Alta Terra di Lavoro

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The Norman link : dati storici ed archeologici a confronto per lo studio dei Normanni in Italia

Posted by on Gen 9, 2017

The Norman link : dati storici  ed archeologici a confronto  per lo studio dei Normanni in Italia

L’ eccellenza Campanina Sabrina Pietrobono, è stata lei la prima ad usare un termine usato dai geologi VALLE LATINA parlando del territorio che per 1130 anni è stata la Campania Felix, ci permette di pubblicare uno stralcio di un suo lavoro e ci da l’opportunità di pubblicarne anche un articolo Inglese che parla dei castelli di Arpino

 

  1. Introduzione Nel corso degli ultimi decenni, che dalle fasi iniziali hanno visto sviluppo, crisi e trasformazione dell’archeologia medievale (Gelichi 2005), pur protagonisti nel corso dell’XI-XII secolo di una peculiare espansione dal Nord al Sud dell’Europa, i Normanni non hanno richiamato un interesse autonomo, che alcuni importanti scavi, come Scribla (Flambard Héricher 2010), avrebbero pure permesso di consolidare. Anche in Inghilterra, gli studiosi manifestano tuttora una preferenza al periodo pre-1066, dedicandosi eventualmente, come nell’incontro della Society for Medieval Archaeology nel 2013, ad un’archeologia “della conquista normanna”. Approcci per un’archeologia dei castelli normanni o dei normanni in generale estesa a contesti regionali (Cuteri 2003) sono stati avviati nel corso degli ultimi decenni in Italia, affiancati a lavori più ampi in altre discipline (Pistilli 2003); di fatto, però, l’interesse è rimasto assorbito dai grandi temi di ricerca quali il popolamento o gli insediamenti umani (villaggi, castelli, monasteri, etc.) e, su tutti, l’elaborazione di carte archeologiche. Dal momento che si sta consolidando un approccio archeologico “globale”, probabilmente non esisterà in futuro un’archeologia “dei Normanni” pari ad una “archeologia dei Longobardi”, definizione quest’ultima che, pur se sottoposta a critica, si sostanzia a più riprese in pubblicazioni che ne impediscono il declino almeno formale (Rotili 2012). Al contrario, le discipline storiche con iniziative plurime (Normanni 1994) hanno indagato la definizione delle caratteristiche identitarie o i caratteri originari del loro processo di espansione (Loud 1981; Drell 1999; Caratteri originari 2006); pertanto, concentrando l’attenzione sul paesaggio, per comprendere se ed in che misura i Normanni abbiano inciso sulle dinamiche evolutive del territorio e quale sia stata la loro eredità nella sua trasformazione, grazie a quelle esigenze di gruppo che permisero di raffinare la propria cultura anche figurativa in maniera unica assorbendo diverse suggestioni (Tronzo 1997), è stato realizzato N-LINK (Normannitas: Landscapes, identity and Norman Kingdoms), un progetto finanziato dall’Unione Europea nel 2011 nell’ambito delle Marie Curie Actions – IEF, condotto dalla scrivente tra 2012 e 2014 sotto la supervisione di Sam Turner (Newcastle University, UK – che si ringrazia per aver letto e apprezzato il presente articolo).
  2. Il progetto N-LINK Paesaggi – identità – Regni Normanni: tre pilastri di indagine di una normannitas che, se esistita, sarebbe più facilmente emersa al di fuori del contesto di origine, la Normandia. Sono stati perciò posti a confronto due territori di frontiera nell’Italia centro-meridionale e nel Nord dell’Inghilterra, prima e dopo l’occupazione, con lo scopo di integrare analisi topografica e dati documentari attraverso i principi teorici e metodologici che guidano l’Historic Landscape Characterisation (HLC), una caratterizzazione degli elementi storici del paesaggio. Per testarne i risultati, si è proceduto a verificare il comportamento dei Normanni nello sfruttamento del territorio in un’area della Sicilia, il comune di Patti, in cui ricade l’antico centro di Tindari. La HLC è stata sviluppata nelle regioni meridionali del Regno Unito e progressivamente estesa all’intero territorio britannico: esemplificando il metodo, essa suddivide il territorio in specifici types, o modelli, per interpretare i caratteri storici che il paesaggio contemporaneo preserva (campi, terre