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Tra il vero e falso meridionalismo

Posted by on Ott 24, 2024

Tra il vero e falso meridionalismo

Dal 1861 ad oggi la cultura “italiana” ci ha raccontato una delle favole molto “interessanti” ma indubbiamente ingiustificate: un Nord prospero, autonomo e produttivo e un Sud povero, assistenzialista e incapace di lavorare. Quante volte i napolitani e i siciliani hanno dovuto sentire e ascoltare questo racconto con il passare degli anni? Parecchio.

Le leggi emanate dai governi prima monarchici e poi repubblicani dell’Italia “unita” credevano di aver offerto al Sud e alle isole la possibilità di una nuova crescita economica, ma tutto ciò non avvenne. Perché? Allora andiamo a conoscere le vere origini di questo divario Nord-Sud che ha sempre caratterizzato la penisola italica, dubitandoci sul mantenimento dell’unità nazionale italiana. In risposta a questo divario mai affrontato, risolto e di fatto fomentato dalla politica “nazionale” è presente il più conosciuto meridionalismo, una corrente politica e culturale affermatasi dopo l’unificazione nazionale del 1861. L’improvvisa nascita dell’arretratezza delle province napolitane e siciliane, il cosiddetto “brigantaggio” e l’emigrazione attirarono una profonda attenzione al mondo della politica “italiana”, in particolare da parte dell’area liberale, repubblicana e conservatrice, dove i membri parlamentari si recarono in quelle province che condussero una serie di indagini e inchieste, entrambi contenuti nei documenti che hanno caratterizzato la vita del “nuovo” Stato unitario. La minima parte dei membri parlamentari sono padani, mentre la maggior parte provengono dalle famiglie napolitane e siciliane che presero parte ai moti del 1848 e alla Spedizione dei Mille del generale (e ladro) Garibaldi del 1860. Antonio Scialoja, Francesco de Sanctis, Pasquale Villari, Benedetto Croce, Giuseppe Massari, Stefano Jacini senior, Rosario Romeo, Umberto Zanotti Bianco, Edward C. Banfield e Luciano Cafagna possono essere considerati come membri del meridionalismo, i quali criticarono l’arretratezza “storica” e attuale dei due popoli mediterranei e auspicarono l’intervento dello “Stato” nella risoluzione della esistente questione meridionale. Accanto al meridionalismo non può mancare l’antimafia con l’affermazione del presunto legame della questione meridionale con la mafia del latifondo, confermando l’origine “storica” dell’arretratezza napolitana e siciliana. Inoltre anche gli stessi intellettuali “meridionalisti” dichiararono che l’arretratezza napolitana e siciliana fu causata dalle politiche “non adeguate” dei Borbone e dalla inefficienza amministrativa ed economica dei due popoli, dipendenti e influenzati dalle classi dominanti e dalla delinquenza comune. Per loro l’unica risposta è la presenza dello Stato “italiano” nelle popolazioni napolitane e siciliane per farli uscire dal loro stato socio-economico. Però dietro queste affermazioni “meridionaliste” si cela una verità mai detta e mai scritta sui libri scolastici e universitari. Una prova innegabile la si può individuare nel libro de “La faccia nascosta del Risorgimento” (2020) scritto da Loreto Giovannone che smonta chiaramente le “denunce degli intellettuali liberali meridionalisti”. Innanzitutto Giovannone considera de Sanctis, Villari e Croce i principali protagonisti di quella corrente che viene definita giustamente dall’autore stesso la “transumanza ideologica”, ossia legata alla propaganda del regime inteso a occultare la vera realtà e inventarla per giustificare le sue politiche. I tre intellettuali della transumanza ideologica, secondo Giovannone, avevano persino oscurato le misure di pura persecuzione verso i civili napolitani e siciliani attuate dal regime sabaudo accusati