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Un ballo mistico: la Tarantèlla

Posted by on Set 16, 2018

Un ballo mistico: la Tarantèlla

«La Tarantèlla! Tutti la conoscono; è una danza vulcanica come le emozioni che esprime; è la storia d’una passione meridionale in ogni età, in ogni sua fase. Ogni gesto è un’idea, ogni posizione un sentimento. Prima la danza è ritenuta pudica, chiusa, meraviglioso emblema delle lotte intime d’un amore silenzioso; poi, quando la passione dilaga e trionfa, essa si anima, s’abbandona alla passione e, da timida che era, diviene audace. Pur resistendo, essa attacca; pur indietreggiando, essa avanza, trascina e, tale una baccante ebbra, una baccante in delirio, si dà ciecamente al piacere. Per apprezzarne la poesia, il cui eroe è l’amore, che si vede nascere, aumentare, lottare e vincere, bisogna veder danzare questa poesia sotto i cieli che l’hanno ispirata e dal popolo che l’Italia l’ha composta». Così scrisse nel 1845 lo scrittore di origine svizzera Charles Didier, nel suo Italia pittoresca.

Il nome Tarantèlla, riferito alla musica che risanava i Taratati (ma che poi avrebbe allietato anche le feste popolari), appare per la prima volta nel 1608 in uno spartito musicale trascritto da Foriano Pico. Questo ci porta a credere che già prima esistesse un ballo o un’aria musicale con questo nome o con questa funzione.
Infatti, come narra il medico tedesco dell’Ottocento Friedrich Karl Justus Hecker nel suo Danzimania, «fin dal secolo XV si manifestò nelle Puglie una strana malattia nervosa, attribuita al morso velenoso di un ragno chiamato Tarantola, per la quale i morsicati, o anche per genio epidemico quei che temevano di esserlo stati, divenivano melanconici quasi stupefatti e appena capaci di ragione. Questo stato in molti si associava ad una sì

 

grande sensibilità per la musica che ai primi tocchi di una melodia prediletta esultavano di gioia e dapprima lentamente e indi sempre con più rapido moto danzavano senza posa, fino a quando estenuati cadevano al suolo. Era inoltre comune opinione che il veleno della Tarantola, mercè la musica e la danza venisse distribuito a tutto il corpo ed eliminato col sudore per via della pelle. Per conseguenza si credé che la musica fosse l’unico rimedio contro il morso del malefico ragno, e fin dal principio del secolo XVII intere turbe di suonatori giravano all’uopo per le città e per le campagne durante mesi d’estate, nei quali specialmente veniva intrapresa la cura degli ammalati che accorrevano i frotte a cercare nel ballo un farmaco ai loro tormenti. La qualità della musica stava in stretto rapporto colla natura della malattia, ed essa fece si profonda impressione negl’italiani del Mezzogiorno, che anche oggidì, benché scomparsa da lungo tempo la malattia conservasi presso di loro la Tarantèlla come una musica particolare per ballo, i cui tempo si fa sempre più celere e stretto».
In effetti, era possibile che i contadini fossero morsicati da un ragno mentre lavoravano nei campi e manifestassero sintomi simili ad attacchi epilettici. Tuttavia il vero responsabile non era certo la Tarantola (Lycosa tarentula), bensì il piccolo, apparentemente innocuo, ma in effetti assai temibile, Latrodectes tredecimguttatus (un ragnetto chiamato anche Malmignatta, appartenente allo stesso genere della vedova nera americana, con il corpo nero e rossiccio, ovale, e lunghe zampe sottili). La responsabilità era invece accollata alla Tarantola, che a causa delle maggiori dimensioni era il colpevole ideale.

L’origine del ballo è molto ambigua. Secondo alcuni studiosi, la Tarantèlla deriva da una danza, la Sicinnide, fatta in onore del dio Dionisio nei baccanali. Durante queste feste i danzatori spesso usavano una veste detta Tarantinula o Tarantinidion. Conferme si trovano non solo su molti vasi greci, ma anche nella famosa “stanza della parete nera” di Pompei, dove sono raffigurati satiri danzanti nelle tipiche movenze della Tarantèlla. Questi culti arrivarono in Italia a seguito dei flussi migratori che videro stabilirsi gli Spartani e gli Achei in Puglia, successivamente anche in Campania e verso lo stretto di Messina (i Calcidesi), in Calabria (gli Achei del Peloponneso), in Sicilia (i Dori).
Secondo altri studiosi il ballo deriva da “Piccola Taranta”, una danza estatica e/o di possessione e/o di prevenzione, capace di autoindurre stati di trance. E’ il fenomeno del Tarantismo, una specie di esorcismo coreutico-musicale, una pratica simile al “Vudu” o alla “Macumba” afroamericane.
In effetti, la neurofarmacologia ha dato una spiegazione logica al fenomeno del Tarantismo: i movimenti convulsi ed estenuanti della danza provocano nel corpo il rilascio di endorfine la cui azione, unita all’assunzione di molta acqua per indurre il vomito, risulta lenitiva del morso del ragno, conducendo talvolta alla guarigione clinica.
In definitiva la Tarantèlla è in stretto rapporto con il fenomeno del Tarantismo: essa assunse un carattere apotropàico, ossia era utilizzata per l’allontanamento e/o l’esorcizzazione di influenze maligne attraverso l’adorcismo, un antico rituale di segno opposto all’esorcismo mediante il quale gli spiriti o i santi sono invitati ad entrare nel corpo per aiutare. Ma le origini del Tarantismo sono anche da ricercare nel mondo antico classico, in cui i riti dionisiaci avevano una funzione catartica, ossia servivano per purificare e liberare.