aperte, terrazzamenti, insediamenti, etc.). In tal modo, si fornisce certamente il quadro dettagliato dello sfruttamento del suolo attuale in tutte le sue minute componenti, ma – proponendo per ciascuno dei types una cronologia – è possibile risalire al periodo in cui quel contesto si è consolidato, il che rappresenta il primo solido contributo nella ricostruzione storica dell’economia e della società di un territorio (Fairclough, Wigley 2005; Pietrobono, Turner 2010). Il processo interpretativo della HLC si basa su un metodo regressivo di analisi della cartografia storica e corrente della Ordnance Survey (operante dal 1791, Hewitt 2011, pp. 144-169), integrata dall’acquisizione di database su scavi e ricognizioni in possesso degli uffici di tutela britannici. Risulta quindi uno strumento costantemente aggiornabile: inoltre, le carte dell’OS (gestite in versione digitale nel progetto Edina a supporto della ricerca academica su base nazionale) inglobano informazioni archeologiche poi dettagliatamente illustrate nelle banche dati (nel nostro caso, dei Durham e Northumberland County Councils, che ringrazio per la disponibilità); quanto più è possibile ancorarla a dati concreti, tanto più la HLC dimostra la sua flessibilità nell’affinare gradualmente il processo interpretativo per broad types. Le differenti condizioni di lavoro in UK ed in Italia hanno determinato la scelta di procedure e finalità che saranno dettagliate per metodo e precedenti in altri contributi. I casi studio selezionati anche sulla base del minore consumo di suolo, per motivazioni storiche non disponevano di strumenti dello stesso livello dei casi studio britannici, né cartografici, né catastali (non restituiti dai Catasti Onciari né dal Catasto Murattiano, ma da catasti a datare dalla prima metà del Novecento) e nemmeno archeologici (nonostante la cortese disponibilità della Soprintendenza ai Beni Archeologici del Lazio e dei comuni coinvolti, che si ringraziano). Si tratta di Rocca d’Evandro (CE); S. Apollinare, S. Ambrogio sul Garigliano, S. Andrea del Garigliano (FR) e l’area detta Vandra (CE) con la vicina Flumetica; Esperia ed il castello di Roccaguglielma (FR); Ambrifi in comune di Lenola (LT), al quale è stato già dedicato un apposito contributo (Pietrobono, Turner 2014, fig. 1). Negli ambiti rurali, infine, il minore sviluppo in termini edilizi ed infrastrutturali non ha lasciato emergere una quantità adeguata di dati archeologici, in genere restituiti dalle indagini preventive.
  3. Alcuni risultati Rinviando per i dettagli dei casi studio ad altra sede, a conclusione del progetto è risultato che alcuni types italiani individuati nel paesaggio contemporaneo, necessariamente semplificati rispetto alla HLC inglese, hanno antecedenti in età medievale: tra questi, strutture di terrazzamento ormai evanidi, ma costruite intorno ad alcuni casali medievali abbandonati facenti capo ad edifici ecclesiastici emergenti in età normanna, presso Esperia; oppure le limate parallele al fiume Liri, tra S. Apollinare e S. Andrea del Garigliano, attualmente occupate da coltivazioni di pioppi, la cui presenza è confermata dai documenti del XIII secolo, ma che furono pesantemente alterate nella morfologia dagli spostamenti del fiume e dalla parcellizzazione ottocentesca; alcune aree boschive attorno ad Ambrifi dovevano avere una maggiore estensione in età medievale, in particolare nell’area della “Foresta”. Infine si è analizzato nel dettaglio l’abitato di Vandra (CE), un castello cassinese localmente dimenticato (fig. 2). Tre punti del progetto possono essere richiamati in questa breve comunicazione: 1 – L’analisi del confine settentrionale del Regno (speciale attenzione è stata dedicata a Monte S. Giovanni Campano, in territorio laziale ex pontificio ma feudo aquinate, ed Arpino, Roccaguglielma e Rocca d’Evandro, in territorio normanno). Si è evidenziata la modalità d’espansione nel Principato di Capua e nell’area cassinese, dove la presenza normanna fu percepita come forte ed intrusiva: fino al 1044/45, data dell’espulsione ad opera dell’abate Richerio, i Normanni prima furono i custodi dell’abbazia, poi ne furono i predoni.