di essere parenti degli insorti patrioti diffamati dai nuovi invasori con il nome di “briganti”. Giovannone ci spiega che la motivazione dell’arretratezza napolitana non deriva dalla politica duosiciliana ma direttamente dalla distruzione dello stato sociale avanzato e moderno esistito sotto i Borbone (Monti frumentari, Istituti di beneficenza, Commissioni di beneficenza, usi civici, industrializzazione equa, pubblica istruzione, sanità e risparmio fiscale) ad opera degli invasori sabaudi e dei collaborazionisti liberali traditori, citando ad esempio la chiusura della antica Scuola Medica Salernitana, frequentata sia dagli uomini sia dalle donne per la professione medica, per ordine dello stesso de Sanctis in quanto Ministro dell’Istruzione con lo scopo di contrastare la resistenza partigiana napolitana. Il de Sanctis non è l’unico intellettuale “meridionalista” citato da Giovannone, ma anche Villari e Croce vengono presi in considerazione dall’autore dal punto di vista critico: Villari, autore di saggi e divenuto Senatore, contribuì alla stessa opera messa in atto e, giustificando l’ingiusto e repressivo colonialismo sabaudo, considera la rivolta degli insorti napolitani un problema di contadini e di poveri, dimenticando che essa era di carattere politico dovuto all’assoggettamento forzato dei napolitani al Piemonte ingrandito. Villari, di fronte alla povertà e al pauperismo diffusi nelle province napolitane per volontà delle famiglie collaborazioniste liberali, affermò nel suo libro “Lettere meridionali” (1875): “Se laggiù il contadino ed il povero sono in così pessimo stato, se la gente colta manca al suo dovere, non reagendo e non migliorando questo stato di cose, peggio per loro; resteranno ancora un pezzo nello stato di semibarbari”. In questa frase si descrive l’incapacità dei napolitani di cambiare le cose, che in realtà non è così. Croce, invece, ignorò lo spietato piano di Spaventa previsto dalla Legge Pica: il domicilio coatto, una misura draconiana e impietosa applicata dal regime piemontese. Esso consisteva nella deportazione dei civili e degli insorti napolitani nei luoghi di relegazione e nei campi di concentramento, tra cui Fenestrelle. Questo crimine disumano, perfettamente identico di quello attuato dalle dittature oligarchiche e filo-imperialiste (per es. nazismo), non viene raccontato grazie all’intervento dello stesso Benedetto Croce, anch’egli dedito alla giustificazione della politica di repressione coloniale del regime sabaudo, visto che era stato il nipote dello zio Silvio Spaventa, promotore di quella misura draconiana. Accanto agli esempi di “meridionalismo” di de Sanctis, Villari e Croce ci può stare anche la famosa “relazione Massari” realizzata dalla commissione d’inchiesta parlamentare dopo la sua visita nelle province coinvolte nella grande rivolta antiunitaria napolitana nel mese del 3 maggio 1863, bollando l’insorgenza patriottica dei napolitani, oltre come brigantaggio, anche come “frutto di delinquenza comune e retaggio del vecchio regime” con la “complicità” dei preti meridionali “legittimisti” e degli agenti borbonici e clericali. Attraverso tale calunnia scritta sulla relazione parlamentare si permise di approvare una legge sanguinaria, definita “Legge Pica” del 15 agosto 1863, che desse più poteri all’esercito piemontese di aumentare la sua repressione coloniale, uccidendo più patrioti e civili inermi, senza distinzione tra uomini, donne, bambini e vecchi. Questa legge favorì la Trattativa coloniale Stato-mafia ma frenò con molta violenza l’eroica resistenza dei patrioti napolitani diffamati. Però il re Francesco II di Borbone non rimase immobile: incaricò il marchese Giorgio Palomba di scrivere la replica diplomatica, il quale condannava duramente e chiaramente la violenza militare