vuolsi esser giusto, fu dura essa legge, ma salvarono almeno la metà a chi altrimenti avria perduto l’intero. — Ben rifugge l’animo e alle astuzie degli occorsi, e al rapinare scambievole de’ superstiti, e all’egoismo sostituito all’amor di famiglia, la cupidigia all’amor dell’umanità:—e come suole nei grandi e generali disastri, quando l’ordine delle cose rimane un tratto interrotto e il mondo morale come il mondo fisico è in disordine, l’animo inorridisce a que’  tratti di feroce nequizia e grande, che nell’uomo civile smascherano un tratto l’uom ferino e il selvaggio. () Quei che sorvissero, dissepolti quatriduani, né attestano di ogni genere: e come sovente alla preghiera disperata de’  vivi sepolti una voce dall’alto dimandava il nome; e i supplici a rispondere; e la voce ingannevole a volgersi o in beffa, o in sarcasmo, misto nefando di ferocia e stupidità! — Di tratti simigliarti, chi non conosca l’umana indole, né riscontri in Botta, Dolomieu ed altri, che scrissero, storici o testimoni, sul. gran flagello del 1783: ma, a lode de’ tempi nostri, sappia ei però, che di altre bieche passioni, di che quei storici accennarono la cieca furia, non ha oggi la cronaca a registrare una tristizia. — Siam dunque più morali de’ nostri antenati, fuorché nell’insaziata fame dell’oro? Altri il neghi; altri affermi: a noi giova di passare oltre.

XI

Ai dotti cui a descrivere la miseranda storia del gran flagello piacerà di investigare per le desolate regioni la costituzione geologica del suolo o la meccanica disposizione delle rocce, sarà problema di utile curiosità questo quasi tortuoso procedere del sotterraneo uragano (come Plinio lo dice); che a sbalzi procede e a sghembo; e ai lontani sovente si spinge piucché ai vicini. E parrà certamente di speciale osservazione degno questo fenomeno di Moliterno, che tra gli otto scrollati paesi del vallo di Marsico è l’unico illeso; e prossimo a due miglia da Saponara, ad uno da Sarconi, a sette da Montemurro. — Posto quasi a vedetta su di un colle (), che è delle ultime ondulazioni dell’Appennino diramantesi nelle Calabrie, la stessa linea, forma, altezza e composizione mostrano a chiare note esso colle della stessa formazione ovvero epoca di quello, ove è sita la Saponara. La stessa pietra bruno-calcarea e compatta, la stessa terra di un rosso ocraceo è ai due colli:—qual dunque troverà differenza geologica la scienza de’ dotti, che a noi però manca? Più lungi Montemurro posava su strati di pietra arenaria ricoperta di plastica argilla; Spinoso, ad esso di fronte, sulla stessa qualità di strati, (di che è il fondo della pianura dell’Agri); e il primo non è più, l’altro è ben guasto si, ma è ancora un paese. — Nel terremoto di Melfi troppo forse corrive osservazioni asserirono, che più soffersero i paesi posti su strati di formazione vulcanica, e meno quelli, benché prossimi a Melfi, di formazione calcarea-appenninica. Oggi in questo vallo cotesta legge, se pure è legge, non sta. Son di calcarea formazione questi colli ove seggono Saponara e Viggiano; non è certo vulcanica l’arenaria di Montemurro; è calcarea senza dubbio la base dello scrollato Castel Saraceno, posto ad un fianco del Rapare; ove le grotte per fantastiche stalattiti mirabili accennano, se altro non fosse, alla costituzione calcarea dell’ampia montagna. Di carbonato calcareo, che si accosta al marmo, è la bellissima pietra, onde è gravido l’Appennino di Sala e Padula; e quella è illesa, questa non è. Ben altre saran dunque le condizioni che propagano il fenomeno nell’ordine geologico: e ci giova riferire l’autorità dell’Humboldt, che dice: «prodursi nel granito come nel micaschisto, nella calcare come nel grès, nella trachite come nell’amigdaloide; e non già la costituzione chimica delle rocce, ma la loro struttura meccanica influisce svila propagazione dell’onda di scotimento…»(Cosmos I.) Vedranno i dotti quandochessia se una stratificazione di rocce verticale all’orizzonte possa aver salvo un paese da quella ruina, onde le propinque regioni son travolte a subbisso. Ai cui miserandi effetti non mi parrebbe esatto se altri intendesse di non considerare altresì le condizioni architettoniche de’  caseggiati. Ottimo cemento, acconcio materiale alle costruzioni muratorie, suolo saldissimo, cura sollecita, ed assidua negli agiati abitatori di ristaurarne e rinnovarne gli edifizii, sono condizioni favorevoli, che l’osservatore troverà nell’abitato di Moliterno; e non punto nei paesi del Vallo scrollati; ove le pietre eran ciottoli di fiume, o agglomerata arenaria, o fragile schisto, ed ibrida specie di cemento, e poca o punto la cura negli abitanti di andarle cogli anni instaurando o riparando. — Or dato un urto di eguale intensità non sarà la varia resistenza degli edifizii in ragione di loro solidità?