I cavalieri furono fatti inizialmente stanziare dall’abate presso Pignataro, detto municipium nel 997, solo in seguito chiamato oppidum (Loud 1994, p. 56): è al confine del suo territorio, a Terame, sulla parte terminale del pianoro dell’antica città romana di Interamna Lirenas, ora indagata dall’Università di Cambridge (Bellini, Launaro, Miller 2013), che si preservano resti prettamente morfologici di un insediamento medievale a richiamare l’impianto di una motta (come a Gallinaro, Pietrobono 2014), insediamento conteso dal monastero ai vicini d’Aquino. Per la cassinese Rocca di Bantra, nelle sue forme attuali si sospetta una precoce fondazione, causata forse dalla presenza normanna nell’area, dirimpetto il castrum monastico vallivo di Vandra/Bantra monacesca, che a sua volta preserva murature con materiali di reimpiego alla base di un complesso al vertice dell’insediamento, al momento inquadrabili nell’ambito del pieno XI secolo. 2 – Castra/castelli e rocche. Il censimento delle strutture normanne ha chiaramente distinto i due processi di fortificazione, quello per castra – insediamenti fortificati – e per rocche. L’abbazia avviò una forte politica di fortificazione soltanto dopo il 1044/45: ai primi dell’XI secolo i castelli di Montecassino erano pochi (ad esempio, S. Angelo e la torre di S. Giorgio al Liri); nel 1057 però l’abbazia possiede quasi venti castra, raddoppiati ai primi del XII secolo (Ranchet 2009, p. 51). Alle origini, però, gli insediamenti non fortificati rimasero prevalenti, casali e ville, a conferma della lettura di Loud 1994 (cfr. Toubert 1997): l’incastellamento in forma diffusa in area cassinese si intensificò per via della pressione normanna. Il caso di S. Andrea del Garigliano conferma la differenza insediativa tra la villa localizzata presso il fiume Liri ed il castello cassinese, che invece risalì sulle colline per deliberatamente annullare la fortificazione normanna ivi eretta (Loud 1994, p. 58); stessa dicotomia si rivela sia per S. Apollinare dove il castello fu fondato ad un km ad est dalla chiesa di S. Apollinare Vecchio, distrutta ma localizzata di fronte all’attuale cimitero comunale, sia per S. Ambrogio sul Garigliano, dove un sito detto “S. Ambrogio vecchio” suggerirebbe un simile sviluppo. La reazione dei Normanni all’espulsione dalle terre abbaziali produsse una seconda lenta fase di penetrazione, che li condusse attraverso i Monti Aurunci verso l’area costiera alla conquista del Ducato di Gaeta. La loro politica fissò la gerarchia degli insediamenti visualizzata dal sito fortificato di Roccaguglielma (fig. 3), molto probabilmente eretta in luogo di un precedente castello Guillelmi menzionato nel marzo 1066/7 (Regesti VIII, 2163-4, n. 13-4, pp. 182-183), dominante sugli insediamenti precedenti (i castelli cassinesi di S. Stefano e S. Giorgio; i casali di S. Pietro in Curulis e S. Pietro della Foresta). 3 – Connessione tra rocca e paesaggio. N-LINK ha indagato le conseguenze di questa politica ricostruendo la connessione tra gli insediamenti rurali ed i siti fortificati, in relazione a viabilità e distribuzione delle risorse. Il processo di costruzione delle rocche riguardò anche le aristocrazie longobarde locali, caricando in ultimo il paesaggio di nuovi contenuti: circoscrivere l’azione dei Normanni all’edificazione di fortificazioni usando la sola categoria della “militarizzazione” del territorio risulta quindi sicuramente riduttivo. Il processo di popolamento dell’area