coloniale con le seguenti parole: “I piemontesi sono peggio dei cosiddetti briganti meridionali, se viene sottratto da Napoli il patrimonio privato di Francesco II di Borbone, se vengono confiscati i beni ecclesiastici, se vengono spogliate le chiese da tutta l’argenteria, se vengono uccisi quelli che si oppongono ai piemontesi, se vengono distrutti e arsi col fuoco interi paesi, se Napoli che era ricca vien ridotta alla miseria. È falso che il Regno di Napoli e delle Due Sicilie non abbia costruito strade, ponti, ferrovie. Il brigantaggio fu una manifestazione politica contro la dominazione piemontese. Si spiegano così i novantamila uomini mandati a combattere i cosiddetti briganti del Sud. Si incarcerava con la vaga imputazione di connivenza col brigantaggio. Alla leva militare i giovani del Sud non rispondevano, e aumentavano i renitenti e disertori. Sindaci, guardia nazionale, magistratura, polizia, proprietari, clero spesso erano dalla parte dei briganti. Allora perché i “napoletani” persero? Perché tutta l’Europa rimase impassibile a fronte dell’invasione piemontese, spalleggiata dagli inglesi e francesi”. Tale importantissima denuncia viene raccontata dal libro “Le verità e menzogne sul brigantaggio. La sconosciuta replica della Corte Borbonica alla relazioni Massari” (2018) di Gaetano Marabello ed eppure lo stesso Massari era stato il biografo del re usurpatore Vittorio Emanuele II, del politico Conte di Cavour e del generale La Marmora, per non dimenticare la sua partecipazione alla diffusione della lettera di Gladstone del 1851 su tutta l’Europa per supportare la campagna di diffamazione verso la dinastia borbonica e lo Stato delle Due Sicilie. Le parole citate dagli intellettuali “meridionalisti” (contadini e poveri definiti semibarbari, brigantaggio come sinonimo di delinquenza comune e Borbone come sinonimo di stupidità) sono la diretta ispirazione del modello della piemontesizzazione che non rappresentava affatto il simbolo della civiltà ma impose un iniquo colonialismo da parte di uno Stato (anche attraverso l’applicazione della teoria di Cesare Lombroso su “Razze Ariane e Razze Mediterranee/Africane”), quello sì, arretrato e indebitato, per accaparrarsi dei soldi di buona valuta proveniente dal Banco delle Due Sicilie avvenuto con una guerra mai dichiarata e in violazione dell’allora diritto internazionale. Quindi possiamo dire, liberamente e onerosamente, che tutti quegli intellettuali che credevano di voler “far crescere il Sud e le isole” fanno parte nel svelato meridionalismo colonizzatore, intento alla nuova e ripetuta ricerca dell’appoggio dello Stato per invitarlo a promuovere le leggi e i piani economici al Sud e alla Sicilia e puntando sulla fiducia di quello Stato, ignorando completamente la sua vera ed esistita natura coloniale. Ben presto questa corrente “unitaria” assunse due ruoli fondamentali: divenne il principale mezzo di sostegno alla partitocrazia coloniale (tutte le ideologie di sinistra, centro e destra, propriamente legate alla civiltà grando-padana) e lancia appelli di salvezza alla sola élite grando-padana. Questo meridionalismo non è affatto attaccato alle radici culturali del popolo napolitano e non ha la ragione di esistere se pensa di essere il principale rappresentate del Sud e delle isole, anche perché sia la Sicilia sia la Sardegna hanno una loro, propria e legittima identità culturale-nazionale, che sono sicilianismo e sardismo, avvolte vittime delle manipolazioni e calunnie coloniali. Però se questo meridionalismo colonizzatore è talmente falso e non un difensore del popolo napolitano, per fortuna esiste una minoranza che, con coraggio e senza essere collusa, riuscì a svelare la vera faccia della Malaunità. Questi intellettuali, per distinguersi ovviamente da quelli legati al regime