Sulle spalle il padre Anchise e per mano il figlio Ascanio
L’immagine della fuga da Troia è soggetto di tante opere d’arte. Nell’episodio virgiliano il pio Enea – che ha combattuto perdendo fidi compagni, che ha salvato il padre Anchise e il figlio Ascanio – rappresenta l’ideale di uomo romano, dedito alla famiglia e alla patria.
Enea e i Troiani combattono in maniera estenuante. Tanti giovani muoiono per tentare di difendere fino alla fine la rocca. Ogni resistenza è vana. Il re Priamo viene ucciso. La madre di Enea, Venere, deve intervenire personalmente perché il figlio parta dalla città in fiamme. La dea lo provoca prima sugli affetti: perché il giovane non si preoccupa del padre Anchise «stremato dagli anni», della moglie Creusa, del piccolo Ascanio? Gli mostra, poi, la realtà dietro l’apparenza dello scontro. Sono le stesse divinità ad abbattere la città. Enea può finalmente vedere
[…] Nettuno con l’enorme tridente demolire le mura
scalzate alla base e radere al suolo l’intera città;
là Giunone inesorabile, […]
Già, sulla sommità della rocca (guarda!) s’è insediata
Pallade tritonia sfolgorante di lampi […].
Venere sprona Enea a fuggire per porre fine ai tormenti. Gli promette di essergli sempre vicina e di accompagnarlo indenne alla casa paterna. Enea vede allora la città in fiamme, che cade come un frassino gigantesco abbattuto da molte scuri. Giunge poi dal padre che in principio si rifiuta di mettersi in salvo, convinto che sia arrivato ormai il tempo di morire. Allora Enea si ripromette di combattere fino alla fine. La moglie Creusa pretende di morire anche lei:
Se vai alla morte, prendi anche noi con te. Se invece sai
di poter riporre nelle tue armi una qualche speranza,
prima difendi questa casa! A chi lasci il piccolo Iulo [Ascanio],
a chi il padre, a chi quella che un giorno hai chiamato sposa?
A questo punto accade un prodigio. Sulla sommità dei capelli del figlio, stretto tra le braccia di Enea e Creusa, si leva una fiamma, innocua al tatto, che lambisce i capelli del bambino senza in alcun modo bruciarli. I genitori tentano invano di spegnere il fuoco con l’acqua. Anchise, nonno di Ascanio, gioisce intuendo che è un segno del cielo e chiede a Giove di confermare quel presagio con un altro segno. Subito una stella cadendo traccia con una scia luminosa il firmamento, passa vicino alla casa di Anchise e si dilegua nel bosco del monte Ida. Il cielo stesso ha indicato la strada per la fuga, non verso le montagne, ma in direzione dell’interno. Anchise stesso è convinto che si debba fuggire e non cercare la morte nella Troade: «Mi arrendo, non mi rifiuto più di venire con te, figlio!». Enea carica sulle spalle il padre anziano e prende per mano il figlio. La moglie Creusa segue a distanza. I servitori e gli altri compagni dovranno giungere presso un antico cipresso «conservato attraverso gli anni dal culto dei padri» collocato vicino ad un antico tempio di Cerere.
Arredi sacri e Penati saranno conservati da Anchise, perché Enea è conscio di non poterli toccare, finché non si sarà purificato con acqua lustrale, dopo la strage dei combattimenti che l’hanno visto protagonista e macchiarsi di sangue.
L’immagine diviene soggetto di tante opere d’arte, scultoree e pittoriche. Celebre è la realizzazione marmorea di Gian Lorenzo Bernini che esalta il suo virtuosismo nella resa di personaggi di tre generazioni differenti. Famosissimo è l’olio su tela dell’artista Federico Barocci rappresentante la Fuga di Enea da Troia (1598) così come assai conosciuta è la stampa di Agostino Carracci sullo stesso soggetto (1595).
Nell’episodio virgiliano Enea incarna pienamente la tradizione romana, il mos maiorum, la pietas ovvero la riverenza nei confronti di quanti ci sono superiori, gli dei, i genitori, il comandante, la religio ovvero la ritualità e la fides cioè la lealtà e la fedeltà. Il pio Enea, che ha combattuto perdendo fidi compagni, che ha salvato il padre Anchise e il figlio Ascanio, rappresenta l’ideale di uomo romano, dedito alla famiglia, allo Stato e alla patria, non proteso su se stesso, ma disposto ad abbandonare tutto per la realizzazione di Roma, di un grande Impero, così come voleva il programma augusteo di richiamo al mos maiorum. In lui si compenetrano il senso dell’appartenenza ad una collettività e la responsabilità per la missione affidatagli dagli dei, quella di ricostruire la patria distrutta dai Greci e che, come in una nemesi storica, conquisterà quella terra, la Grecia, che aveva distrutto la vecchia patria.
Durante la fuga Enea è spaventato, non tanto per sé, ma per chi sta proteggendo. Mentre si sta avventurando di corsa su sentieri poco conosciuti, Enea non si avvede di aver smarrito Creusa. Solo quando raggiunge l’altura e la sacra dimora di Cerere, Enea comprende che solo la moglie manca all’appello, si è smarrita:
Chi, fuori di me, degli uomini, chi non accusai degli dei?
Nella città rasa al suolo mi è occorso uno strazio maggiore?
Affidati il padre, il figlio, i Penati ai soldati, Enea ritorna indietro, ripercorre i suoi passi e sfida il pericolo pur di ritrovare l’amata. Rivede il palazzo e la cittadella di Priamo. Ritorna a casa nel caso in cui Creusa vi abbia fatto ritorno. Le scene che si mostrano all’eroe sono terrificanti:
[…] Qui da tutte le parti
il tesoro di Troia strappato ai templi bruciati, mense
degli dei, crateri d’oro massiccio, drappi rubati
si ammucchiano. Tutto intorno, bambini e madre atterrite
aspettano in lunga coda.
Enea grida, grida e poi ancora continua a chiamarla quando davanti ai suoi occhi appare il fantasma della moglie, più grande di come la ricordi. La voce gli si strozza in gola. Creusa, ormai morta, lo saluta per l’ultima volta: il destino non le permette di solcare il mare per arrivare in Esperia (Italia); il sommo Giove non lo concede; ad Enea toccherà un lunghissimo esilio, ma finalmente, giunto vicino al Tevere, avrà un regno e «una sposa di sangue reale». «Non piangere più per la tua diletta Creusa», supplica la moglie, terminando con le ultime parole: «Ora, addio: conservati all’amore del figlio tuo e mio». Il fantasma della moglie si allontana, mentre Enea cerca di abbracciarla invano:
Ter conatus ibi collo dare bracchia circum;
ter frustra comprensa manus effugit imago,
par levibus ventis volucrique simillima somno.
Ovvero:
Tre volte tentai di stringerle al collo le braccia;
tre volte all’inutile stretta l’ombra mi svanì fra le mani,
pari alle brezze leggere, tale e quale l’uccello del sogno.
Sono gli stessi versi (parola per parola) che descriveranno il tentativo di Enea di abbracciare il padre Anchise quando lo incontrerà nei Campi Elisi (libro sesto). Ricordiamo che Virgilio non ebbe tempo di sottoporre al labor limae il suo capolavoro. Enea si arrende al destino e, preso sul collo il padre, si avvia verso i monti.
Giovanni Fighera
fonte
Sulle spalle il padre Anchise e per mano il figlio Ascanio – La Nuova Bussola Quotidiana (lanuovabq.it)