basso laziale era di per sé avanzato, e pochi gli spazi disponibili per insediamenti e nuove coltivazioni (Loud 1994), ma il sistema normanno per rocche quasi preferisce lo sviluppo dell’insediamento aperto esternamente ad esse, anticipato dai monaci greci nel loro anche vasto territorio della Foresta che non vede la costruzione di castelli. Roccaguglielma, inizialmente eretta a custodia del confine di Pontecorvo con la Terra di S. Benedetto, rimaneva in diretto collegamento con i villaggi di fondovalle, dove la popolazione lentamente cresceva, ma dimostra un’attenzione particolare per i possessi sulle montagne aurunche di Montecassino: non è un caso che le rocche dove i Normanni si attestarono fossero a breve distanza da altipiani boscosi dove poter organizzare la caccia; in pianura e media collina si trovavano invece sia alcuni castelli dei monaci cassinesi (ad es. Vandra) sia degli aquinati (ad es. Insula Pontis Solarati). Gli abitati rurali, casali o ville, che in numero sempre maggiore appaiono citati nel corso dell’XI e XII secolo nelle aree marginali delle pertinenze castrali di Pontecorvo, gradualmente graviteranno sul confinante castello di Roccaguglielma. I Normanni si imposero in un territorio dove aumenteranno progressivamente le chiese, fulcro di insediamenti, espressamente casali, nel XIV secolo (ad es. Il Casale di Rivo Vituli o Vitellato, Casale Turdini, etc, Rationes Decimarum Italiae, p. 37, n. 430-1), ai quali si può associare l’abitato o castrum sottostante la Roccaguglielma, sviluppatosi peraltro a margine di San Pietro in Curulis. In questo territorio normanno, che si estendeva lungo i Monti Aurunci, la ripresa era stata avviata dopo la fine del X secolo grazie ai monaci greci di S. Pietro e di S. Paolo della Foresta, i beni dei quali furono però nel 1075/6 e nel 1092/3 ceduti a Montecassino (Ranquet 2009, p. 69). Il termine medievale Foresta, pur se attestato a fine X secolo ad indicare un deserto e vasto loco, se inteso soltanto in quanto area boschiva aveva perso da tempo la sua ragione d’essere, ed era stata precedentemente sfruttata in età romana: una villa scavata presso le Crocelle di S. Oliva fu abbandonata entro la fine del IV secolo d.C. (De Lucia Brolli 1985). Nella terza e lunga fase di avanzata normanna che culminò nel 1139, l’autonomia di Montecassino fu notevolmente ridotta: passaggi di proprietà e potenziamento dei nuclei insediativi diminuirono l’influenza monastica dalla metà del XII secolo in poi. La contrada boschiva de Publica, oggi Polleca, una piana carsica sulle cime degli stessi monti, passò dalle mani cassinesi a quelle del demanio reale, in utilità dell’università locale nel 1176 (Regesti II, doc. 32, 116-117). Infine, N-LINK ha inserito le strutture fortificate (Crova 2011) all’interno del processo di costruzione e comunicazione del potere attraverso uno studiato uso dello spazio, in parallelo con simili studi condotti in altri paesi europei (Hansson 2009). Il castello di Arpino, la cui analisi ha suggerito di connettere il nucleo fortificato con torrione a base quadrangolare sulla cima di Civita Falconara alla prassi normanna, ha rafforzato la percezione del loro potenziale costruttivo. All’impianto si aggiunse in seguito la rocca sull’opposta Civita Falconara, menzionata sotto Manfredi, in uno spazio territoriale che fu volontariamente estraniato dal contesto amministrativo circostante e collegato alla più lontana contea casertana (De Acutis, Pietrobono 2012). S.P.