coloniale sabaudo, sono Giacinto de’ Sivo, Francesco Proto Carafa, Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Antonio Lucarelli, Corrado Alvaro, Carlo Alianello, Angelo Manna e Nicola Zitara. Tali intellettuali fanno parte di un meridionalismo che dimostra di essere identitario e, meglio dire, napolitanista. In altre parole, altro che meridionalismo sarebbe opportuno parlare del napolitanismo, una corrente identitaria politica-culturale molto particolare che non è propagandistica o totalitaria, ma si riferisce proprio alle esigenze e all’identità del popolo napolitano per permettere ad esso il suo vero miracolo: la sua liberazione dal colonialismo padano. Giacinto de’ Sivo fu il primo oppositore intellettuale alle politiche e alla cultura coloniali del governo sabaudo imposti sui territori napolitani e siciliani occupati e grazie alle sue denunce da una parte ebbe il sostegno degli esiliati e combattenti partigiani filo-borbonici e indipendentisti dall’altra subì una serie di arresti ingiusti da parte dell’autorità coloniale. Il suo libro “I Napolitani al cospetto delle Nazioni Civili” (1861) esprime pubblicamente la condanna del colonialismo piemontese-padano e il ritorno al passato prosperoso delle Due Sicilie per una serie di innovazioni, ma c’è una frase molto utile detta dallo storico de’ Sivo: “Briganti noi combattenti in casa nostra, difendendo i tetti paterni, e galantuomini voi venuti qui a depredar l’altrui? Il padrone di casa è brigante, e non voi piuttosto venuti a saccheggiare la casa?”. In seguito tale esempio viene imitato dal deputato Francesco Proto Carafa attraverso la mozione parlamentare fatta il 20 novembre 1861, accusando il governo dei Savoia di aver “insanguinato ogni angolo del regno, combattendo e facendo crudelissima una insurrezione, che un governo nato dal suffragio popolare dovrebbe aver meno in orrore. Il governo di Piemonte toglie dal banco il danaro de’ privati, e del danaro pubblico fa getto fra i suoi sicofanti; scioglie le Accademie, annulla la pubblica istruzione”. Anche Proto Carafa pagò il prezzo molto alto per la sua denuncia, costretto a dimettersi ma si pentì per la sua adesione al movimento “unitario italiano”, dedicando opere letterarie favorevoli a Napoli e all’intera Patria napolitana. Giustino Fortunato inizialmente faceva parte del meridionalismo colonizzatore in quanto era stato eletto deputato nel collegio elettorale di Melfi nel 1880 ma senza assumere incarichi pubblici per la sua manifestazione di indifferenza nei confronti dello Stato “italiano”, nonostante che egli prima aveva creduto ai racconti degli intellettuali “meridionalisti”, tra cui il de Sanctis. La lettera scritta da Fortunato e inviata a Pasquale Villari nel 1899 cita una frase molto importante: “L’unità d’Italia è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari alle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali”. Poi nel suo libro “Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano” (1911) affermò due elementi principali presenti nella politica duosiciliana: “riduzione di imposte ed un aumento del capitale circolante, correlativi per il primo rifiorire dell’agricoltura meridionale”. Attraverso questa prosperità di fatto avvenuta nelle Due Sicilie che Fortunato riconobbe ai Borbone il merito d’aver salvaguardato l’indipendenza dei due popoli mediterranei dall’aggressività della Francia e dell’Inghilterra nel Mediterraneo. Una spinta più realistica sulla verità della questione meridionale ce lo dà Gaetano Salvemini in una lettera indirizzata al padano Alessandro Schiavi nel 1911 con le seguenti parole: “Ogni giorno che passa diventa sempre più vivo in me il dubbio, se non sia il caso di solennizzare il cinquantennio [dell’Unità] lanciando nel Mezzogiorno la formula della