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Tradizionalismo, nostalgismo e leggende nere di Gianandrea de Antonellis

Posted by on Dic 31, 2024

Tradizionalismo, nostalgismo e leggende nere di Gianandrea de Antonellis

La prima volte che incontrai Silvio Vitale egli mi parlò dell’abolizione dei “Sedili” della Città di Napoli, una antica istituzione parlamentare napoletana (che risaliva almeno all’epoca angioina, ma collegata alle fratrie di epoca ducale) sciolta da Ferdinando IV con decreto del 25 aprile 1800.

In quell’occasione fu per me un colpo sentire un monarchico parlare di “gravissimo errore” e di “atto antitradizionale” di un Monarca per volontà divina: essendo culturalmente cresciuto alla scuola secondo la quale «il Re ha sempre ragione», fui profondamente turbato nell’udire una severa critica riguardante un Monarca – per di più un Monarca che stava combattendo contro i princìpi della rivoluzione. Quel giorno però compresi bene come il Re non sia «legibus solutus» e come al di sopra delle Corone, per sacre e volute da Dio che esse siano, esiste sempre qualcosa di più importante: una legge naturale e divina che si incarna nella Tradizione, naturalmente con la maiuscola.

Tutto ciò può apparire scontato a chi viva nella Tradizione, ma non lo era a chi si affacciava solo allora a più profonde teorizzazioni monarchiche e tradizionaliste, avendo fino a poco prima vissuto in un generico amore per la Corona, non senza confusione tra uomini, dinastie e princìpi, con naturale inclinazione all’assolutismo: «il Re ha sempre ragione», appunto. Vitale mi fece capire come fosse invece possibile – ed anzi auspicabile – una critica obbiettiva dell’operato del Monarca: ciò che egli argomentava a proposito della prima restaurazione.

A questo punto va fatta una considerazione: solitamente viene accusato di nostalgia – o di nostalgismo – chi nutre una incondizionata ammirazione per ciò che è “passato” da un punto di vista non strettamente cronologico, ma soprattutto ideologico. La Monarchia, il Medioevo, la Tradizione sono considerati da parte della mentalità progressista inutili cascami, ciarpame del quale ci si deve liberare in vista della necessaria (ed ovviamente immancabile) evoluzione.

Rimaniamo al periodo preso in considerazione in apertura: quello del ’99 napoletano e delle sue conseguenze.

La critica – pacata ed obbiettiva – che Silvio Vitale rivolgeva all’operato di Ferdinando IV apre un’altra e forse addirittura più importante porta: il rifiuto della nostalgia. Come ben si sa, il termine deriva dal greco nòstos (letteralmente significherebbe «dolore del ritorno»)ed è così definito dai vocabolari: «Stato d’animo melanconico causato dal desiderio di persona lontana (o non più in vita) o di cosa non più posseduta, dal rimpianto di condizioni ormai passate, dall’aspirazione a uno stato diverso dall’attuale che si configura comunque lontano»[1].

Possiamo quindi definire nostalgia la naturale aspirazione ad una situazione migliore (o a un luogo o persona cari) e nostalgismo la sua degenerazione, l’ammirazione sterile del passato, anche quando palesemente esso non può ritornare. Ma il nostalgismo è degenerazione della nostalgia non solamente quando l’ammirazione sia sterile: anche – e forse soprattutto – quando essa divenga incondizionata ed impedisca sia di vedere gli errori (nella fattispecie, l’antitradizionalità del decreto di scioglimento emesso da Ferdinando IV), sia di cercare altrove altri esempi di vita o scoprire momenti migliori della nostra storia.