  1. Il territorio di Tyndaris in età normanna L’approccio diacronico della carta archeologica di Tyndaris (Fasolo 2013, 2014), centro greco romano presso Patti (Messina), ha consentito di delineare l’evoluzione del territorio, tra il mar Tirreno e lo spartiacque dei Peloritani-Nebrodi, dalla Preistoria all’età medievale, in particolare le fasi di trasformazione prima nel passaggio dall’età romana all’alto Medioevo e poi con l’arrivo dei Normanni (fig. 4). Dopo una fase araba dai contorni evanescenti che nell’assenza di qualsiasi testimonianza materiale può essere ancorata problematicamente a pochi relitti di natura toponomastica, con lo stesso promontorio di Tindari (fig. 5) localizzabile in maniera incerta nelle fonti arabe, nel 1094 il toponimo Pactes compare in tre documenti (atto di fondazione del monastero di S. Salvatore a Patti, assenso alla fondazione di Roberto, vescovo di Troina-Messina, diploma con donazioni al monastero di San Bartolomeo di Lipari) (Fasolo 2013). La nuova geografia del potere normanno ridefinisce con un monastero fortificato Pactes ma il centro emerge in queste fonti e anche dai resti di chiese altomedievali (al di sotto di S. Ippolito e della Cattedrale) come un abitato già di una certa consistenza, dalla vita civile organizzata, con clero secolare, chiese, decime, qualificato villa, e, qualche anno più tardi, castrum forse dopo la costruzione di un apprestamento. Tra la Tardantichità e l’alto Medioevo aveva preso corpo dal processo di dissoluzione dei paesaggi antichi e soprattutto delle strutture produttive della villa romana di Patti Marina. Il numero degli abitanti doveva essere non irrilevante dato che il Conte dona «in pactes» ben «centum villanos» all’abate, ovvero una quantità consistente e che comunque, sia pur considerando la probabile convenzionalità della cifra tonda, doveva apparire plausibile a chiunque ne fosse venuto a conoscenza nell’immediato. Insieme a Pactes e al flumen de pactes nei documenti del 1094 viene nominata località di Livir, Oliveri che riappare nel 1109 in una concessione della reggente Adelasia al monaco eremita Gerasimo di una vecchia chiesa abbandonata dedicata al profeta Elia (Fasolo 2013). A differenza di Patti e di Oliveri nei documenti della prima metà del XII secolo il riferimento a Tindari, sede vescovile alla fine del VI secolo (con episcopio forse rurale probabilmente nella villa di Patti Marina), espugnata dai conquistatori arabi alla metà del IX secolo, continua a rimanere indiretto. Il toponimo riappare intorno alla metà del XII secolo con Edrisi, non più poleonimo ma semplice elemento della geografia fisica, un promontorio, Râs Dandâri. Patti, tra la fine dell’XI e quella del XII secolo, emerge e si afferma invece nel ruolo prima di Tindari di baricentro del territorio con l’abbazia di rito latino che diviene in breve tempo il principale centro propulsivo di un vasto riassetto del comprensorio che ha come fine il ripopolamento, attraverso l’incentivazione dell’insediamento di popolazioni latine, e il riavvio delle produzioni agricole e delle attività economiche con la costituzione di alcune strutture antropiche di lunga durata. Alla metà del XII secolo il geografo Edrisi (Fasolo 2013) può sottolineare che Baqtuś è una «fortezza difendevole… che racchiude feraci campi da seminare, casali prosperosi, acque correnti, numerosi giardini» e a proposito della vicina Labîry Oliveri ricorda «È bello e grazioso casale, con un gran castello … un mercato, un bagno, delle case…acque perenni…molini… un bel porto, nel quale si fa copiosa pesca di tonno». All’estremità ovest del comprensorio è poi la fortezza di Nâsû «il contado è vasto; ha gran numero di cólti, acque copiose, giardini e fiumi…terre da seminato…molini», l’abbazia di Patti ne possiede la metà. A essere riorganizzato è infatti non solamente il territorio intorno a Patti ma l’intero comprensorio, tra Polverello, Capo d’Orlando e Capo Tindari, all’incirca 380 km², facendo perno su quattro realtà territoriali, quattro grandi aziende agricole, due abbazie di rito greco, preesistenti all’arrivo dei normanni, i monasteri di S. Angelo di Lisico dei Demenni a Sant’Angelo di Brolo e quello di San Nicola de Valle Demone detto de la Fico presso Raccuja, una «colonia» demaniale, Phokairòs (Focerò) e per l’appunto il monastero benedettino di S. Salvatore in Patti (Fasolo 2008, 2011). Più a ovest è, sempre preesistente alla conquista normanna, il monastero greco di San Filippo di Fragalà. Alcuni confini dei territori loro assegnati ripercorrono in tutta evidenza limiti di età precedente. Nei rapporti dell’abate feudatario di Patti con gli abitanti del territorio si privilegiava quicumque sint latinae linguae avesse voluto stabilirsi in castro concedendo che i beni ottenuti fossero trasmissibili agli eredi. Per gli altri abitanti di lingua greca e araba le condizioni non dovevano essere delle migliori come emerge in un sighillion del 1117, che accoglie un’accorata supplica perché l’abate riduca le gravose angariae. In un contesto multietnico