E furono i guasti in ragione della solidità, dell’altezza e dell’età degli edifizii. Per età le recentissime e le vetustissime, per altezza i più elevati soffrirono o si sfasciarono. Fu la solidità in ragione del terreno sodo, delle basi fonde, del materiale adatto, del peso gravitante, delle riparazioni annue, dell’isolamento maggiore o minore dell’edilizio. — Non parmi doversi omettere siffatti dati nella soluzione del problema.

XII

Non attenderà da noi il lettore un apparato di trascendenti teoriche, o tali fisiche osservazioni da argomentare alle cause o alle leggi probabili dei tremendo fenomeno. La scienza avvenire saprà forse intorno a ciò piucché i contemporanei or non sanno di certo. Dei quali ai più oggi non è dato che di descrivere da testimoni i precedenti e consecutivi fenomeni, studiare il suolo, ed aspettare dal tempo la soluzione di quel che altri teme, altri spera in qualche sbocco di materie ignivome, come il Jorullo nel 1759, o di terrestri sollevamenti, come, a ricordarne un novissimo, l’isola Giulia o Ferdinandea nel mar di Sicilia. Solo questo troppo frequente asseguir dei terribili fenomeni dall’antichità ad oggi (), e la contiguità al mal fermo suolo della scossa Calabria fanno i più tristamente dotti, che questa ultima plaga d’Italia non è ancor giunta allo stato di sua quiete normale; e ancor si travaglia nel parto dell’avvenire quest’arcana natura. «La quale non conosce tempo; per lei né anni, né secoli vi sono; e di noi si ride a cui incresce il morire» — (Botta lib. 49.) — Ma i dotti non riconoscono locali cause a questi luttuosi fenomeni locali: sono essi effetto (né forse straordinarii per troppo rari intervalli) di cosmiche forze, cui la scienza ricerca, studia, escogita, creando e sfacendo sistemi come tele di ragno; ma le condizioni, che le svolgono le sono ignote del tutto, e la natura,

Come ella fa, non vuol che a noi si sveli

a noi ancor non iniziabili fanciulli a certa parte di suoi misteri.

Dirò piuttosto de’ fenomeni posteriormente avvertiti, però non diversi o insoliti a simiglianti avvenimenti. Alla seconda scossa della tristissima notte un lampo di sanguigna luce accese l’aere intorno; dalle chiuse finestre, e spalancatesi all’urto, il fero guizzo illuminò le buje stanze; e al perdurante e sinistro chiarore fu dato a molti di riparare in qualche vano, che li fè salvi. Altri fuggendo dalle case alla campagna ai primi scotimenti sentivano su per la via forte odor di bitume o di solfo, che avvisarono sprigionarsi da’  crepacci del sentiero che battevano.