Come abbiamo accennato, ogni critica, per essere realmente costruttiva, abbisogna di due elementi: obbiettività e pacatezza, cioè coerenza di esposizione. Una seria critica all’operato della Corona durante la Restaurazione – per essere realmente obbiettiva – non deve quindi fermarsi, ad esempio, alla usuale (e oserei dire banale) reprimenda per i 99 cosiddetti “martiri” di Piazza del mercato. La quale – apro una breve parentesi – viene generalmente fatta da chi tende a dimenticare gli oltre 1500 morti dovuti non alle baionette francesi, bensì ai paludati tribunali della repubblica giacobina (circa 10 al giorno, un’ottima media, non c’è che dire).

Un chiaro esempio della mancanza di obbiettività e pacatezza è avvenuto l’anno scorso in seguito ad un articolo che Ernest Luttwak scrisse a proposito della situazione americana in Iraq. Il breve, ma interessante saggio, conteneva vari suggerimenti strategici e diplomatici – tra l’altro parlando senza mezzi termini di “occupazione straniera” in una logica dichiaratamente egemonica di imposizione della democrazia a tutto il mondo.

L’intervento, uscito su Foreign Affairs[2]venne reso noto al pubblico italiano da un articolo sul Corriere della Sera a firma di Gianni Riotta[3]. Il giornalista del Corriere si “allargava” un po’ rispetto all’originale, lasciandosi andare a interpretazioni da “vulgata”: in particolare osava un doppio parallelo tra Bush ed Eleonora Pimentel Fonseca e tra al-Zarqawi ed il cardinal Fabrizio Ruffo.

Sarebbe stato naturale criticare innanzitutto l’azzardo di mettere sullo stesso piano un Cardinale di Santa Romana Chiesa e un terrorista, ma ciò non avvenne: ci invece fu un insorgere delle vestali neo-giacobine[4] che, a voce dell’onnipresente Gerardo Marotta, di Anna Maria Rao e di altri esponenti di certa cultura progressista ritennero inammissibile un simile parallelo. Marotta lo definì addirittura «funamboleria ariostesca»: «Bush come Eleonora Pimentel Fonseca? È come il lupo cattivo nei panni di Cappuccetto Rosso, un lupo che vuole mangiarsi il popolo iracheno». Proseguiva il fondatore dell’Istituto di Studi Filosofici: «Questo è uno stravolgimento totale della storia di Napoli, indica la vittoria del kitsch perfino nella circolazione delle idee nel mondo contemporaneo».

Notevole il contributo della professoressa Anna Maria Rao «Senza parlare poi del fatto che Eleonora non era certo un capo di Stato»[5]. Nessuno notò che ci fosse stato anche una fondamentale differenza di sesso, di lingue madri e di pettinature a rendere inverosimile il paragone. Non una parola – naturalmente – in difesa di Ruffo.

A simile fuoco di fila Luttwak rispose chiedendo ironicamente scusa ai «difensori dell’augusta memoria di Eleonora Pimentel Fonseca» e precisò che il paragone Bush-Eleonora non esisteva nel suo scritto originale; sottolineava però come la direttrice del Monitore napoletano fosse «evidentemente ormai assunta a santità laica»[6], per precisare qualche giorno dopo, in risposta ad un intervento che criticava la definizione di liberale per il movimento giacobino[7]: «È vero che in una seconda frase ho usato il termine “liberali”, ma era un puro errore di composizione, poiché – come Gianandrea de Antonellis giustamente spiega – i “giacobini” partenopei come quelli parigini erano estremisti, violenti e tendenzialmente totalitari, e quindi totalmente differenti dai liberali di qualsiasi definizione, sia quelli (Whigs) inglesi – riformatori moderati – che i “liberali” degli Stati Uniti di oggi (alla Kennedy) o i liberali italiani lassaiz faire all’Einaudi»[8]

Perché soffermarci tanto a lungo su una diatriba apparentemente banale? Perché essa serve molto bene a delineare il concetto di nostalgismo. In questo caso siamo di fronte ad una «ammirazione sterile ed incondizionata del passato», come abbiamo voluto definire la degenerazione della nostalgia: incondizionata, perché – come un osservatore imparziale quale Luttwak ha affermato – si è trasformata addirittura in santa laica una figura dai tratti mediocri come Eleonora Pimentel Fonseca, due volte cortigiana: prima in senso etimologico, in quanto persona legata alla corte (ricoprì la carica – una sinecura – di bibliotecaria della regina) e poi in quanto infelice autrice di poesie incensatorie del potere (cantò, con la Nascita di Orfeo, la venuta al mondo del futuro Francesco I, senza vergognarsi di paragonare Ferdinando IV e Maria Carolina a Giove e Giunone!).