La pratica della terapia musicale per guarire determinati mali, ha infatti radici antiche. Platone in due opere, Fedro ed Eutidemo, descrive un fenomeno dell’antica Grecia simile al Tarantismo. Nella prima opera distingue la cosiddetta follia dalla “giusta mania” la cui funzione è quella di regolarizzare l’eccesso di irragionevolezza dandole un’orientazione telestica, nella seconda accenna più compiutamente all’impiego di formule cantate per annullare le conseguenze dei morsi di scorpioni, serpenti e ragni malefici.
Altra azione terapeutica della musica e della danza è testimoniata da un passo di Euripide: Demetra, in ansia per la scomparsa della figlia Persefone, è ammansita nei suoi eccessi isterici da una terapia musicale messa in atto dalle Muse e da Cipride, dea della bellezza. Questi momenti sono espressi superbamente dall’autore in questi versi: «Zeus per addolcire il cuore corrucciato della Madre parlò e disse: ‘O Cheriti, o venerande, andate a Demetra adirata per la vergine togliete con i vostri gridi festosi ogni dolore rallegrate, o Muse con i canti e le danze’. E fu allora che Cipride la bella delle belle tra gli

 

esseri beati fece la prima volta col suo fiato risuonare la voce sotterranea del bronzo e le tese membrane dei timpani percosse con le dita».
Percorrendo la storia a grandi passi, altro accenno alla pratica del Tarantismo lo ritroviamo nel Sertum papale de venenis, scritto nel 1362 da Guglielmo Marra da Padova, un potente della casata patrizia di origine normanna dei “della Marra”, con possedimenti in Basilica, Puglia, fino a Messina. Racconta messer Guglielmo che «quando il malato ode una melodia che coincide con il canto del ragno da cui è stato morso, ne trova giovamento».
«Genuit hic natura arachneum animal nocentissimum [.]», “la natura vi ha generato un animale dannosissimo, un malefico ragno” – scrive invece nel 1513 il medico umanista Antonio De Ferrariis nella più famosa delle sue epistole, De situ Japygiae – il cui veleno viene espulso al suono di flauti e tamburi. «Non ci crederei – aggiunge – se non n’avessi avuto numerose prove».
Anche Johannes Tinctoris, un grande compositore e teorico della musica del Rinascimento, e Heinrich Cornelius Agrippa, filosofo e alchimista del Cinquecento, accennano alle possibili funzioni terapeutiche di una particolare musica.
In particolare Heinrich Cornelius Agrippa, nel De Occulta Philosophia (1533), al capitolo XXXIV intitolato “Dell’armonia musicale, delle sue forze e del suo potere”, dimostra di conoscere il fenomeno del Tarantismo: «Si trova anche scritto che coloro i quali siano stati morsicati dalla Tarantola in Puglia cadano in sopore, dal quale vengono tratti mercè determinati suoni che li spingono a ballare in cadenza».
Nel 1602 a Napoli furono pubblicati I tre Dialoghi di Vincenzo Bruno, medico e filosofo di Melfi, il primo dei quali, soprattutto, si occupava del Tarantismo: si tratta del “Dialogo delle tarantole di due Filosofi dimandati Pico et Opaco”. Si legge nell’opera di un non meglio identificato pugliese, secondo il quale nell’anno 1596 narra di un’apparizione di una cometa dal 14 luglio al 2 agosto successivo, fenomeno al quale erano seguiti, come era logico aspettarsi, secondo la mentalità dell’epoca, avvenimenti funesti e molto inusuali (siccità, venti incredibili e così via). Ma accadde anche, si racconta, che molti uomini e donne furono morsi da Tarantole. Secondo il nostro testimone, a Venosa, città della Basilicata, patria dell’autore, accadde che questi molti uomini e donne morsi dal terribile ragno assunsero una varietà straordinaria di comportamenti a dir poco singolari: in numerosi casi queste persone affermavano di agire addirittura in obbedienza agli ordini di un’entità che ne dominava la volontà. Secondo l’esposizione che fa Vincenzo Bruno, si usciva da questa particolare condizione di “invasato” solo dopo aver danzato senza sosta una particolare musica.
Nel 1610 Matteo Zaccolini scrive per i Medici di Firenze un manoscritto di oltre cinquanta pagine proprio sul fenomeno del Tarantismo. Egli non autorizzò la pubblicazione a causa della natura “esplosiva” delle scoperte. Ma il “segreto” di Zaccolini, ossia la scoperta di un «ballo di quelli che sono morsi dalla Tarantola che guariscono per la presenza di oggetti colorati, oltre il suono di strumenti», non era per nulla nuova.
Il gesuita Athanasius Kircher, dopo essersi recato in Puglia nel 1630 per fare delle ricerche su alcune antiche terapie musicali legate al culto di Dioniso, pubblico nel 1641 un trattato dal titolo De arte magnetica. Nel suo lavoro l’abate pubblicò il risultato dei suoi studi sul fenomeno del Tarantismo.