separazione politica. A che scopo continuare con questa unità in cui siamo destinati a funzionare da colonia d’America per le industrie del Nord, e a fornire collegi elettorali ai Chiaroviglio del Nord […] Perché non facciamo due Stati distinti? Una buona barriera doganale al Tronto e al Garigliano. Voi vi consumate le vostre cotonate sul luogo. Noi vendiamo i nostri prodotti agricoli agli Inglesi, e comperiamo i loro prodotti industriali a metà prezzo. In cinquant’anni, abbandonati a noi, diventiamo un altro popolo. E se non siamo capaci di governarci da noi, ci daremo in colonia agli Inglesi i quali, è sperabile ci amministrino almeno come amministrano l’Egitto, e certo ci tratteranno meglio che non ci abbiano trattato nei cinquant’anni passati i partiti conservatori, che non si dispongano a trattarci nei prossimi cinquant’anni i cosiddetti democratici”. Salvemini ammise privatamente ma non pubblicamente l’esistenza della Napolitania come colonia interna al servizio della Padania, ma non solo. Egli dichiarò che a supportare il colonialismo sabaudo non c’erano i partiti conservatori ma anche il partito socialista, accusandolo di promuovere una politica aperta al proletariato padano e chiuso al mondo contadino napolitano. Secondo Salvemini tutti i partiti, nessuno escluso, erano i principali sostenitori della malaunità d’Italia di stampo coloniale sabauda. Ben presto anche lo storico Antonio Lucarelli ammise, attraverso il suo libro “Sergente Romano” (1922), l’imposizione violenta dello status di colonia interna al popolo napolitano attraverso la sua frase: “non come italiani fummo considerati ma come conquistata colonia”. Tra gli intellettuali di questa corrente identitaria non c’erano solamente storici ma anche esponenti della letteratura, come Corrado Alvaro, un poeta nativo di San Luca, che disse: “Coloro i quali pensano all’Italia meridionale come a una contrada che ha per ideale di vivere a spese dello Stato, riflettono a come è nata tale disposizione. Non è qui il luogo per tracciare quella storia dolorosa, né per dire come la nostra parte di meridionali nel miliardo annuo che fruttava l’emigrazione, assorbita dalle grandi banche attraverso il sistema delle piccole banche locali, adoperato per fondare la grande industria, e non precisamente da noi, fu alla fine distrutto attraverso le piccole banche che fallirono puntualmente travolgendo tanta economia meridionali faticosamente conquistata. Priva d’industrie, rovinata, divenuta un terreno di sfruttamento dell’industria non locale, al livello di poco più che una colonia, si capisce che la sola speranza fu il pane dello Stato. Dico queste cose brevemente per i signorini che reputano l’Italia meridionale economicamente e intellettualmente una contrada di moretti convertiti, dimenticando quanto sudore di sangue essa diede, e quanto al pensiero italiano di veramente sostanziale, nell’orbita universale, da Vico a questa parte, fuori della retorica provinciale che tuttavia ebbe il tempo di guastare la più realistica tradizione del mondo”. Anche Alvaro notò che il nostro popolo napolitano veniva trattato come una colonia, in quanto sfruttato e privo della sua produzione industriale, nonostante che molti lavoratori e disoccupati speravano nella fiducia dello “Stato” che non fece e non farà niente per quei poveri disgraziati. Oltre ad Alvaro ci sta Carlo Alianello, uno scrittore di revisionismo storico, che smaschera le bugie del Risorgimento con una serie di denunce: sull’accusa di arretratezza dei poveri inflitta ai Borbone disse che  “Nell’Italia meridionale non c’era da scialare, ma nessuno moriva di fame, almeno a quei tempi. Diremo più innanzi delle provvidenze borboniche per i bisognosi, per i contadini, per gli zappaterra, mentre non solo in Irlanda ma in tutta l’Inghilterra