le tre principali etnie presenti nel territorio, divise da diversa condizione giuridica, probabilmente si caratterizzavano anche, nei possedimenti dell’abazia, per modalità insediative diverse. La componente latina era di duplice matrice: quella «erede» della Colonia Augusta Tyndaritanorum, concentrata nel centro abitato di Patti, forse non sottoposta alla giurisdizione temporale dell’abate, e quella di recente immigrazione nelle terre da mettere a coltura. Le altre due etnie, la greca e la «saracena», che costituivano le platee dei villani, erano disperse nei casalia, sorti forse sul sito di villae rustiche, principali punti di sviluppo del processo di ruralizzazione, nei loca, nelle valles, nei nemora, termini dell’organizzazione agraria che emergono dalle fonti. Sparuti ma presenti gli ebrei. Dai documenti provengono indicazioni sulle coltivazioni praticate: frumento, orzo, uva da vino. Non risultano menzionati oliveti o gelsi e neppure seta o lino a differenza della ghianda. Citati tra gli animali maiali, buoi, pecore, capre, galline. Molti i riferimenti ai mulini ad acqua. Accanto a queste entità territoriali che si segnalano come rilevanti nello sviluppo economico del comprensorio ci sono ovviamente numerose altre concessioni del sovrano a congiunti e a sodali come, per quelli che appaiono con Patti i tre centri abitati principali dell’area, Naso, Ficarra e Oliveri, e spesso delle terre migliori. E non scompare affatto anche il patrimonio allodiale. Nelle fonti documentarie sono spesso menzionati personaggi, definiti talora gerontes, dai cognomi greci, forse medi possidenti in conflitto con i nuovi e prepotenti signori arrivati con la conquista normanna. La politica dei sovrani normanni pur nel confronto strumentale con la presenza grecofona pare avere sempre in vista l’obiettivo di «latinizzare» il territorio. Ricorrente è da parte del conte Ruggero e del figlio la concessione ai monasteri greci della garanzia di autonomia da qualsiasi autorità a riprova che la grande questione che sta loro a cuore è il bene dell’autocefalia. La dislocazione dei monasteri di rito greco è indicativa di piccole enclaves esistenti nell’entroterra, con toponimi che talora li riconducono a antichi proprietari bizantini (Lisicò, Sinagra), dove probabilmente si era concentrata durante il periodo arabo la popolazione grecofona. Dopo il fallimento della colonia demaniale di Focerò, con centro da localizzarsi nei pressi di S. Angelo di Brolo (Fasolo 2008), nella conduzione del tenimentum subentra il monastero benedettino di Patti che a circa mezzo secolo dalla sua fondazione così raddoppia i propri possedimenti sino ad interessare quasi metà del comprensorio. I monasteri di rito greco sembrano svolgere un ruolo privo di evidente dinamicità e meramente sussidiario nel nuovo scenario apertosi con la conquista normanna, destinati a inesorabile declino. M.F.
  2. Conclusioni Nella Carta Archeologica di Tindari, pubblicata nel 2013-14, alcuni siti confermano che i nuovi poteri politici ricontestualizzarono alle proprie esigenze quanto conquistato, ferma restando la tendenza alla conservazione di delimitazioni che sembrano risalire a precedenti ripartizioni territoriali di età romana, bizantina o saracena. Gli assetti che il territorio di Patti assunse agli inizi del XII secolo, con la suddivisione tra proprietà ecclesiastica, proprietari normanni, terre demaniali, si prolungheranno sino ai nostri giorni. Simili sono stati i risultati del progetto N-LINK, dove la HLC, impietosa nella sua rappresentazione delle condizioni attuali del paesaggio, è stata ancorata alla ricerca d’archivio, che se da una parte consente l’avanzare delle conoscenze anche laddove il territorio chiude la possibilità di effettuare indagini sul campo (le aree industriali, ad esempio), dall’altra fornisce una chiave di lettura per strumenti finora sottoutilizzati per loro stessa impostazione, quali i catasti onciari settecenteschi, che abbinati al metodo regressivo, alla lettura dei catasti del XX secolo ed alla ricognizione sul campo, riescono così a fornire maggiori indicazioni. La HLC permette di interpretare il paesaggio ricomponendolo nei suoi singoli elementi con accresciute possibilità grazie all’inclusione dei dati archeologici nei geodatabase topografici con gestione a oggetti che oggi costituiscono in Italia, nelle varie produzioni regionali, il futuro della cartografia ormai distante da modalità di rappresentazione esclusivamente grafiche o dalla più recente cartografia numerica. Gli strumenti in uso – carte archeologiche, banche dati GIS ed HLC, inizialmente pensata per supportare politiche di tutela del paesaggio – si confermano in tutto complementari, e partendo dalla recente Carta Archeologica in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica di Messina si può avviare una nuova HLC sul territorio di Patti. S.P., M.F.

Sabrina Pietrobono, Michele Fasolo

 

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Bibliografia

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