Nel corso della storia, come spesso accade per i rituali a carattere magico e superstizioso, anche a questa tradizione si cercò di dare una “giustificazione” cristiana, riportando il tutto nel grembo di Santa Romana Ecclesia: quelle pulsioni represse che fino a quel momento si erano liberamente manifestate nell’orgiasmo pagano, in quelle manifestazioni impudiche con pose estatiche, trovarono la loro evocazione e risoluzione in un nuovo rito socialmente e cristianamente istituzionalizzato: la guarigione del morso attraverso la preghiera e l’intercessione dei santi.
Se la medicina, più tardi, spiegherà il fenomeno come disturbo mentale di tipo isterico, la Chiesa di Roma, quasi subito, giudicherà queste manifestazioni come possessione diabolica.
Ecco allora che i riti pagani sono soffocati dai nuovi apostoli di una religione che pretende di essere razionale e virtuosa: e così dalla festa del “dio che fa ballare”, si passa alla festa nascosta del “dio che perdona e aiuta”, degnamente rappresentato dal suo apostolo San Paolo di Tarso, innalzato a protettore dei Taratati.
Paolo di Tarso, accusando la Chiesa di Corinto di praticare una liturgia troppo irrazionale ed estatica, colpì indirettamente i riti orgiastici, esaltando una figura di donna riservata e

 

pudica al posto di quella invasata. Ricordiamo che le donne, non a caso, sono state da sempre considerate le persone più colpite dal morso del ragno.
San Paolo divenne il protettore dei Tarantati, il santo che concedeva la grazia per guarire dall’antico morso della Taranta che, attraverso il suo veleno, possedeva e dal quale ci si liberava con l’ausilio della musica, della danza e dei colori.
La leggenda secondo la quale San Paolo è il protettore dei Tarantati narra che egli sia giunto in uno dei suoi viaggi nel Salentonella e che, per ringraziare dell’ospitalità ricevuta, abbia lasciato in dono il proprio potere di guaritore dai morsi degli insetti e dei rettili velenosi agli abitanti di Galatina (in provincia di Lecce) rendendoli peraltro immuni ai morsi stessi.
Il rapporto Taranta-San Paolo è in realtà piuttosto conflittuale: il Santo è contemporaneamente ritenuto il protettore dei Tarantati, al quale s’implorava la grazia, ma anche colui che invia ragni o serpenti per punire di qualche colpa.
Nel Concilio di Trento, così, si arriverà a bandire il ritmo della Tarantèlla dalla musica come elemento demoniaco. Ma nel frattempo il ballo, seppure nel sottobosco della civiltà contadina più emarginata, continuò a funzionare, a guarire e, soprattutto, ad indurre in tentazione.