l’uomo del terzo stato, il plebeo, conduceva un’esistenza infinitamente più squallida e miserabile, quale mai lazzarone napoletano o pastoriello di Calabria o Basilicata conobbe” e sulla resistenza patriottica degli insorgenti napolitani diffamati come briganti affermò che “l’unificazione d’Italia fu una guerra di conquista; i “padri della patria” erano dei massoni interessati all’oro più che agli ideali; il brigantaggio non fu lotta di classe per il possesso delle terre, ma guerra di difesa contro l’invasore, in nome di Dio e del re Borbone. Quando s’intese che la truppa piemontese era entrata nel regno, invece d’accomodarsi alla circostanza, i popolani gridarono “Viva Francesco II”, posero la borbonica coccarda rossa sul cappello e si armarono di armi rurali per tener testa ai piemontesi. Un esercito d’occupazione, con le sue crudeltà, i suoi saccheggi, le case distrutte, le donne violentate a forza”. Alianello privilegia il secolo del progresso e del patriottismo del popolo napolitano, condannando legittimamente la violenza coloniale dei piemontesi sabaudi. Negli anni 80 e 90 del Novecento Angelo Manna inaugurò una nuova visione moderna nella corrente identitaria del meridionalismo napolitanista, dai programmi televisivi locali (“Il Tormentone”) alla politica, dove egli il 4 marzo 1991 pronunciò la sua famosa interpellanza parlamentare davanti alla Camera dei deputati dicendo: “Attila, Re degli Unni fu nominato il “flagello di Dio”. Dove passava lui con i suoi uomini cresceva più l’erba. Ma più sadici e più feroci di lui furono Vittorio Emanuele II di Savoia, ladro, usurpatore ed assassinio, nonché il suo protobeccaio Camillo Benso Conte di Cavour, porco di Stato e pedofilo che ordinarono ai propri sadici macellai di mettere a ferro e a fuoco il Regno delle Due Sicilie, Stato libero, sovrano e indipendente e di annetterlo al Piemonte grazie ad un plebiscito che fu una truffa schifosa, combinata dai garibaldesi, soldataglia allobrogica e camorra napoletana. E fu così che l’invasione fu chiamata liberazione, l’usurpazione fu chiamata “fratellanza”. Manna non si vergognò e mostrò tutta la sua capacità di protesta davanti al silenzio e all’abbandono dei suoi deputati camerati dalla Camera, confermando “gli intenzionali bestiali crimini perpetrati dalla soldataglia piemontese” ai danni delle popolazioni inermi delle “usurpate province meridionali”. Da quella protesta passò, nel 1991, a fondare il Fronte del Sud in opposizione al sciovinismo padano della Lega di Bossi attraverso questo invito rivolto ai napolitani residenti ed emigranti: “Acquistate solo prodotti del Sud perché siamo un popolo di consumatori e così incentiviamo i prodotti del Mezzogiorno”; “Ritirate i vostri depositi dalle banche pubbliche e dalle Poste”; “Uscite dai partiti e dai sindacati nazionali”. Manna rappresentò il puro autonomismo napolitano affermatosi nel Novecento, anche se la spinta radicale dell’indipendentismo si ebbe grazie al contributo di Nicola Zitara. Zitara, insegnante di diritto ed economia, condusse la sua battaglia politica e culturale a difesa del popolo napolitano negli anni 70 con Francesco Tassone con la guida dei “Quaderni Calabresi” e del Movimento Meridionale. Anche Zitara, come Salvemini e Alvaro, affermò l’esistenza coloniale della Napolitania dipendente dalla Padania: “Il Sud, da quando il Nord lo ha conquistato, è stato squalificato sia nell’immagine che nella capacità produttiva. I padani, per svilupparsi, volevano un popolo di iloti, e lo hanno avuto. Hanno regalato ai ricchi le terre della Chiesa e il Demanio pubblico, hanno prezzolato i politicanti, hanno scatenato il clientelismo, hanno inaugurato il notabilato, hanno escogitato l’assistenzialismo, hanno governato simultaneamente coi carabinieri e con la mafia. E coi partiti