Abbiamo assistito alla “santificazione” (laica, ma pur sempre santificazione) di un personaggio che, senza la fine sul patibolo, difficilmente sarebbe stato ricordato se non per aver fondato un giornale. (E a tal proposito verrebbe da parafrasare il famoso motto – risalente a quegli stessi anni – di Samuel Johnson: «Una donna che scrive è come un cane che cammina sulle zampe posteriori: non è ben fatto ma è comunque sorprendente»[9]).

Tornando al tema iniziale, mentre moltissimi hanno riversato fiumi di inchiostro per esecrare i fatti di piazza del Mercato, ben pochi si sono invece soffermati sul problema dell’abolizione dei Sedili: non comprendendo quindi le terribili conseguenze che un simile gesto ha avuto sulla società napoletana, portando necessariamente la Restaurazione (quella del 1815) ad imprimere una svolta assolutista. Anzi peggio, perché l’assolutismo venne temperato (in negativo) dal perdonismo della politica dell’amalgama.

Il decreto di Ferdinando IV era stato motivato dal dubbio che i rappresentanti dei Sedili avessero voluto instaurare una “repubblica aristocratica”, nel momento in cui la fuga del Re a Palermo e l’acquiescenza ai Francesi del suo Vicario a Napoli,  Francesco Pignatelli, lasciavano la città ed il Regno in balia degli invasori. In una lettera a Lady Hamilton, la Regina parlerà di «quelle canaglie dei nobili» e di «infame Città»[10] (cioè assemblea dei Sedili).

La paura di una repubblica aristocratica, dunque, spingerà ad incarcerare anche gli esponenti dei Sedili (tra cui il Principe di Canosa), addirittura senza farli beneficiari – almeno in un primo tempo – dell’amnistia riservata ai giacobini ed infine a sciogliere la quasi millenaria istituzione.

Pensiamo a cosa scriverà Monaldo Leopardi nel 1833 (a quasi vent’anni dal momentaneamente definitivo ritorno dei legittimi sovrani sul Trono): la presenza dell’aristocrazia serve da un lato a respingere l’ugualitarismo massificante, dall’altro a temperare ogni forma di totalitarismo. Senza l’aristocrazia la monarchia diventa «un edifizio di cristallo piantato in una immensa palude di fango»[11]. Le parole di Monaldo Leopardi servono a farci comprendere come fosse sentito il problema della mancanza di una élite tradizionale non solo nello Stato Pontificio, ma in tutta l’Europa: un tema dimenticato o almeno fatto passare in secondo piano da coloro che vedono nella Restaurazione la panacea, rischiando di non comprendere come il Trono, nel 1815, fosse irrimediabilmente “tarlato” (mi si perdoni l’espressione) e che solo l’opera di poche Cassandre lungimiranti ed inascoltate come il Conte Monaldo Leopardi ed il Principe di Canosa avrebbero potuto renderlo saldo.