Il diffondersi delle idee illuministiche in Europa spazzò via superstizioni, magie e comportamenti non in linea con la ragione, compreso il mito del morso della Taranta. Più che la forza della religione fu la forza della ragione che emarginò e decretò la fine di tutta la cultura legata ai morsi della Tarantola e ai suoi rimedi. Le scienze dei Lumi, quindi, spiegarono il fenomeno come frutto della ignorante e superstiziosa cultura contadina, dove la linea di confine tra magia, religione e medicina era veramente sottile, ma anche come disturbo mentale di tipo isterico.
Fu la prestigiosa scuola medica napoletana a dimostrare l’inconsistenza delle pretese guaritrici del Tarantismo, confinando di fatto le vecchie pratiche coreico-sessuali ai livelli più bassi della stratificazione sociale.
Il primo a smontare la tesi del Tarantismo legata al mito del ragno che morde è Francesco Serao, medico e professore di grande fama nel Regno di Napoli. Lo scienziato, infatti, nel 1742, in una delle sue celebri lezioni accademiche, intitolata “Della tarantola o sia falangio di Puglia”, fondò la prima convincente teoria di una malattia generata non da veleni reali, bensì dalla melancolia, ossia quel particolare stato d’animo tendenzialmente negativo e vagamente legato ad una condizione depressiva.
Uno dei maggiori studiosi contemporanei del Tarantismo rimane Ernesto De Martino che nell’estate del 1959, con un antropologo, un etnomusicologo, uno psichiatra ed un sociologo, analizzò il fenomeno da un punto di vista storico, culturale e religioso. Il frutto di queste ricerche divenne due anni dopo un libro: La terra del rimorso.
La conclusione a cui pervenne De Martino fu quella del Tarantismo come un “male culturale”, un’isteria sociale, escludendo reali fenomeni di aracnidismo. Il ragno, o meglio il morso del ragno, diventa per De Martino il simbolo di tutto ciò che costituisce trauma o frustrazione economica, sociale, psichica o sessuale. Non a caso ad essere morse dal ragno erano per lo più le donne, emarginate tra gli emarginati, che durante l’estasi o il tormento del veleno, si potevano permettere di tutto, anche di mimare amplessi in pubblico. Per una donna, ma non solo per essa, la Taranta era spesso l’unica via d’uscita da uno stato nevrotico e sociale o da forme di depressione individuale, e l’unico modo per essere integrate nella comunità.

Col tempo, il Tarantismo, radicatosi
nella Puglia e poi nelle altre regioni meridionali, si traveste da Tarantèlla, per poi avviarsi a diventare danza popolare e sociale compatibile con la morale del tempo.
In realtà, il processo di trasformazione in “danza gentile” fu molto lungo. Passò del tempo prima che l’intera popolazione l’accettasse e la praticasse nelle forme aggraziate con le quali è ancora tutt’oggi praticata. Negli strati più bassi della società si è continuato per lungo tempo, pur dietro la nuova etichetta della Tarantèlla, a danzare alla vecchia maniera del Tarantismo e dei rituali dionisiaci.

 

In definitiva, anche nei luoghi dove il Tarantismo si riduce e scompare, resta la Tarantèlla, che lentamente si modifica tramandandosi oralmente di generazione in generazione, evolvendosi nella sua funzione di ballo collettivo o di coppia, oppure di ritmo e di forma musicale e poetica. Il ballo quindi è così riproposto anche in assenza del Tarantato, diventando una festa con tutto il suo carattere allegro, ludico ed anche sentimentale.
Il fascino della Tarantèlla conquista pure la musica colta e grandi musicisti la rielaborano in forme originali, adattandola anche al canto e alle orchestre: Liszt, Chopin, Schubert, Rossini, Stravinskij, Bazzini, Mendelsshon.
In definitiva, Tarantèlla diviene il nome generico di una danza popolare del Sud Italia, se pur in ogni zona si differenzia da un’altra. Essa diventa il tratto distintivo di una identità, quella del Mezzogiorno d’Italia.
La sua struttura musicale definitiva si basa su un tempo musicale di 6/8 o 3/8. Si balla in gruppi organizzati e in coppia, come danza di corteggiamento.
Per quanto riguarda gli strumenti musicali, questi si sono arricchiti sempre di più, a seconda dei periodi storici e delle tradizioni relative alle diverse realtà geografiche meridionali. Uno strumento tipico di tale ballo, che è ancora tutt’oggi usato, è il tamburello a sonagli o a piattini: un cerchio di legno con i campanelli o piattini metallici attorno, vuoto o sormontato da una membrana utilizzata per le percussioni. Mentre la mano libera del danzatore percuote la membrana o il cerchio di legno, l’altra mano agita il tamburello per far tintinnare i campanelli. Il tutto al fine di creare un’atmosfera di festa e di sfrenata allegria. In aggiunta, il ritmo può essere segnato o dallo schioccare delle dita dei danzatori o da castagnole tenute fra le mani.
Molti sono i sottogruppi stilistici che hanno una propria denominazione: Viddhaneddha, Pizzica pizzica, Ballë ‘n copp’o tammurrë, Zumpareddu, Tarascone, Zumparella, Pastorale e così via.
Ancora oggi, ogni volta che si esegue la Tarantèlla o la si ascolta, l’atmosfera si carica di significati extra-musicali: è allegria, spensieratezza, momento di festa. E’ storia che si materializza, è sentimento che si balla, è orgoglio per le proprie origini, è sentimento puro. E’ ritmo della vita.

RENZO PATERNOSTER

fonte

http://win.storiain.net/arret/num150/artic6.asp

 

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