Spesso, non sempre, agli scotimenti si accompagnavano istantanee quelle cupe detonazioni, che paiono scoppiare nel lontano aere, e sono esse nelle cave viscere della terra (): e più spesso si udivano, e si odono a quando a quando, susseguirsi nell’atmosfera come il lontano fragore dell’aquilone, senza un moto sensibile della terra. — La quale non è ancora rafferma oggi dopo novanta e più giorni di crise; ma le ondulazioni più o meno intense, sempre innocue, si susseguono quotidianamente, a volta a volta con certa regolarità periodica, più avvertite di notte che di giorno, e più ad aere sereno che a nuvoloso, e forse ai mutamenti dell’atmosfera per condizioni meteorologiche o alle fasi della luna, come il volgo pretende di avvertire; leggi se vere, non però punto accertate (). —Seguirono sussultorie e lievemente ondulatorie: ma la seconda del 16, ferale e precipua, fu di sbalzo, e vorticosa. e ondulatoria e in tutti i sensi. —Vedemmo statuette di gesso, ad ornamento di tavoli, già slanciate di forza, o atteggiarsi di fianco; una serie dì caraffe piene di spiritosi liquori, ordinata sulla cornice di un armadio? ordinatamente piegarsi tutte in fila; ed una sola infrangersi al suolo; leggiere suppellettili balestrale una o più stanze lontane; e una caraffa di acqua restar salda sul tavolo, ma balzar netto il turacciolo dall’intatta gola. — Più notevole fenomeno toccò a certe pareti, del disfatto monastero di Missanello; le quali rimasero in piè, ma travolto il dosso interno all’esterna parte, quasi a pernio aggirate: e simile caso a Corleto.

Quanti mirabili accidenti a bruti, ad uominia cose! Ai Cappuccini della Saponara una muraglia è orizzontalmente e a rettifilo tagliata alla sua metà, e giù di un solo pezzo rovescia: a Laurenzana un torrione quadrato cade netto nella sottoposta vallea, come balzato di peso: altrove le frecce de’  campanili nettamente tronche quasi a un colpo di taglio. — Una casa a Tramutala fu lesa al primo urto, il quale sott’essa aprì due larghe e fonde crepacce; e queste rjchiuden-p dosi a’  posteriori scotimenti, la casa si squarciò tutta alle primiere lesioni. A Moliterno, ed altrove de’  men guasti paesi, lesioni e squartiature alle interne pareti, e meno o punto alle esterne — E così feroci scherzi dovunque.

Il mar Tirreno per parecchi dì dopo la notturna catastrofe non si mosse da una calma sì morta, che più della fremente procella spaventò le menti già trepide dei rivieraschi. — Crebbero di acque le fonti, i fiumi, i rigagnoli; ma lutulente per più dì le fiumane. In quel di Viggiano sgorgò da un crepaccio una limpida polla di grato e fresco sapore, che presto scomparve: così altrove. La ricca vena, che è la pubblica fonte di Tramutola, si ascose per qualche dì; poi ai riapparir lutulenta cacciò fuori gambi e fogliami di culta verdura seco forse travolta al franar del terreno. — Larghe crepacce comparvero per tutti i luoghi, e nel Vallo, e giù lungo l’Agri e su pei monti d’intorno. Largo di cinque palmi e lungo di 30 è uno spaccato ancora aperto in quel di Tramutola; e alla pietra, che vi si gitta, tardi risponde un tonfo qual di acqua fonda. Grandissimi sull’Appennino tra Marsico e Sala che intercettarono per qualche dì i traffici tra’ due paesi; e grande spaccatura al monte dell’Alpe presso Latronico, cava ancora intatta di marmo statuario. Si richiusero e presto: e raccontano ohe in quel di Marsico un viandante restò inceppato del piè in un subito fendimento del terreno, che un secondo urto sprigionò. In quel di Bella, nel distretto di Melfi, cangiò di aspetto buon tratto di paese, arrovesciando colli, e circuendo di un largo e fondo vallo all’intorno seicento moggia di campo.

Se l’atmosfera risenta o influisca a sì grandi fenomeni è dubbio. Dirò che ella non fu punto normale, poiché dopo le assidue e larghissime piogge autunnali, al 25 di novembre serenò l’aere e s’intiepidì per 40 giorni; dando così ragione all’esperienza del nostro popolo; il quale, dotto per antica tradizione, prognostica l’aspetto del tempo pei quaranta giorni avvenire da certe condizioni atmosferiche della notte di S.a Caterina (25 novembre). — Chiusi i 40 dì, venne giù un nevischio crudele, un rovaio di una furia vorticosa e di un fragor singolare; e durò sul borea la rigida atmosfera, avvicendando nugoli e sereno e neve sino a’ 9 febbraio, quando si mostrò una prima e quieta pioggia, dopo a mezzo il novembre. —Al cader di gennaio il termometro scese fino a 5 gr. sotto lo zero e una notte il Maglio gelò alle sue origini, non mai ricordato fenomeno a queste regioni.