Ma alcuni pregiudizi tipici del mondo moderno, dalla teoria hegelian-darwiniana del costante sviluppo alla retorica razzial-nazionalista, hanno infettato anche la mentalità tradizionalista: per quel che attiene al Regno di Napoli il periodo borbonico viene quindi considerato come il migliore dei regimi possibili. Nessuno nega che da Re Carlo VII (meglio chiamarlo così, perpetuando una tradizione dinastica che risale ai Normanni, anziché con il numerale spagnolo di Carlo III) a Francesco II, Napoli ed il suo Regno abbiano attraversato un momento di indiscusso sviluppo culturale e tecnologico; è però necessario considerare obbiettivamente il distacco dalla Spagna e l’indipendenza come un motivo di indebolimento politico e di conseguente dipendenza da altre potenze internazionali, in particolar modo dall’Inghilterra. In altre parole il contemporaneo pregiudizio nazionalistico (favorevole all’indipendenza) gioca un ruolo importante anche nel mondo tradizionalista, spingendo a ritenere il Regno delle Due Sicilie il periodo più fecondo dell’intera storia di Napoli.

Eppure sappiamo bene come la clamorosa caduta del Regno nel 1860 si spieghi anche – se non soprattutto – con motivazioni di carattere diplomatico: da troppi anni la prosperità del Regno era affidata al pesante sostegno inglese e – al di là delle situazioni contingenti come la questione delle zolfare – la formale autonomia si era trasformata in una dipendenza di fatto dall’Impero britannico.

Ben diverso status aveva ricoperto Napoli quando era inserita in un altro Impero, quello spagnolo di Carlo V e delle sue propaggini regali di Fillippo II, III e IV. Allora la città del golfo era importatrice e non esportatrice di cultura, vedeva giungere i più grandi cervelli dell’epoca, ospitava Miguel de Cervantes ed ispirava Lope de Vega, stipendiava Caravaggio e Ribera.

E qui torniamo ancora, in conclusione, a Silvio Vitale ed al suo insegnamento: lo studioso, che riteneva riduttiva la definizione di «borbonico», aveva sottotitolato L’Alfiere «rivista tradizionalista napoletana»; la sua rivista non aveva mai limitato gli interventi alla sola ed unilaterale esaltazione del periodo borbonico; aveva anzi ben approfondito in particolare il periodo spagnolo di Napoli, ingiustamente misconosciuto, aggiungendo agli altri il merito di essere stato il principale – se non l’unico – divulgatore in Italia del pensiero e delle opere di Francisco Elias de Tejada[12].

Nel suo ultimo volume, dedicato allo stemma del regno napoletano, era partito dai Normanni, dimostrando piena coerenza con i propri ideali e confermandosi un campione della Tradizione contro ogni nostalgismo.


[1] Vocabolario della lingua italiana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana.

[2] Gennaio-febbraio 2005.

[3] Gianni Riotta, George W. il giacobino e i sanfedisti di Bagdad, Corriere della Sera, 12 gennaio 2005.

[4] Mirella Armiero, Bush come Eleonora? Un coro di «no» alla tesi di Luttwak, Corriere del Mezzogiorno, 14 gennaio 2005.

[5] Ibidem.

[6] Edward Luttwak, Il mio Bush «giacobino», ivi, 19 gennaio 2005.

[7] Gianandrea de Antonellis, I giacobini? Non erano liberali, ivi, 23 gennaio 2005.

[8] Edward Luttwak, «È vero, i giacobini non erano liberali», ivi, 25 gennaio 2005.

[9] «Sir, a woman’s preaching is like a dog’s walking on his hinder legs. It is not done well; but you are surprized to find it done at all». James Boswell, The life of Samuel Johnson (1791), vol. I.

[10] La lettera è riportata da Paolo Pastori, Frammenti di un altro 1799, Giappichelli, Torino 2003, p. 212.

[11] Monaldo Leopardi, L’aristocrazia, in La Voce della Ragione, anno II (1833), n. 35.

[12] Non che Vitale sia stato l’unico studioso dello storico spagnolo, ma è ben colui che lo ha reso accessibile ad un pubblico italiano. È inutile vantarsi di conoscere bene l’opera di Elias de Tejada e poi non riservare al suo Naples ispanico (non a caso lo cito rigidamente in spagnolo) neppure una nota in un saggio di 447 pagine come Alle origini di una nazione (a cura di Aurelio Musi, Guerini e Associati, Milano 2003).

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