e i sindacati nazionali hanno falsificato lo scontro politico. Il Meridione è oggi un paese che si identifica solo per negazione. I meridionali sono italiani negati dalla stessa Italia.” Zitara affermava con coraggio che noi napolitani “Siamo un grande popolo. Siamo stati alle origini della civiltà occidentale in tutti i campi. L’umiliazione di essere cornuti e mazziati come Pulcinella deve finire. Per noi. Per i nostri figli e nipoti. Per i nostri padri e avi” e condannò duramente lo Stato coloniale e sua la partitocrazia, perché quest’ultima è stata la responsabile della calunnia nei confronti dei calabro-napolitani durante la rivolta di Reggio Calabria nel 1970 e, proprio a causa di quell’ingiustizia, divennero a loro insaputa ostaggi della manipolazione da parte della destra ascara e della ‘ndrangheta. Il 4 settembre 2004 fondò a Mongiana il Partito Separatista degli Italici, il primo movimento indipendentista napolitano che, purtroppo, ebbe pochi scritti e lo stesso Zitara non poté supportare tale bellissima iniziativa, perché morì nella sua Siderno il 1° ottobre 2010, ma non ha avuto la sua fine, benché nel giugno del 2018 Franco Zavaglia, suo strenuo sostenitore, riuscì a ricostituirla in Partito Separatista delle Due Sicilie.

Per evitare che i napolitani residenti ed emigranti non siano lasciati da soli, bisogna ammettere che non esiste un solo e unico meridionalismo, ma due meridionalismi che, purtroppo, esprimono iniziative diverse: il primo sta dalla parte dello Stato coloniale e della sua politica discriminatoria e il timore è che esso detiene le tracce dell’ascarismo, mentre il secondo è l’esatto contrario del primo, propenso alla verità storica e alla difesa dell’identità nazionale, dei diritti e delle libertà del popolo napolitano, dovendo però ostacolare e superare i tentativi delle trappole ordite dagli ascari, in particolare dalla Mafia, e dal governo coloniale. Per quanto riguarda sull’esistenza della Mafia, Pasquale Villari disse per sbaglio che i Borbone convivevano con la camorra, ma scopriamo che nel libro di Enrico Fagnano, “La Storia dell’Italia Unita” (2021) la mafia ha avuto due ruoli principali nella sua storia: la sua partecipazione alla spedizione mercenaria di Garibaldi, l’esercizio della pubblica sicurezza affidata dal traditore Liborio Romano e l’uso della violenza nei seggi del plebiscito. Anche Napoleone Colajanni, ex-mercenario garibaldino, nel suo libro “Nel Regno della Mafia” (1900) disse che esistette una vera connivenza tra il nuovo Stato e la mafia e ben comprese che la sua partecipazione in quella spedizione mercenaria era motivata dalla sua totale emarginazione sotto i Borbone per la sua crudeltà e il suo servizio presso i baroni (quindi erano fuori dallo Stato duosiciliano) e inaugura che “il governo italiano cessi di essere il Re della Mafia”. Se Nicola Zitara diceva che “la mafia è un modo per tenere sotto controllo un paese che vorrebbe svilupparsi e non ha la possibilità di farlo, non perché gli manchino le risorse ma perché l’amministrazione delle risorse appartiene ad un altro che non gli consente di utilizzarle”, anche il siciliano Giuseppe De Felice Giuffrida non aveva torto nel dire che “Questa istituzione (la mafia) non è la vergogna della Sicilia, ma del Governo che la mantiene”. Se si vuole manifestare il vero amore verso quella terra e quel popolo che noi apparteniamo e che siamo nati senza vergogna, dobbiamo dimostrare che quel popolo va amato e non ostacolato né sottomesso, perché sarebbe sia un errore sia un peccato di Dio e se il meridionalismo intende essere vicino al popolo napolitano che sia, una volta per tutte, identitario di sé e con cuore puro, senza la complicità e senza gli inganni.

Antonino Russo

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