XIII

Avrà una meritala e onorevole pagina nella storia contemporanea la pubblica e privata carità, che all’annunzio del gran disastro si commosse feconda in popoli e governi: e come all’eco del cittadino dolore rispose sollecita la voce di lontane e civili nazioni. Sintomo, benché ancor minimo, di un futuro affratellamento de’ popoli nello spirito e nella carità del Vangelo. —Ma aspettando che sia compiuta Fazione di tanta pubblica beneficenza, perché altri a tempo e luogo opportuno potesse descriverne gli onorati fatti, noi non usciremo dal tristo tema, gittando un ultimo sguardo ad altri effetti, che i materiali non siano di tanto disastro.

Il quale in questa ultima e quasi ignorata plaga d’Italia  che è la Basilicata, à gittate indietro la civiltà di ancor cinquant’anni, disperdendo il fatto economico, sì grande ep5pure sì poco visibile, che può da tutto un popolo accumularsi in mezzo secolo. Già gli estremi di questa regione, vasta poco meno del Gran Ducato di Toscana, agli attriti pili assidui, perché più facili, de’ commercii coi prossimi popoli  si venivano disquamando da quella ruvidezza, che dà la vita agricola e pastorale, chiusa al commescolarsi degli agi e delle idee: né dessa era l’ultima tra le regioni men culte del Reame; benché per topografici ostacoli a sé specialissimi ultima per beneficii di commercia, di strade, di porti. Or disfatte città, ville e paesi, perdute a pezza quel tanto di capitale, che ogni famiglia, dalla povera all’opulenta, può chiudere in sue case di scorte, di derrate, di animali, di preziosità, o. di suppellettili o di strumenti adatti al governo della terra, o all’umana industria o agli agi del proprietario, quanta parte non è perduta di ricchezza, di coltura e di civiltà, che pure per tanti lati sulla ricchezza si appoggia! Quanta parte del secolo non passerà ancora per vedere questi mucchi di ossa rialzarsi e compaginarsi, e prendere, dirò, vita e forma primiera, e divenir paesi, che non siano un gruppo di miserabili capanne, cui il subito bisogno rizzò ma paesi avviati a divenir città, di civili e nobili edifizii abbelliti; presso a’ quali la pulita casetta del povero mostri la decenza dell’agiatezza. Ma pria converrà che l’agiatezza si accumuli; ed essa non viene che col tempo, col sudor del lavoro, e dopo vinto e domato l’urgente bisogno, quando è possibile il mostrarsi difficile di un capitale’Il quale, lento figlio degli stenti e della temperanza, non sorge che per via del risparmio; e questo non può darsi, quando dei tenui profitti il bisogno è maggiore.

Sminuito il popolo in ragione dell’estensione della terra coltivabile, sminuiscono le rendite fondiali: il qual fatto favorevole al cultore de’ campi, non è per verità che specialmente avverso al signor della terra, che è la classe elevata. Ma per quell’accordo sì pieno di tutti gl’interessi sociali, che fa della società un’armonica macchina, (cui non tutti comprendono, plebe o statisti) la rendita sminuita al proprietario stremerà la richiesta di lavoro alle classi operaie, le quali soddisfacciano bisogni un po’ più elevati denaturali primissimi. Quindi ristagno della civiltà generale; e così in tutti a un dipresso, eguali sofferenze. Ajuteranno possibilmente a queste desolate regioni le strade carreggiabili, che cooperino o creino i commercii delle derrate e delle idee; e i prodotti del suolo, che quinci innanzi avanzeranno all’interno consumo diminuito, concambiino a miglior ragione su più popolosi mercati. —Le faran pro istituzioni di credito agrario e industriale, e casse di risparmio, e simili congegni, che ajutino alla formazione del capitale, leva economica della civiltà. Ma più di tutto ajuterà il tempo. Il quale, sperdendo le memorie, creerà la fiducia nei popoli sgomenti; e la fiducia preparerà l’avvenire di una fiorente civiltà, cui vedranno i nostri posteri; e di che i presenti spargeranno i semi, se il Signore propizii il suolo, e il difenda da futuri disastri.

Giacomo Racioppi

fonte https://www.eleaml.org/ne/stampa/1858-tremuoti-basilicata-dicembre-1857-racioppi-2020.html

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